Cap. 28 – Disabilità e Decadimento Cognitivo nell’Anziano

Capitolo del Manuale per operatori “Educare alla Salute e all’Assistenza”

Autrice: Alba Malara

Indice

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INVECCHIAMENTO E DISABILITÀ

L’invecchiamento globale della popolazione ha una grande influenza sulla prevalenza della disabilità. C’è una chiara relazione tra un maggior rischio di disabilità e l’età avanzata, come conseguenza della cronicità e delle comorbilità associate all’età. I tassi di disabilità sono molto più alti tra i soggetti di età compresa tra 80 e 89 anni, la coorte di età che, con un incremento annuo del 3,9%, rappresenterà il 20% della popolazione mondiale di ultrasessantenni nel 2050 (World Report on Disability, 2011). In Europa si prevede che entro il 2060 gli ultrasessantacinquenni aumenteranno da 88 a 152 milioni, rappresentando il doppio della popolazione sotto i 15 anni. Questa transizione demografica è storicamente importante perché si accompagna ad un notevole aumento delle malattie croniche che diventano la principale causa di disabilità e mortalità. La disabilità associata a demenza è in aumento e, nei paesi ad alto reddito, riflette almeno in parte l’età media più avanzata e una maggiore consapevolezza e diagnosi di questa condizione. L’incidenza globale della demenza è stimata, su scala mondiale, su oltre 9,9 milioni di nuovi casi all’anno di demenza, vale a dire un nuovo caso ogni 3,2 secondi. Questa nuova stima è più alta di quasi il 30% rispetto a quella riferita al 2010 e rappresenta una priorità per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Report on Aging and Health, 2015).

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INVECCHIAMENTO, COGNIZIONE E STILI DI VITA

La terminologia più comunemente usata per descrivere le abilità cognitive che cambiano con l’età, si basa sulla distinzione tra abilità cristallizzate e abilità fluide. Le abilità cristallizzate sono quelle abilità che risultano dall’elaborazione cognitiva avvenuta nel passato, tipicamente sotto forma di conoscenza acquisita. Le abilità fluide richiedono invece l’elaborazione cognitiva al momento della valutazione. Diversi studi hanno dimostrato che vi è un miglioramento nelle capacità cristallizzate fino a circa 60 anni, seguito da un plateau fino all’età di 80 anni, e vi è un costante declino nelle abilità fluide dall’età di 20 anni agli 80 anni (Murman, 2015) (Figura 1).

Figura 1: Cambiamenti età dipendenti delle abilità cristallizzate e delle abilità fluide

(Fonte: Murman DL, 2015)

Le capacità cognitive possono essere suddivise in diversi domini cognitivi specifici tra cui l’attenzione, la memoria, la funzione cognitiva esecutiva, il linguaggio e le abilità visuo-spaziali. I cambiamenti dell’attenzione più evidenti ed età dipendenti riguardano l’attenzione complessa; la memoria storica e la memoria autobiografica sono relativamente stabili con l’età avanzata, mentre l’apprendimento può essere compromesso negli anziani come pure la memoria di lavoro e la memoria prospettica. Le funzioni esecutive, in particolare le capacità di problem solving, di pianificazione e di multitasking diminuiscono con l’età, così come la formulazione del concetto, l’astrazione e la flessibilità mentale, specialmente nei soggetti di età superiore a 70 anni. Il linguaggio, il vocabolario, il ragionamento verbale e la comprensione possono rimanere per lo più inalterati nell’età avanzata, mentre la fluenza verbale, il recupero verbale e alcuni compiti di denominazione mostrano un certo declino. L’elaborazione visuo-spaziale e la prassi costruttiva rimangono stabili nell’età avanzata, tuttavia l’orientamento spaziale e la capacità di copiare una figura complessa, ad es. la figura di Rey, possono diminuire con l’età (Salthouse, 2012). Oltre che nelle funzioni l’età induce cambiamenti anche nella struttura cerebrale: in particolare si riducono le dimensioni del cervello, anche se non tutte le aree cerebrali sviluppano atrofia in modo uguale con l’invecchiamento (Pannese, 2011). Nell’invecchiamento fisiologico, un numero considerevole di neuroni cambia nella struttura ma non muore: si riducono il numero e la lunghezza dei dendriti, degli assoni, delle spine dendritiche e delle sinapsi e aumentano gli assoni con demielinizzazione segmentale. La perdita sinaptica è un importante indicatore strutturale dell’invecchiamento cerebrale: evidenze scientifiche suggeriscono che la demenza diventa sintomatica quando si verifica una perdita di circa il 40% di sinapsi neocorticali rispetto agli adulti normali (Morrison, 2012). Esiste un’interazione dinamica tra fattori che portano alla perdita sinaptica, alla neurodegenerazione e al deterioramento cognitivo e fattori che portano alla neuroplasticità e al mantenimento delle funzioni cognitive. Una varietà di meccanismi cellulari tra cui l’ischemia microvascolare, l’infiammazione, lo stress ossidativo, l’eccitotossicità e l’apoptosi sottendono la neurodegenerazione (Morrison, 2012). Seguire un corretto regime dietetico, evitare l’eccessivo consumo di alcol, fare regolare esercizio fisico, partecipare alle attività di stimolazione cognitiva, trattare la depressione, gestire lo stress emotivo e controllare condizioni mediche comuni come l’ipertensione, il diabete, la depressione e l’apnea ostruttiva del sonno, migliorano l’equilibrio dinamico verso la neuroplasticità piuttosto che verso la neurodegenerazione, riducendo il declino cognitivo e ritardando l’insorgenza dei sintomi cognitivi nel contesto delle malattie associate all’età (Murman, 2015). I dati di letteratura confermano che i soggetti adulti che svolgono regolare attività fisica mostrano meno neurodegenerazione rispetto a quelli fisicamente inattivi (Okonkwo, 2014) e che gli interventi di stimolazione cognitiva favoriscono il mantenimento delle funzioni cognitive nelle persone con demenza lieve o moderata più di qualsiasi altro approccio farmacologico (Woods, 2012); anche il numero di anni di istruzione formale e l’elevato stato socio-economico sono associati a un rischio ridotto di neurodegenerazione e demenza (Langa, 2008).

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DAL DEFICIT COGNITIVO ALLA DEMENZA

La demenza, in particolare il morbo di Alzheimer (AD), è una delle principali condizioni croniche che colpiscono le persone anziane in tutto il mondo ed è la principale causa di disabilità e di scarsa qualità di vita, esercitando un considerevole impatto sulle persone che ne sono affette, sulle famiglie e sui programmi governativi. A partire dagli anni ‘60, varie definizioni sono state usate per descrivere la fase preclinica della demenza: la diversa terminologia e la mancanza di criteri diagnostici standardizzati e condivisi ha reso difficile l’interpretazione dei dati. In molti trials clinici, la fase preclinica della demenza non viene descritta come un’entità diagnostica ma piuttosto come una condizione instabile ed eterogenea di un gruppo di soggetti che hanno un declino in uno o più domini cognitivi ma non sufficientemente grave da portare a una diagnosi di demenza (Scafato, 2010).

Differenti criteri diagnostici sono stati usati negli ultimi anni per descrivere gli stati pre-demenziali dell’età avanzata. Nel 1994, un gruppo di lavoro dell’International Psychogeriatric Association (IPA) ha proposto dei criteri per il Declino Cognitivo Associato all’Età (AACD) (Levy, 1994). Questi criteri per AACD sono stati utilizzati in diversi trials clinici come un costrutto alternativo basato sulla supposizione teorica che il declino cognitivo subclinico sia una caratteristica normale del processo di invecchiamento e non un processo patologico precoce. L’AACD richiede una storia di declino cognitivo graduale per almeno 6 mesi, con difficoltà in uno qualsiasi dei vari domini cognitivi ma non limitato alla memoria, in assenza di demenza e nessuna evidenza oggettiva (da esami fisici o neurologici o test di laboratorio) di condizioni mediche o psichiatriche presenti o passate, o uso di sostanze psicoattive che possano causare disfunzione cerebrale (Scafato, 2010). Dai dati dello studio IPREA (Italian Project on Epidemiology of Alzheimer’s Disease) risulta che in Italia, la prevalenza del deterioramento cognitivo in assenza di demenza, oscilla tra il 28,0% e il 45,0% della popolazione di età compresa tra i 65 e gli 84 anni, ossia dai 2,5 ai 4 milioni di anziani italiani non dementi sarebbero affetti da deficit cognitivo di diverso grado con un tasso di progressione a demenza conclamata, osservata nell’arco dei 3 anni successivi alla diagnosi, che varia dal 29% al 47%. Di conseguenza si può stimare che una quota compresa tra un terzo e circa la metà dei soggetti con deterioramento cognitivo sarebbe a rischio di sviluppare una forma di demenza, tra cui l’Alzheimer, nei 3 anni successivi all’insorgenza del deficit cognitivo (Panza, 2005).

Il Mild Cognitive Impairment (MCI), originariamente sviluppato da Petersen è forse il termine più comunemente usato per individuare lo stato intermedio tra normale invecchiamento e demenza (Petersen, 1999). Il MCI è definito come una sindrome da disturbi cognitivi ma nessun cambiamento nelle capacità funzionali, incluse le attività strumentali della vita quotidiana, tali da non soddisfare i criteri per il disturbo neurocognitivo maggiore (DSM V). Il MCI può coinvolgere uno o più domini cognitivi, ma la condizione che più frequentemente evolve in AD è il MCI con dominio di sola memoria (MCI amnestico). La progressione, stimata intorno al 15% circa all’anno, è graduale e può essere più evidente per i familiari che per il paziente (Murman, 2015).

La progressione del deficit cognitivo verso demenza riconosce diversi fattori di rischio: oltre all’età avanzata e ai fattori genetici, sono inclusi i fattori di rischio cardiovascolare (es. diabete, uso di tabacco, ipercolesterolemia, ipertensione, sindrome metabolica, obesità), fragilità fisica, basso livello di istruzione, scarso sostegno sociale e il non essere mai stato sposato. In particolare c’è una stretta associazione tra diabete e declino cognitivo, pertanto il controllo dei fattori di rischio cardiovascolari e cerebrovascolari può rallentare l’evoluzione del deficit cognitivo verso la demenza in alcune coorti di pazienti (Lin, 2013; Moyer, 2014). Anche la depressione è stata associata a declino cognitivo e demenza e, nonostante non sembra essere un fattore indipendente per la conversione del deficit cognitivo in demenza, studi recenti suggeriscono che la depressione potrebbe essere una manifestazione precoce del deterioramento cognitivo o che la patologia sottostante, che causa deterioramento cognitivo, può causare anche sintomi depressivi (Scafato, 2010).

Le evidenze epidemiologiche sono concordi nel riconoscere l’impatto che il deficit cognitivo nell’anziano può determinare in termini di pianificazione sanitaria e sociale, ed impone la necessità di adottare stili di vita corretti e integrare percorsi di diagnosi precoce per la demenza, riabilitazione e trattamento volti a fronteggiare e rallentare la compromissione cognitiva, a favorire il mantenimento dell’autonomia funzionale e ridurre il carico di disabilità legato alla demenza (Panza, 2005). Secondo il World Alzheimer Report 2015, circa 46,8 milioni di persone convivevano con una forma di demenza nel 2015. Questa cifra è destinata quasi a raddoppiare ogni 20 anni, raggiungendo 74,7 milioni di persone nel 2030 e 131,5 milioni nel 2050. Il trend di prevalenza e incidenza e le proiezioni riguardanti l’incombente epidemia di demenza presuppongono che la riduzione del rischio di demenza debba diventare una priorità esplicita nelle attività condotte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/WHO), e deve includere azioni chiare e piani con obiettivi, indicatori specifici e risultati concreti sia a livello nazionale che internazionale (World Alzheimer Report 2016).

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LO SCREENING COGNITIVO: QUANTI E QUALI STRUMENTI

Il deterioramento cognitivo nell’anziano si manifesta con diversa espressività clinica e temporale in funzione della complessa interazione tra età, assetto bio-psico-sociale, riserva cognitiva, comorbilità del paziente, forma clinica, entità del danno neuronale. La diagnosi della fase preclinica della demenza e l’individuazione di popolazioni ad alto rischio rappresenta la strategia più appropriata per ritardare o prevenire la disabilità legata alla demenza. La diagnosi precoce consentirebbe ai pazienti e alle loro famiglie di intervenire sugli stili di vita e di accedere ai percorsi di cura quando ancora il danno cerebrale e le sue conseguenze non sono consolidate, ottenendo così una migliore prognosi e ad una riduzione della morbilità. Esperti clinici e ricercatori hanno evidenziato i benefici sanitari, psicologici e sociali derivanti dal riconoscimento precoce della demenza, tra cui l’educazione sanitaria precoce dei caregiver alla gestione del paziente e il coinvolgimento del paziente nel decision-making mentre conserva ancora le sue capacità decisionale (Lin, 2013; Moyer, 2014).

La diagnosi di demenza è spesso eseguita da team multidisciplinari in centri ambulatoriali o ospedalieri specializzati. Tuttavia, vi è ampio consenso sul fatto che lo screening per la demenza debba essere condotto nell’ambito dell’assistenza primaria. Dati di letteratura dimostrano che il 29-76% dei pazienti con deficit cognitivo o demenza in fase iniziale non sono intercettati dai medici di medicina generale (MMG), la cui sensibilità diagnostica sembra essere fortemente correlata alla gravità della malattia, pertanto nella maggior parte dei casi la demenza viene diagnosticata negli stadi moderati o gravi. In molti sistemi sanitari, anche in quello italiano, i MMG svolgono l’importante ruolo di “gatekeeper”, decidendo quali pazienti debbano essere sottoposti a valutazione specialistica e quali no, ma la visita clinica ordinaria e l’esame obiettivo, potrebbero non consentire il riconoscimento del deterioramento cognitivo. L’impiego da parte del MMG di strumenti strutturati di valutazione può integrare la semplice osservazione clinica del paziente, migliorando la capacità del medico nel formulare il sospetto diagnostico di demenza. Esistono molti strumenti di screening cognitivo da impiegare nell’assistenza primaria, che richiedono 10 minuti o meno per la somministrazione, tra i più comuni il MMSE (Mini Mental State Examination), Clock Drawing Test (CDT), lo Short Portable Mental Status Questionnaire (SPMSQ) e il Montreal Cognitive Assessment (MoCA). Il MMSE è storicamente lo strumento più utilizzato, consta di una scala a 19-item, di 30 punti che permette di classificare il deficit cognitivo in lieve, moderato e grave, in base allo score ottenuto. Altri strumenti brevi alternativi come lo SPMSQ, richiedono non più di 5 minuti per la valutazione. Il CDT è uno strumento semplice e rapido, non è influenzato come molti altri test, dalle competenze linguistiche del soggetto né dalla presenza di sintomi depressivi. Una valutazione più dettagliata può essere condotta con il MoCA, che richiede 15-20 minuti e consente di valutare la capacità di giudizio, di problem-solving del paziente in ipotetiche situazioni di pericolo (Lin, 2013; Moyer, 2014). Uno strumento di screening alternativo è quello basato sul riferito di un informatore: il The Informant Questionnaire on Cognitive Decline in the Elderly (IQCODE) può essere un’interessante opzione anche se risulta poco sensibile nelle fasi iniziali di malattia (Jorm, 1994).

In generale, tutti questi test hanno una minore accuratezza e sensibilità diagnostica nel rilevare stati pre-morbosi piuttosto che la demenza, nonostante la regolazione dei cut-off di valutazione. Certamente non è possibile riconoscere un unico strumento come “gold standard”, ma sono stati identificati specifici tools idonei per una valutazione strutturata nell’ambito delle cure primarie. Il loro impiego permette al medico di attivare una sorveglianza sullo stato cognitivo del paziente e di essere il trigger per una valutazione di secondo livello. Un test di screening positivo innesca test diagnostici di II° livello che valutano la possibile eziologia del danno cognitivo e un più preciso inquadramento diagnostico. Oltre a una storia clinica più dettagliata e focalizzata e all’esame obiettivo, è necessaria un’accurata valutazione neuropsicologica, da parte di un medico esperto, test di laboratorio per identificare le cause potenzialmente reversibili di demenza (ad es. ipotiroidismo, carenza di vitamina B12) e studi di neuroimaging strutturali e funzionali come la tomografia computerizzata (TC), la RMN e la PET. Anche i test genetici per i geni autosomici dominanti per AD (APP, PS1, PS2) sono appropriati ma solo nei casi familiari a insorgenza precoce, mentre i test genetici per l’allele APOEɛ4 sono stati studiati come marker di suscettibilità ma non sono utili nel processo diagnostico del danno cognitivo (Lin, 2013; Moyer, 2014).

La valutazione cognitiva rimane l’elemento centrale per l’individuazione dei soggetti affetti da deficit cognitivo. Una recente meta-analisi ha riportato un’eccellente accuratezza predittiva per alcuni test che esplorano domini cognitivi singolarmente o in associazione. In particolare, la valutazione combinata della memoria verbale e dell’elaborazione semantica risulta avere una buona sensibilità e specificità nell’identificare i futuri “progressisti” da MCI a demenza (Belleville, 2017).

Un’altra possibile fonte di variabilità di progressione verso la demenza è lo stato funzionale. I tassi di prevalenza, d’incidenza e di progressione verso la demenza variano sensibilmente, includendo soggetti senza disfunzione cognitiva ma con compromissione delle abilità strumentali, quali lo shopping, la preparazione dei pasti, la gestione delle finanze, la pulizia della casa, l’uso del telefono, l’assunzione di farmaci, la guida o l’uso di mezzi pubblici (Instrumental Activity Daily Living-IADL), o soggetti con compromissione delle abilità di vita quotidiana, come l’alimentazione, la cura di sè, l’igiene personale, il vestirsi, l’uso della toilette, gli spostamenti e la deambulazione (Activity Daily Living) (Nygård, 2003; Boeve, 2003).

Infine, un’accortezza da avere presente nell’utilizzo di strumenti psicometrici per la valutazione cognitiva e funzionale del paziente anziano, è quella di tenere in conto non solo del valore assoluto del punteggio ottenuto, che è evidenza dell’attuale funzionamento, quanto del cambiamento di prestazione cognitiva o funzionale rispetto ad un livello precedente dell’individuo o un declino in uno o più ambiti cognitivi superiore a quanto ci si aspetterebbe rispetto all’età del paziente o al suo livello culturale, ciò consente di ottimizzare e migliorare la sensibilità della valutazione.

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EDUCAZIONE SANITARIA E PARADIGMA DI CURA: “VIVERE BENE CON LA DEMENZA”

Ci sono molteplici interventi farmacologici e non farmacologici mirati a prevenire o rallentare il deficit cognitivo negli anziani. Sicuramente l’adozione di corretti stili di vita, la stimolazione cognitiva, la partecipazione alla vita sociale, l’attività fisica costante e la gestione dello stress e delle comorbilità si associano ad un minore declino cognitivo. Tutto ciò prevede un approccio olistico e multidisciplinare che tenga conto delle preferenze delle persone con deficit cognitivo e dei loro familiari coordinando le risorse per aumentare l’efficienza, ridurre il carico di malattia e limitarne i potenziali effetti negativi (World Alzheimer Report, 2016).

Il messaggio per i professionisti, le famiglie e le persone con deficit cognitivo o demenza, deve essere quello di vivere bene con la demenza”, con particolare attenzione al mantenimento della funzione per tutto il tempo possibile, riacquistando la funzione persa quando c’è il potenziale per farlo, e adattandosi alla funzione persa se questa non può più essere recuperata. Una visione positiva della demenza, nell’ottica della funzione e non della disabilità, richiede di allontanarci dagli esuberanti aspetti negativi della demenza e orientarci piuttosto verso una prospettiva che punti a massimizzare la capacità intrinseca e le capacità funzionali delle persone che ne sono affette. Un approccio proattivo contribuisce al benessere, alla prevenzione delle potenziali crisi, a mantenere al proprio domicilio il paziente il più a lungo possibile in maniera autonoma o con il supporto più appropriato, ritardando l’accesso ad altri setting di cura a lungo termine. L’approccio centrato sulla persona auspicato, deve essere, ove possibile, supportato dall’autodeterminazione e dal coinvolgimento della persona che vive con deficit cognitivo e/o demenza nel processo decisionale.

Una recente review individua alcuni grandi domini che dovrebbero essere affrontati in un approccio di tipo proattivo. La gestione ottimale della malattia dovrebbe essere la pietra angolare: come per altre sindromi geriatriche, una gestione efficace della demenza dovrebbe iniziare con una valutazione medica / geriatrica completa, seguita da un pacchetto di interventi farmacologici e non farmacologici adattati ai bisogni dell’individuo e della loro famiglia, con l’obiettivo di massimizzare la qualità della vita. Controllare i fattori di rischio, riducendone l’impatto negativo attraverso buone regole di vita (alimentazione equilibrata, ricca di frutta e verdura, pesce, cereali integrali, oli vegetali e frutta secca; attività fisica regolare; pochi alcolici; niente fumo; controllo del peso corporeo), consente di mantenere migliori prestazioni intellettive più a lungo (Paulosa, 2017).

Un aspetto importante da considerare, riguarda il management attivo delle comorbilità che più frequentemente “clusterizzano” con la demenza, come il diabete, l’ipercolesterolemia, l’ipertensione arteriosa, l’insufficienza cardiaca congestizia, l’anemia, le aritmie cardiache e le malattie della tiroide, depressione e dolore cronico, al fine di migliorare la qualità di vita e la funzionalità globale del paziente. In particolare, la depressione e l’ansia, pur amplificando le disabilità correlate alla demenza, sono suscettibili di interventi psicologici e farmacologici specifici. Ad esempio, interventi come i gruppi di self-management, di terapia occupazionale, di interazione sociale o altre attività ludico-ricreative (leggere, frequentare mostre, cinema e teatri, occuparsi dei nipotini, dedicarsi ad attività di volontariato, organizzare feste e viaggi di gruppo) possono migliorare la capacità di memorizzazione, la gestione delle attività di vita quotidiana e la percezione di benessere in generale (Quinn, 2016; Graff, 2006).

Ci sono numerose evidenze sugli effetti dell’attività fisica nel migliorare le prestazioni, l’equilibrio, la mobilità, le ADL, e nel ridurre il rischio di cadute nelle persone con deficit cognitivo. Una recente meta-analisi suggerisce che l’esercizio fisico ha la potenzialità di migliorare le prestazioni cognitive sia nella malattia di Alzheimer che nel MCI, così come gli interventi di terapia occupazionale possono migliorare significativamente la qualità della vita e le ADL (Laver, 2016).

Particolare attenzione merita lo stato nutrizionale che dovrebbe essere valutato regolarmente per prevenire la perdita di peso e la denutrizione, molto comuni nelle persone affette da demenza (Malara, 2014).

L’adattamento ambientale è fondamentale per garantire la sicurezza: eliminare le fonti di pericolo, semplificare al massimo l’ambiente e la disposizione degli oggetti, evitare o ridurre al minimo i cambiamenti, fornire indicazioni segnaletiche per orientarsi nelle varie stanze, garantire una buona illuminazione degli ambienti ed evitare la presenza di rumori. Negli ultimi anni si è sviluppato un ampio campo di ricerca per l’implementazione di tecnologie a favore delle persone affette da demenza, specie nelle fasi iniziali e in quelle intermedie, e dei loro caregiver.

Sebbene le definizioni siano varie, la tecno-assistenza include dispositivi, apparecchiature, strumenti o software disponibili o realizzati appositamente per l’uso da parte di persone con disabilità. Le prove di efficacia sono ancora limitate e suscettibili di ulteriori ricerche, ma è opinione comune che la tecno-assistenza possa svolgere un ruolo importante nel sostenere le persone affette da deficit cognitivo e demenza. Esistono molti dispositivi generalmente raccomandati per promuovere l’indipendenza nelle attività quotidiane, come ausili e attrezzature per il bagno, ausili per la mobilità, organizzatori di medicinali e sistemi di allarme personali e altri dispositivi specifici per soddisfare i bisogni delle persone con demenza. Vari dispositivi, che agiscono come fattori ambientali facilitanti, possono compensare le limitazioni e promuovere la partecipazione ad attività di vita quotidiana, sociale o di svago. Numerose applicazioni scaricabili su dispositivi di telefonia mobile o su personal computer sono programmate per stimolare l’attenzione, la memoria, l’orientamento spaziale e mantenere le funzioni esecutive o le capacità di giudizio. Sono disponibili sussidi per i farmaci con sistemi di alert per ricordare l’assunzione della terapia farmacologica, o timer per i sistemi di riscaldamento con spegnimento automatico, dispositivi di localizzazione personale che possono essere utilizzati in caso di vagabondaggio o di smarrimento e persino animali domestici robotizzati e tecnologie di comunicazione digitale per la stimolazione cognitiva e l’impegno sociale (Bharucha, 2009).

Si tratta di un campo in piena espansione, sono infatti in fase di sviluppo “aiuti cognitivi intelligenti”, sensori fisiologici da indossare per rilevare eventi di caduta o monitorare i segni vitali per i più svariati motivi.

Nonostante i benefici che potranno derivare dalla tecno-assistenza, la formazione e l’educazione del caregiver rimane il presidio fondamentale e insostituibile. Un caregiver ben formato offre una maggiore opportunità per la persona con demenza di rimanere più a lungo in famiglia, di rimanere più funzionalmente attivo e con migliori prospettive di partecipazione nella comunità. Il caregiver deve essere istruito su ogni aspetto fisico, funzionale e soprattutto relazionale per garantire un’adeguata valutazione e soddisfacimento dei bisogni da quelli primari a quelli psico-sociali.

La cura e l’assistenza alle persone affette da demenza è difficile ed impegnativa e i caregiver, soprattutto se non adeguatamente formati, possono risentire del carico assistenziale e sviluppare stress e depressione. Non sono rari i casi in cui i caregiver diventano “secondi pazienti invisibili” per i quali è necessario identificare una serie di interventi pratici di supporto psicologico per ridurre il carico emotivo. Le evidenze disponibili suggeriscono che gli interventi atti a migliorare la qualità della vita del caregiver, esitano in un miglioramento globale degli outcome di funzione e qualità di vita della diade paziente/caregiver. Due revisioni sistematiche condotte in modo indipendente, che includevano studi di interventi psicosociali rivolti a caregiver di persone che soffrivano di demenza, hanno mostrato che alcuni interventi possono effettivamente ridurre la morbilità del caregiver e ritardare l’istituzionalizzazione delle persone con demenze (Huis In Het Veld, 2015, Brodaty, 2003). Le strategie comprendono piani di assistenza “goal oriented patient” che prendano cioè in considerazione i bisogni e le preferenze sia del paziente che del caregiver, interventi di formazione per migliorare la capacità dei caregiver di gestire i sintomi della demenza, specie i disturbi comportamentali, psicologici e il dolore, e svolgere correttamente i compiti assistenziali, riducendo la necessità di transizione in altri setting ospedalieri o residenziali.

Massimizzare la capacità funzionale nelle persone anziane, anche in quelle affette da deficit cognitivo e/o demenza, sta emergendo con sempre più convinzione come efficace strategia per promuovere l’indipendenza e ridurre la disabilità. Per affrontare questa sfida è necessario coinvolgere e responsabilizzare tutte le componenti, dalla persona con demenza, alla famiglia, ai professionisti della disciplina e a tutto il “macrosistema-salute”, formato non solo dai servizi ma da tutti gli attori istituzionali e sociali che hanno influenza sulla salute delle comunità e dei singoli individui. Si deve partire da una profonda riflessione sulle tendenze e sugli indirizzi dei servizi e dei professionisti, promuovendo una nuova cultura che dovrà impregnare, al di là delle differenze di ruolo, tutte le scelte di politica sanitaria, le strategie assistenziali, la tipologia dell’organizzazione, l’assetto operativo delle strutture e la conseguente offerta dei servizi.

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Glossario

  • AACD        Age Associated Cognitive Decline
  • AD             Alzheimer Disease
  • APOEɛ4    Apoliprotein E ɛ4
  • APP           Amyloid Precursor Protein
  • ARCD        Age-Related Cognitive Decline
  • BSF           Benign Senescent Forgetfulness
  • CIND         Cognitive Impairment No Dementia
  • CSHA        Canadian Study of Health and Aging
  • CDT           Clock Drawing Test
  • DSM-IV     Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders
  • ICD-10       International Classification of Diseases -10
  • IPA              Psychogeriatric Association
  • IPREA         Italian Project on Epidemiology of Alzheimer’s disease
  • IQCODE     The Informant Questionnaire on Cognitive Decline in the Elderly
  • MCD           Mild Cognitive Disorder
  • MCI             Mild Cognitive Impairment
  • MMG          Medico di Medicina Generale
  • MMSE        Mini Mental State Examination
  • MoCA         Montreal Cognitive Assessment
  • OCSE          Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
  • OMS/WHO Organizzazione Mondiale della Sanità
  • PS1              Presenilina1
  • PS2              Presenilina 2
  • RMN            Risonanza Magnetica Nucleare
  • SPMSQ       Short Portable Mental Status Questionnaire
  • TC               Tomografia Computerizzata

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Bibliografia

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