Cap. 15 – L’educazione Terapeutica e il sostegno al caregiver della persona con compromissione dell’autonomia o con necessità assistenziali complesse

Capitolo del Manuale per operatori “educare alla Salute e all’Assistenza”

Autori: Simonetta Di Meo, Silvia Biatta, Giulia Fogato, Giovanni Lamura, Silvia Pezzetta, Cinzia Vivori, Ermellina Zanetti

Indice

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INVECCHIAMENTO, DISABILITÀ, NON AUTOSUFFICIENZA

Le autrici di questo paragrafo sono Ermellina Zanetti e  Simonetta Di Meo

La transizione demografica ed epidemiologica che caratterizza il contesto odierno pone al centro dell’attenzione il problema dell’assistenza quotidiana alle persone che convivono, per periodi sempre più lunghi, grazie all’aumento dell’aspettativa di vita, con patologie croniche, con bisogni clinico-assistenziali complessi e in situazione di disabilità e non autosufficienza.

La disabilità è la condizione personale di chi, in seguito ad una o più menomazioni, ha una ridotta capacità d’interazione con l’ambiente sociale rispetto a ciò che è considerata la norma, pertanto è meno autonomo nello svolgere le attività quotidiane e spesso in condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale. Nell’anziano, la disabilità è la conseguenza principale, la via finale comune, delle malattie croniche e della loro combinazione. Poiché la prevalenza della maggior parte delle patologie croniche aumenta con l’età, con essa aumenta anche la prevalenza della disabilità. La disabilità ha un ampio spettro di manifestazioni: può insorgere sia acutamente (disabilità catastrofica) come conseguenza di una patologia che ha un impatto rilevante sull’apparato locomotore (ad esempio uno stroke o una frattura di femore) oppure quando il substrato clinico è molto fragile (ad esempio la polmonite in un paziente malnutrito e con grave comorbilità) oppure può manifestarsi progressivamente iniziando in modo subclinico (caratterizzato dallo sviluppo di limitazioni funzionali minime, ancora non tali da interferire in modo rilevante con la funzione): è il caso delle condizioni cliniche non fatali. In Italia vi sono quasi 4 milioni di ultraottantenni, il 6,5% della popolazione, contro una media europea del 5,3% (Eurostat, 2017).Vi è quindi un “invecchiamento dei vecchi” che condiziona e condizionerà sempre più una crescita numerica dei non autosufficienti. Secondo dati ISTAT riferiti al 2013 (ISTAT, 2014), le persone con limitazioni funzionali rappresentano il 19,8% degli ultra 65enni ma ben il 43,3% degli ultra 80enni.

I sostegni disponibili provengono in gran misura da tre componenti: i servizi pubblici di assistenza continuativa per Long-Term Care, il contributo diretto delle famiglie (caregiver familiari) e il lavoro delle assistenti familiari (badanti) (NNA, 2017). Il caregiver rappresenta una risorsa preziosa per le persone che necessitano di assistenza a lungo termine e per la sostenibilità dei servizi socio-sanitari. È pertanto fondamentale dedicare attenzione ai bisogni e ai problemi di questa insostituibile figura. Si possono identificare almeno due aree di intervento: quella istituzionale, orientata a rinforzare i servizi dedicati al sostegno della cura a domicilio e del caregiver, e quella individuale che sostiene il caregiver nell’assumere consapevolezza dei problemi connessi al ruolo e delle strategie possibili per affrontarli (autotutela). Tutti gli interventi devono essere rinforzati da una adeguata formazione dei professionisti che operano all’interno della rete dei servizi, anche finalizzati a sistematizzare la pratica della valutazione degli interventi, per individuare e replicare ciò che funziona (Dors, 2014).

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IL RUOLO DEL CAREGIVER, SITUAZIONE IN EUROPA E IN ITALIA

Le autrici di questo paragrafo sono Simonetta Di Meo e Silvia Biatta

I caregiver rappresentano un elemento essenziale, la spina dorsale, dell’attività assistenziale alle persone non autosufficienti in Europa: si stima che circa l’80% dell’assistenza complessivamente prestata nell’Unione Europea a persone non autosufficienti sia attualmente fornita da coniugi, figli/e, altri famigliari, amici e vicini, cosa che ha portato la Commissione Europea ad affermare che “il numero dei caregiver informali è almeno doppio di quello della forza lavoro formale” (European Commission 2013, Lamura, www.agenas.it).

Secondo la definizione di Eurocarers (Rete europea che rappresenta ed agisce in nome dei caregiver informali e delle loro organizzazioni) “I caregiver sono persone di qualsiasi età che forniscono assistenza (in genere senza remunerazione) a chi è colpito da malattie croniche, disabilità o altra necessità sanitaria o di cure continuative, al di fuori di un rapporto di lavoro formale o professionale” (http://www.eurocarers.org/) .

La componente affettiva dell’impegno per il benessere di un’altra persona viene definita “caring” e il “caregiving” è l’espressione comportamentale di questo impegno. Il caregiver condivide quotidianamente la vita con la persona malata bisognosa di assistenza, sia essa un anziano non autosufficiente, una persona adulta o minore affetta da invalidità acquisita o da patologie neurodegenerative o genetiche gravi ed invalidanti o di un ammalato temporaneo. Il caregiver diventa quindi risorsa ed interlocutore fondamentale per la progettazione di qualsiasi piano d’intervento.

In Italia l’ISTAT, nell’indagine pubblicata nel 2011, “La conciliazione tra lavoro e famiglia. Anno 2010” quantifica in 3 milioni e 300 mila le persone (l’8,4% della popolazione tra i 15 e i 64 anni) che riferiscono di aver assistito regolarmente adulti bisognosi di cure, ovvero malati, disabili o anziani: il 10,7% delle donne e il 6,2% degli uomini. La maggiore concentrazione è nelle fasce di età più elevata: tra i 55 e i 64 anni si arriva all’11% per gli uomini e al 16,4% per le donne, e tra i 45 e i 54 anni rispettivamente il 9,3% e il 18,3% (per lo più figli che accudiscono i genitori anziani). Le persone che si occupano contemporaneamente di più individui bisognosi di cura sono 1 milione 649 mila, il 10,9% del totale; la combinazione più frequente, che riguarda 689 mila persone, è rappresentata dal supporto fornito a figli coabitanti e adulti non autosufficienti, quali anziani disabili o malati. L’impegno della cura corrisponde a un livello inferiore di occupazione rispetto a chi non ha questo tipo di responsabilità ed è per le donne che si determinano le differenze più elevate: tra i 25 e i 44 anni il tasso di occupazione delle donne che si prendono cura di un adulto o di una anziano è di circa otto punti percentuali inferiore a quello del resto della popolazione. Tra le donne che assistono anziani o adulti non autosufficienti, il 22% riferisce di lavorare part time proprio perché i servizi e le strutture per la cura di adulti non autonomi sono assenti o inadeguati e per lo stesso motivo il 15,5% dichiara la propria impossibilità a lavorare (ISTAT, 2011).

Gli studi sui processi di trasformazione dei sistemi di welfare in Europa, hanno ormai da tempo messo in evidenza la relazione tra i mutamenti socio-demografici delle società occidentali con le crescenti difficoltà che esse stesse incontrano nel mantenere invariati i livelli delle prestazioni sociali (Ciarini, 2011). Le famiglie fanno fronte alla carenza dei servizi pubblici, ma questo comporta costi sociali significativi, che incidono sulla qualità della vita e sul rischio di impoverimento. Non si tratta soltanto di costi economici diretti, ma anche e soprattutto di costi indiretti, in termini di impatto sulla salute dei caregiver, di mancata valorizzazione del lavoro di cura, di rinuncia all’occupazione. Soprattutto per le donne.

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IL CAREGIVER FAMILIARE E NO, A DOMICILIO, NEI CENTRI DIURNI, NELLE RSA

L’autore di questo paragrafo è Giovanni Lamura

Come anticipato nel paragrafo precedente, l’assistenza alle persone non autosufficienti è in Italia – similmente a quanto accadde in tutto il mondo – in gran parte assicurata dal prezioso, continuativo lavoro di cura prestato dai famigliari più vicini (coniuge e figli in primis). Una peculiarità del nostro Paese è il frequente affiancamento di assistenti familiari assunte privatamente dalle famiglie (nel linguaggio comune denominate spesso “badanti”), in oltre la metà dei casi attraverso forme contrattuali irregolari (Pasquinelli, 2017). Data la forte integrazione tra il lavoro di cura dei famigliari e quello svolto da questo seconda tipologia di assistenti, nelle righe seguenti si forniranno alcune indicazioni inerenti entrambi i gruppi, pur distinguendoli, data la natura intrinsecamente diversa che motiva la loro attività assistenziale.

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I caregiver familiari

Uno studio approfondito condotto ormai alcuni anni fa sul ruolo svolto dai caregiver familiari di persone anziane non autosufficienti residenti a domicilio in diversi Paesi europei, inclusa l’Italia, ha consentito di individuare alcune caratteristiche principali di questa componente fondamentale – eppur spesso ancor oggi trascurata – del nostro sistema di welfare (Lamura, 2008). Da tali caratteristiche, che in gran parte sono da ritenersi immutate a tutt’oggi, discendono una serie di bisogni, che è opportuno che gli operatori che con maggior frequenza si trovano ad aver a che fare con queste figure tengano in debito conto.

In primo luogo, come già osservato nel precedente contributo, i caregiver famigliari sono rappresentati prevalentemente da donne, figlie e mogli in primis. Questa “femminilizzazione” dell’attività assistenziale fa sì che l’erogazione di servizi di supporto ai famigliari caregiver debba essere tarata in tal senso, offrendo modalità di fruizione che tengano conto delle particolari esigenze che caratterizzano le donne, soprattutto in età matura, che si trovano a svolgere tale ruolo. Questo aspetto si intreccia con un’altra dimensione, quella della conciliazione dell’attività di cura informale con l’impegno professionale in cui un numero ragguardevole di caregiver (circa uno su due) si vede coinvolto, costringendone una quota non marginale –circa uno su sei– ad affrontare difficoltà di vario tipo (Principi, 2013). Tra queste, spiccano in particolare la necessità di ridurre la propria attività lavorativa, le rinunce rispetto a possibili avanzamenti di carriera, fino al vedersi costretto a lavorare occasionalmente, se non addirittura ad abbandonare completamente il proprio impegno professionale, come conseguenza della propria attività di caregiving. Tutte conseguenze più frequenti tra le caregiver di sesso femminile.

Rispetto alle proprie controparti in altri paesi europei, i caregiver familiari italiani riportano inoltre tre aspetti come maggiormente problematici nell’accedere a servizi di supporto (Lamura, 2008): le procedure eccessivamente burocratiche da dover sbrigare per poterne fruire; la carenza di informazioni adeguate e le lunghe liste di attesa. Di queste problematiche gli operatori devono tenerne adeguatamente conto, al fine di non esacerbare ulteriormente la situazione quando interagiscono con i caregiver. Non deve infatti sorprendere che, tra le soluzioni individuate dagli stessi famigliari come maggiormente utili, ne spicchino due in particolare: da un lato, la tempestività dell’aiuto prestato (e cioè che i servizi di supporto siano forniti quando servono, e non troppo tardi/presto o in momenti della giornata e/o della settimana non idonei) e, dall’altro, che tale supporto sia erogato dagli operatori in modo rispettoso della dignità della persona anziana che ne è destinataria. Questi due elementi sono giudicati più importanti della stessa abilità (o qualità) tecnica dell’operatore, che passa in secondo piano quando i due precedenti aspetti non sono rispettati.

Quanto sopra evidenziato riflette le esigenze dei familiari caregiver che operano in contesti domiciliari, ma rispecchia in larga misura anche la realtà dei famigliari impegnati nella cura quotidiana di anziani non autosufficienti residenti in strutture residenziali (e, seppure in minor misura, semi-residenziali). In tali ultimi contesti, tuttavia, occorre tenere presente alcune specificità che interessano i familiari caregiver di coloro che ricorrono a questi servizi. Tra queste, un ruolo rilevante è giocato soprattutto dal senso di colpa dei famigliari che decidono di affidarsi alla struttura residenziale, perché non più in grado di continuare a prestare direttamente assistenza a domicilio (Berruti, 2017). Tale senso di colpa è spesso talmente forte, da spingere i caregiver a posticipare l’istituzionalizzazione del congiunto non più autosufficiente, considerata l’ultima spiaggia, cui ricorrere solo quando tutte le altre risorse assistenziali familiari si esauriscono (Tidoli, 2014).

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Gli assistenti familiari

Come precedentemente accennato, un numero molto elevato di famiglie italiane ricorre al supporto di assistenti familiari assunti privatamente per la cura a domicilio dei propri congiunti anziani non autosufficienti. Recenti stime parlano di almeno 850.000 assistenti familiari in Italia, di cui meno della metà ufficialmente registrati presso la banca dati dell’INPS perché contrattualmente in regola (Pasquinelli 2017). Anche in questo caso si conferma la femminilizzazione del settore, data la prevalenza di donne tra tali figure –pari all’87% del totale, considerando anche coloro impiegate come colf (Cavalcoli, 2017) – e la loro provenienza prevalentemente dall’estero, in particolare da Paesi dell’est europeo (Redattore Sociale, 2017). È indubbia la rilevanza del contributo che un numero così elevato di assistenti -abbondantemente superiore a quello degli operatori del servizio sanitario nazionale, pari a 626.350 nel 2013, ultimo anno per il quali è disponibile il dato (Ministero della Salute, 2017)- fornisce alla soddisfazione dei bisogni di cura della crescente popolazione anziana in Italia. Questo contributo consente infatti di alleviare i caregiver familiari dalle attività di cura più onerose, agevolandone le esigenze di riconciliazione e personalizzando l’assistenza all’anziano, consentendo così di ritardarne se non persino di evitarne l’istituzionalizzazione (Di Rosa, 2010).

Tuttavia, ciò avviene non senza una serie di problemi (Chiatti, 2013), che gli operatori del settore è bene tengano presenti. Questi riguardano, in primo luogo, l’annosa questione della mancata contrattualizzazione di molti assistenti, che si trovano spesso a svolgere la propria attività di cura “in nero”. Ciò ha conseguenze che vanno dal danno all’erario, al mancato versamento di contributi previdenziali, ma toccano anche la sfera della correttezza dei rapporti quotidiani che si instaurano tra la famiglia-datore di lavoro e l’assistente. La mancata contrattualizzazione ha inoltre un impatto non indifferente sulla qualità delle cure prestate da assistenti familiari (spesso non formate per l’attività che sono chiamate a svolgere), ma anche sullo stato di salute delle assistenti stesse, per le condizioni alle quali si vedono costrette a fornire le proprie prestazioni (Vianello, 2017). Esiste infine un impatto indiretto sui servizi di cura domiciliari, che tendono sempre più a trasformarsi in supporti di nicchia, limitando la propria attività alla sfera della cura personale e dei trasporti (Di Rosa, 2010).

Quanto finora esposto vale per le assistenti familiari operanti a domicilio. Una differenza sostanziale sussiste infatti rispetto a quanto avviene nelle strutture residenziali, in quanto in tali contesti risulta molto più difficile operare senza una contrattualizzazione del personale ivi operante. Alla luce di questa considerazione, si ritiene che la tematica delle assistenti famigliari operanti in tali ambiti si possa limitare ad un breve cenno alla necessità di assicurare una corretta interazione con quelle assistenti che taluni ricoverati decidono di portarsi dietro o assumere al momento del ricovero. In questi casi –di cui è difficile stimare la diffusione– è opportuno che la direzione dell’istituto stipuli un regolamento che indirizzi e individui le modalità di svolgimento dell’attività, in modo da renderla compatibile con quella assistenziale di routine svolta dal proprio personale (per un esempio si rimanda a: Casa di Riposo Fenzi 2014 https://www.casafenzi.it/2015/contenuti/53_REGOLAMENTO-PER-ASSISTENTI-PRIVATI.pdf).

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COORDINAMENTO CON I SERVIZI SOCIALI E CON IL VOLONTARIATO

Le autrici di questo paragrafo sono Simonetta Di Meo e Silvia Biatta

Le situazioni complesse difficilmente possono trarre beneficio da risposte parcellizzate volte a rispondere ai singoli bisogni, indipendentemente dalla competenza messa in campo: gli assistiti e i caregiver hanno la necessità di ricevere sostegno in tutte le dimensioni, partendo dalla consapevolezza che i bisogni dei familiari e di coloro che partecipano al processo di cura e assistenza non coincidono con i bisogni delle persone che ricevono le loro cure.

L’integrazione rappresenta quindi la sfida cui sono chiamati a rispondere i servizi che ruotano attorno alla cronicità, alla non autosufficienza, alla complessità socio-assistenziale. Questo tipo di condizioni richiede infatti la costruzione di connessioni e collaborazione all’interno e tra i settori delle cure, dell’assistenza, del sostegno sociale e del volontariato con la creazione di reti che si facciano carico complessivamente e coerentemente dei singoli casi.

L’obiettivo è quello di definire piani di intervento personalizzati, costruiti su misura per le singole situazioni, rimodulabili in corso d’opera con costante attenzione all’impatto complessivo delle azioni e degli interventi non soltanto sui singoli ma anche sul sistema di relazioni familiari.

Per favorire il mantenimento delle persone fragili/ammalate nel proprio ambiente di vita, va utilizzata ogni risorsa disponibile che i servizi e la comunità possono offrire (sostegno alla famiglia, assistenza domiciliare, assistenza protesica, accesso al centro diurno, pasti a domicilio, telesoccorso, Servizio Assistenza Domiciliare, assegni di cura, trasporti assistiti, sollievo dei caregiver per brevi periodi, ricoveri di sollievo, assistenza previdenziale, gruppi di sostegno o auto-mutuo-aiuto, supporto psicologico, momenti di svago e di aggregazione…).

Indispensabile a tal fine è organizzare punti unici di accesso alla rete dei servizi (Punto Unico di Accesso, Unità Valutazione Multidimensionale, Centri Servizi, Case della Salute…), che garantiscano il collegamento di tutti i nodi della rete in una logica di trasversalità e di programmazione integrata che tenga anche in considerazione il benessere dei caregiver. La rete dei servizi socio sanitari prevede che gli operatori appartenenti ad enti differenti concordino criteri di accesso comuni, utilizzino gli stessi strumenti di valutazione, lavorino in equipe e gestiscano risorse proprie per un fine comune.

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STRUTTURAZIONE DELL’APPORTO DEI CAREGIVER NEI PIANI INDIVIDUALI DI ASSISTENZA

Le autrici di questo paragrafo sono Simonetta Di Meo e Silvia Biatta

Il Piano Assistenziale Individualizzato (PAI), è il documento di sintesi che, a seguito di una valutazione multidimensionale, raccoglie e descrive il progetto di assistenza e cura per ciascun assistito, con l’obiettivo di garantire il maggior benessere della persona e, soprattutto in ambito domiciliare, della sua famiglia. È un documento condiviso, sottoscritto dal case manager (operatore di riferimento per il caso) e dall’assistito o dal familiare/tutore. Il Piano Assistenziale Individualizzato descrive i problemi, gli obiettivi, gli indicatori di valutazione e gli interventi di tutti gli operatori coinvolti. A domicilio è altrettanto importante dare visibilità e declinare anche gli interventi gestiti dai caregiver, presenti nelle 24 ore e fondamentali attori del processo di assistenza. In quest’ottica il Piano Assistenziale Individualizzato diventa un vero e proprio “patto di cura”, in cui operatori e familiari condividono come gestire la situazione e come rimodulare il piano ad ogni modifica delle condizioni della persona assistita e della sua famiglia.

Anche gli interventi educativi devono essere pianificati e gestiti con tecniche di documentata efficacia (descritte ed esemplificate nei successivi paragrafi), tenendo conto della disponibilità, delle risorse e dello stato emotivo del caregiver, e possibilmente supportati dalla consegna di materiale scritto consultabile anche in assenza degli operatori.

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PERCORSI EDUCATIVI STANDARD E TECNICHE EDUCATIVE PER PAZIENTI E CAREGIVER

Le autrici di questo paragrafo sono Cinzia Vivori e Giulia Fogato

Il quesito che spesso ci si pone quando si pianifica un’attività educativa per le persone con una patologia cronica e i loro caregiver è questo: “È possibile garantire un processo educativo efficace in ospedale o nell’assistenza primaria?”

L’esperienza internazionale ha permesso di ideare, costruire, sperimentare e valutare nuovi modelli assistenziali, sulla base del fatto che una persona affetta da malattia cronica abbia bisogno di partecipare a un progetto di apprendimento permanente per migliorare i propri comportamenti di salute, piuttosto che di ripetuti colloqui con l’operatore sanitario. Sono nati così i percorsi educativi standard, rivolti a gruppi omogenei di persone con lo stesso problema di salute, come il diabete o lo scompenso cardiaco. Questi percorsi standard mirano a soddisfare alcuni bisogni educativi prevalenti rispetto ad un quadro clinico, oppure ad affrontare problemi trasversali prioritari come ad esempio la prevenzione delle lesioni da pressione. I percorsi educativi standard rendono uniforme l’educazione erogata dai diversi operatori sanitari, secondo un approccio multidisciplinare e sistemico, a garanzia del consenso sui contenuti educativi essenziali basati sulle evidenze e della loro modalità di trasmissione. La documentazione che viene redatta ha lo scopo di registrare gli interventi educativi messi in atto in momenti diversi e dalle diverse figure professionali, se si tratta di educazione multidisciplinare; inoltre permette di tenere traccia dei progressi ottenuti dall’utente o dal caregiver. Questi percorsi standard forniscono indicazioni precise sugli obiettivi educativi di sicurezza, sui contenuti, sugli strumenti da utilizzare e sul metodo per pianificare il processo, nel tempo, al fine di garantire una dimissione in sicurezza o una presa in carico educativa fra i diversi servizi coinvolti. L’utilizzo dei percorsi educativi permette di dare visibilità alle competenze educative dell’operatore sanitario, formalizza la responsabilità fra operatore e paziente/caregiver e quelle dei diversi componenti dell’équipe, inoltre garantisce continuità con i diversi servizi della rete.

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Principi per la stesura di un percorso educativo standard

Per pianificare un percorso educativo standard è necessario:

  • identificare gruppi omogenei di pazienti o problemi trasversali che hanno bisogno di una pianificazione educativa;
  • definire i problemi educativi prioritari (di sicurezza) e i contenuti essenziali da trasmettere;
  • stabilire chi educa, individuando la figura o le figure professionali competenti e idonee ad effettuare l’intervento educativo;
  • rendere uniforme l’educazione erogata dai diversi operatori;
  • individuare setting e momento/i adeguati ad effettuare l’educazione;
  • fornire indicazioni sugli strumenti educativi da utilizzare;
  • redigere una documentazione per le attività educative (tracciabilità – diffusione …);
  • prevedere il monitoraggio e la certificazione delle competenze raggiunte;
  • definire una valutazione di apprendimento e di processo.

Gli obiettivi educativi prioritari o obiettivi di sicurezza, rappresentano quelle competenze che tutti gli utenti, nello stesso stato di rischio o di condizione ed i loro caregiver, devono padroneggiare al più presto per ragioni di incolumità. Ad esempio per quanto riguarda il rischio di sviluppare lesioni da pressione, è prioritario conoscere e applicare le tecniche di riposizionamento e di mobilizzazione letto/poltrona, l’utilizzo corretto dei presidi antidecubito, l’importanza di un adeguato apporto di cibi e liquidi ecc.

Gli obiettivi educativi, sia quelli di sicurezza sia quelli specifici per la persona, vanno negoziati tra educando ed educatore costituiscono il “contratto educativo”. Questo contratto può essere rappresentato in un action plan che traccia in modo sintetico i traguardi raggiunti, oppure può essere più dettagliato e descritto in una matrice che suddivide gli obiettivi formativi in categorie, considerando per ognuna anche gli interventi e i metodi di insegnamento adottati; consente, inoltre, la tracciabilità e la temporizzazione delle azioni, la pianificazione del follow-up educativo e delle valutazioni, infine permette di documentare la verifica dei risultati raggiunti.

Il percorso educativo può essere avviato sia nel contesto ospedaliero che territoriale. Ad ogni trasferimento tra i setting di cura sarà fondamentale il passaggio delle informazioni al fine di promuovere la continuità assistenziale e l’efficacia degli interventi preventivi adottati.

Il percorso educativo deve essere rivolto alla persona, al caregiver o alle persone che si prenderanno cura direttamente dell’utente, deve essere strutturato e documentato attraverso l’utilizzo di specifici strumenti condivisi tra i diversi setting di cura. È necessario prevedere dei momenti di addestramento, sia a livello ospedaliero sia domiciliare al fine di promuovere l’empowerment dell’educando attraverso l’educazione stessa.

Per condurre il processo educativo infermieri ed operatori devono possedere competenze specifiche riferite sia all’educazione terapeutica sia alla clinica. Sarà fondamentale l’utilizzo di metodi e strumenti specifici e condivisi a supporto sia dei professionisti che della persona e del caregiver, come ad esempio un opuscolo informativo per chi presta la cura a domicilio; possono essere adottate delle check list che hanno la finalità standardizzare contenuti e metodi, condividere gli obiettivi in équipe anche di diversi setting di cura per favorire la continuità del percorso.

La letteratura, soprattutto quella anglosassone, propone diverso materiale di questo tipo (presentato solitamente sotto forma di tool kit), ma ideato con caratteristiche comunicative che andrebbero adattate alla nostra situazione sociale multiculturale.

Lo strumento, strutturato sotto forma di check list (per agevolarne l’utilizzo), si applica nelle situazioni di rischio accertato per l’assistito.

I contenuti indirizzano gli operatori a:

  • individuare il soggetto destinatario principale dell’intervento educativo (paziente stesso e/o caregiver);
  • accertare le sue capacità di comprensione delle informazioni sanitarie (health literacy) anche con l’utilizzo del Teach Back method;
  • accertare che abbia le abilità fisiche necessarie alla messa in pratica degli insegnamenti;
  • identificare eventuali fattori di rischio individuali (a supporto del giudizio clinico della valutazione del livello di rischio);
  • definire quali strategie alternative avviare nel caso non sia possibile l’individuazione di alcun soggetto da educare;
  • realizzare l’educazione dell’assistito o del caregiver, dall’analisi dei bisogni alla valutazione, con il massimo coinvolgimento della persona;
  • verificare l’apprendimento raggiunto;
  • favorire la continuità assistenziale con la trasmissione delle informazioni ai vari contesti lungo il percorso di cura.

Lo strumento permette anche la tracciabilità (con la sigla dell’operatore che ha seguito l’intervento ed ha valutato l’esito) e la temporalità (con la data dello svolgimento delle attività) del lavoro svolto. Vengono infine segnalati eventuali problemi educativi che necessitano di ripresa nel follow-up (ad es. ostacoli motivazionali oppure il controllo dell’aderenza alle indicazioni dopo un determinato tempo). Con la chiusura del percorso educativo è prevista una valutazione del gradimento rivolta al paziente stesso o al caregiver, che è stato educato, volta al miglioramento continuo del programma educativo stesso.

Esistono dei fattori, di cui tener conto, che possono ostacolare la realizzazione dei percorsi educativi standard, tra cui i tempi di degenza sempre più brevi, la mancanza di setting di apprendimento adeguati, la priorità data alle attività diagnostico-terapeutiche a scapito di quelle educative e relazionali, la mancanza di infermieri che hanno effettuato percorsi formativi specifici sui modelli e sui metodi per promuovere il self–management, la modifica degli stili di vita e la comunicazione efficace secondo i principi della health literacy, il crescente numero di persone con malattie croniche complesse e nuovi bisogni educativi.

Di seguito riportiamo il un esempio di modulistica che guida il percorso educativo sulla prevenzione delle lesioni da pressione (a cura del Comitato aziendale per la Prevenzione e il trattamento delle ulcere da pressione APSS Trento).

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METODI PER CONDURRE UN’ANALISI DEI BISOGNI EDUCATIVI E PER TRASMETTERE INFORMAZIONI IN MODO EFFICACE

Per realizzare gli interventi di educazione terapeutica, alcuni metodi caratterizzati da risultati positivi sono diventati uno standard in diversi ospedali:

  • Teach-back method: l’operatore sanitario dopo l’intervento educativo chiede alla persona e/o al caregiver di spiegare con parole proprie quanto appreso;
  • Show me method: l’operatore sanitario educa persona e/o il caregiver e poi chiede una dimostrazione pratica dell’attività;
  • Ask me 3: la persona e/o il caregiver viene incoraggiato a porre 3 domande base per comprendere meglio la sua patologia.

Ciascuno dei metodi citati è utile, ma nessuno, considerato singolarmente, consente di esplorare le tre aree su cui deve far leva l’educazione terapeutica (conoscenza, atteggiamenti/motivazione e comportamento).

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Teach-back method

Gli utenti ed i loro caregiver devono orientarsi in sistemi sanitari sempre più complessi e affrontare nella loro quotidianità problemi legati alle malattie croniche che richiedono la capacità di prendere decisioni e di pensiero critico. Gli interventi informativi, così come i percorsi di educazione terapeutica più strutturati, devono basarsi su metodi che migliorino le competenze di health literacy. Questo costrutto vien definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1998 come le abilità cognitive e sociali che determinano la motivazione e la capacità degli individui di accedere alle informazioni, di comprenderle e utilizzarle in modo da promuovere e mantenere una buona salute (World Health Organization 1998). I principali studi che si occupano di alfabetizzazione sanitaria hanno chiaramente messo in risalto che:

  • il 40-80% delle informazioni di carattere medico viene immediatamente dimenticata e quasi la metà delle informazioni ritenute dall’utente sono scorrette (Kessel, 2003);
  • almeno la metà delle informazioni fornite viene ricordata in modo inesatto (Anderson 1979);
  • più informazioni vengono fornite, più informazioni vengono scordate (McGuire 1996).

Uno tra i migliori metodi per capire se la comunicazione tra sanitari e utenti è efficace è il “Teach-Back Method” (spiegami quello che ti ho insegnato), anche conosciuto come “Closing the Loop” (chiudi il giro) (Schillinger, 2003). Si tratta di un metodo di conferma per valutare se l’utente ha capito e compreso ciò che è stato spiegato. La conferma è certa se il destinatario della comunicazione è in grado di ripetere ciò che gli è stato comunicato (Zuger, 2013). La tecnica del Teach Back:

  • obbliga l’utente a riassumere quanto comunicato e a memorizzare;
  • favorisce la comprensione e il dialogo tra operatore sanitario ed utente;
  • lascia un ricordo nel tempo;
  • coinvolge attivamente e responsabilizza sia l’utente che l’operatore sanitario.

Il Teach Back fa parte dei 5 principi per migliorare la health literacy nei pazienti; gli altri sono: parlare piano, usare le domande aperte, usare un linguaggio semplice e chiaro, fare degli esempi. Secondo l’Agency for Healthcare Research & Quality il Teach Back è una delle 11 pratiche di sicurezza basata sulla forza delle evidenze scientifiche (AHRQ, 2001).

L’American Medical Association e il National Quality Forum (NQF, 2005) affermano che questa tecnica è un metodo efficace per accertare il reale livello di comprensione della persona e/o del caregiver. Secondo la Joint Commission International (JCI, 2007) è il metodo preferito per incoraggiare la partecipazione attiva delle persone alla loro cura oltre ad essere una strategia di sicurezza(White, 2013; Kornburger, 2012; Weiss 2008). Numerosi studi hanno dimostrato che usare il Teach-Back non aumenta in maniera significativa il tempo degli incontri e consente ai sanitari di limitare la discussione agli argomenti più importanti, riduce il numero di telefonate, richieste di chiarimenti e accessi impropri al pronto soccorso (Griffey, 2015; Peter, 2015). Gli operatori che usano il Teach-Back hanno dichiarato che con la pratica diventa sempre più facile ed efficace usare questo metodo (AMA Foundation, 2009). Alla fine della sessione informativa o educativa andrebbe documentato l’uso e l’efficacia del Teach-Back Method questo permette di fare una verifica del livello di apprendimento raggiunto dall’utente, ma anche di valutare se gli operatori sanitari applicano questa tecnica per valutare l’efficacia dei loro interventi.

Tabella 1: Le Fasi del Teach-Back (Fonte: Schillinger 2003 – AHRQ 2015)

FASE 1

ASSUMERSI COME OPERATORE SANITARIO LA RESPONSABILITÀ DELLA COMUNICAZIONE

Esempi di affermazioni:

SÌ: vediamo se le ho detto tutto

SÌ: vediamo se sono stato chiaro

SÌ: vediamo se ho dimenticato qualcosa

 

Consigli agli operatori sanitari per gestire la fase:

  • Creare un contatto visivo.
  • Usare un tono di voce tranquillo
  • Parlare lentamente
  • Usare un linguaggio semplice ed abolire il gergo medico
  • Dare le informazioni un ‘pezzo’ alla volta
  • Selezionare le informazioni essenziali (priorità) che l’utente deve apprendere in quel momento.
  • Se ci sono più concetti da spiegare: “spezza e controlla”, insegnare 2 o 3 concetti, interrompere e chiedere di ripetere.
  • Usare materiali di stampa di facile lettura (depliant, brochure) per supportare l’apprendimento

FASE 2

VERIFICARE

 Esempi di domande:

  • Voglio essere sicuro di non avere dimenticato nulla, per cui per favore mi aiuti a vedere se ho detto tutto, se sono stato chiaro?
  • Mi racconti cosa farà alla mattina?
  • Come spiegherà a sua moglie i cambiamenti nella terapia che abbiamo fatto oggi ?
  • Quante compresse deve prendere al mattino?
  • Quando andrà a casa, cosa dovrà fare prima di assumere la terapia a mezzogiorno?
  • Mi racconti come userà questo strumento (es. glucometro)?
  • Chiedere all’utente di spiegare di nuovo, usando le proprie parole.
  • Evitare di porre domande alle quali è possibile rispondere con un semplice si o no.
  • Rispiegare di nuovo e richiedere, se l’utente non è in grado di spiegare in modo corretto.
  • Usare preferibilmente domande aperte
  • Evitare frasi come: “Mi ripeta quel che ho appena detto”, “Ha capito?”

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Show me method o show back (dimostrazione pratica)

È un altro metodo per “chiudere il ciclo delle informazioni”. Quando si utilizza questa tecnica, l’operatore chiede all’utente di dimostrare come si esegue un’azione che è stata appena illustrata. Questa tecnica è utilizzata con successo per migliorare la comprensione rispetto all’acquisizione di abilità come ad esempio l’uso della penna per insulina, l’iniezione sottocute di eparina, la gestione della pompa per nutrizione enterale, la mobilizzazione a letto ecc. Due esempi di domande per valutare se le azioni sono state eseguite correttamente: Mi faccia vedere come esegue l’insulina sull’addome? Come si pesa ogni giorno?

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Ask Me 3

Un altro strumento utile per l’educazione del paziente è l’Ask Me 3 che propone tre semplici, ma essenziali domande che le persone dovrebbero rivolgere ai loro operatori in ogni interazione sanitaria:

  1. Qual è il mio problema principale?
  2. Che cosa ho bisogno di fare (per quel problema)?
  3. Perché è così importante?

Il programma Ask Me 3 è sviluppato dalla National Patient Safety Foundation – USA (http://www.npsf.org/page/askme3) edincoraggia le persone a formulare domande sulla propria salute da porre ai professionisti (medico, infermiere, farmacista e altri fornitori), al termine di ogni appuntamento o consultazione, durante l’esecuzione di un esame strumentale, di una procedura o al momento dell’acquisto dei farmaci.

Questo metodo ha dei vantaggi perché che può essere insegnato facilmente ai pazienti, li incoraggia a fare le domande giuste senza allungare i tempi di visita e riduce le telefonate e gli appuntamenti mancati.

Consigli per attuare la tecnica Ask Me 3:

  • creare unambiente sicuro in cuii pazienti si sentano a proprio agio nel parlareapertamente,
  • utilizzareun linguaggio sempliceinvece di un linguaggio tecnicoogergo medico,
  • stare seduti (invece che in piedi) per raggiungere il livello visivo con il paziente,
  • utilizzare il canale verbale visivo (immagini) per illustrareuna procedurao condizione,
  • verificare la comprensione del paziente usando la tecnica “Teach Back”.

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Esempio di un percorso educativo sul dolore con applicazione del metodo teach back (a cura del Comitato Ospedale e territorio senza dolore APSS Trento)

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PERCORSI E STRUMENTI FORMATIVI PER I CAREGIVER, INDIVIDUALI E DI GRUPPO: L’ESPERIENZA DELL’AZIENDA SANITARIA LOCALE DI BRESCIA

Le autrici di questo paragrafo sono Simonetta Di Meo e Silvia Biatta

L’ASL di Brescia (1998-2015) ha concretizzato negli anni importanti interventi volti a tutelare le persone fragili con compromissione dell’autonomia, creando un’organizzazione in grado di intercettare i loro bisogni di salute, di sostenerli e, insieme a loro, di sostenere le famiglie nel difficile e delicato compito di cura.

Agli aspetti organizzativi e formativi si sono affiancati percorsi tesi ad analizzare e valorizzare le potenzialità delle famiglie che non sono solo portatrici di un bisogno e destinatarie dell’intervento, ma rappresentano una risorsa indispensabile, in grado di partecipare attivamente alla costruzione delle risposte assistenziali.

Tra questi:

  • la Scuola di assistenza familiare, attiva dal 2006 e ancora oggi itinerante nel territorio provinciale, realizzata in stretta collaborazione tra Distretti, Medici di Medicina Generale e amministrazioni comunali. Consiste in un percorso formativo per familiari e per coloro che concorrono ad assistere a domicilio persone non autosufficienti, articolato in 4/5 incontri serali di circa 2 ore. L’approccio utilizzato parte dall’esperienza concreta dei partecipanti ed offre una possibilità di confronto tra persone che condividono un vissuto e operatori esperti (infermieri, medici, assistenti sociali, psicologi), in grado di fornire risposte o indicazioni concrete per affrontare le diverse situazioni;
  • una ricerca, condotta sul territorio bresciano, finalizzata a raccogliere e analizzare gli aspetti positivi, le criticità e le possibili aree di miglioramento per i familiari che assistono a domicilio (Scarcella, 2012)
  • i manuali per l’educazione terapeutica per la gestione di scompenso cardiaco e BPCO , elaborati da gruppi di lavoro interaziendali e interprofessionali nell’ambito della revisione dei Percorsi Diagnostico Terapeutico Assistenziali (PDTA)
  • il manuale “Assistere in famiglia: istruzioni per l’uso”. È uno strumento realizzato da un gruppo multidisciplinare di professionisti (infermieri, fisioterapisti, medici, assistenti sociali e psicologi) e curato dal Servizio Infermieristico Tecnico Riabilitativo dall’ASL. Nasce dalla consapevolezza che la famiglia, quando si trova a dover gestire a casa una persona non autosufficiente e situazioni cliniche complesse, deve affrontare una serie di cambiamenti importanti che influenzano fortemente la vita. A ciò si aggiunge spesso il timore di non essere in grado di gestire adeguatamente le tecniche assistenziali necessarie. Accanto a personale qualificato è sembrato utile mettere a disposizione uno strumento che gli operatori possono utilizzare nelle fasi di educazione/addestramento e consultabile dai familiari in loro assenza. Si tratta di un raccoglitore ad anelli che viene allestito dagli infermieri o dai fisioterapisti delle cure domiciliari con le schede relative ai problemi presentati dall’utente e, quindi, di volta in volta personalizzato sulla scorta della specifiche esigenze. Gli aspetti che lo caratterizzano e lo rendono originale rispetto ad altre pubblicazioni sono rappresentati dal fatto che è personalizzato e modulabile, è scritto in linguaggio semplice per non addetti ai lavori e completo di fotografie che illustrano molte delle tecniche descritte; è inoltre caratterizzato da un codice colore che distingue i diversi argomenti trattati e corredato da DVD in cui le tecniche più complesse, o quelle che si rendono necessarie con maggiore frequenza, dopo essere state presentate dall’operatore, possono essere riviste nelle diverse fasi.
  • Per dare visibilità alle esperienze significative di alcuni caregiver è stato inoltre realizzato un DVD dal titolo “Caregiver – Una scelta d’amore”, in cui altri familiari che stanno vivendo o hanno vissuto analoghi percorsi, abbiano la possibilità di riconoscersi.
  • Una ulteriore pubblicazione è rappresentata dal testo “Io caregiver dalla A alla Z – Storie, suggerimenti, emozioni, informazioni… e altro”, rubrica nata con l’obiettivo di raccogliere le parole chiave ricorrenti nell’esperienza di contatto tra gli operatori e i familiari che assistono e di restituirle ai caregiver, brevemente commentate. Spesso non vengono fornite soluzioni ma viene offerto uno spazio in cui “ritrovarsi”, per capire che altri ci sono già passati, per legittimarsi a provare emozioni che non si erano messe in conto, per avere anche qualche indicazione concreta, per orientarsi tra i servizi, per trovare altri stimoli in libri, canzoni, film.

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STRATEGIE CONTRO IL BURNOUT

Le autrici di questo paragrafo sono Simonetta Di Meo e Silvia Pezzetta

In presenza di un familiare affetto da una malattia grave il più delle volte il caregiver presta assistenza sulla base di legami affettivi. Si tratta di storie di amore e dedizione che presentano però anche un’altra faccia della medaglia, fatta di sacrifici e rinunce, spesso di sofferenza. A volte non vi sono alternative e i caregiver si trovano a ricoprire questo ruolo senza possibilità di scelta, spesso all’improvviso e in assenza di una preparazione specifica.

Con il termine “Caregiver burden” si indicano i problemi di tipo fisico, psicologico, sociale e finanziario di cui fa esperienza chi si trova a curare una persona ammalata, con grave compromissione dell’autonomia.

L’impatto con questa responsabilità porta il caregiver a fare i conti con il prestare assistenza fisica, sanitaria, psicologica al malato, con il gestire i rapporti con medici, ospedali, infermieri, servizi sociali, con la comunità, la burocrazia ecc. E tutto questo si aggiunge agli impegni preesistenti, condiziona le relazioni familiari, determina limitazioni nelle proprie scelte e stili di vita. In particolare, la rinuncia al tempo libero e alla vita sociale, il cambio di residenza o una sua profonda riorganizzazione, la rimodulazione (quando non l’abbandono) degli impegni di lavoro, sono esperienze che incidono profondamente sulle capacità di resilienza del caregiver. La sensazione di sentirsi in trappola e di non riuscire a gestire tutte le incombenze legate al ruolo può produrre ansia, depressione, affaticamento, disturbi del sonno, nonché patologie somatiche, come l’innalzamento dei livelli pressori e la sensazione di un peso insostenibile. Basti pensare che il premio Nobel per la medicina Elizabeth Blackburn ha calcolato che i parenti badanti hanno un’aspettativa di vita tra i 9 e i 17 anni inferiore alla media.

Gli infermieri e gli altri professionisti che intervengono, in particolare a domicilio, devono essere consapevoli di questa situazione e mantenere un’attenzione diadica, sia verso l’assistito sia verso il suo caregiver, per sostenerlo ed evitare il rischio che chi garantisce l’assistenza divenga un “paziente invisibile”, per esaurimento di energie fisiche e psichiche.

La fatica del caregiver è direttamente proporzionale alle ore giornaliere impegnate nell’assistenza, al grado di non autosufficienza della persona di cui si occupa e alle dinamiche relazionali che coinvolgono emotivamente, come il sostenere la persona in momenti di ribellione, tristezza, depressione, fino all’accompagnamento alla morte. Un impegno tanto complesso e logorante, con l’andar del tempo, comporta per il caregiver l’inquietudine nei confronti del proprio avvenire e delle proprie capacità di far fronte alle diverse situazioni.

A fronte dell’impatto e della complessità di questi problemi, sono numerose le ricerche sul tema che consentono di identificare quali siano i principali bisogni, espressi o inespressi, delle persone che prestano assistenza ad un loro congiunto. Fernandes e Angelo nel 2016 hanno realizzato una revisione della letteratura che ha individuato i seguenti ambiti prevalenti:

  • Bisogno di conoscenza: acquisire le conoscenze rispetto a mobilizzazione, spostamenti, assistenza medica, esercizi riabilitativi, gestione delle emergenze.
  • Bisogno di tempo: il caregiver assolve anche ad altri ruoli sociali (es. madre, moglie, lavoratrice, …) a cui deve pertanto avere tempo da dedicare. Tempo per dormire, cucinare, fare acquisti, tempo per la famiglia o per gli amici. Avere la possibilità di partecipare alle funzioni religiose, avere tempo per sé stessi.
  • Bisogni emozionali/interpersonali: mantenere relazioni a lungo termine, supporto emozionale. Essere incoraggiati a chiedere aiuto ad altri. Condividere i propri sentimenti con qualcuno, avere un partner o un amico che comprenda la difficoltà del ruolo ricoperto, avere supporto rispetto a dubbi o paure. La famiglia e alcuni amici stretti sono ritenuti essere la principale fonte di supporto psicologico ed emozionale.
  • Bisogno di reti di supporto: essere in grado di fare riferimento a reti di supporto comunitarie e a reti di professionisti. Partecipare a gruppi di supporto (peer support), ottenere aiuti finanziari.
  • Bisogno di informazioni: trasmissione di informazioni in termini di quantità e qualità. I caregiver preferirebbero un approccio informativo strutturato con la consegna di materiale scritto consultabile anche in futuro. Invece purtroppo l’attività informativa è spesso limitata ad un singolo incontro.

Si tratta pertanto di orientare i servizi verso la promozione delle competenze dei caregiver e la creazione di “reti sociali”, tenendo presente che ogni caregiver ha propri bisogni e situazioni peculiari per cui è importante pianificare interventi sociali, clinici e riabilitativi individualizzati partendo da una valutazione soggettiva del rischio stress e delle caratteristiche individuali. (DORS, 2014).

Queste indicazioni sono preziose per orientare lo sviluppo di interventi e di servizi utili a sostenere il lavoro di cura che possono essere sintetizzati:

  • riconoscimento normativo, sociale ed economico dei caregiver (nel paragrafo successivo è descritto lo stato dell’arte in Italia);
  • attivazione di punti unici di accesso alla rete dei servizi sanitari, socio-sanitari e sociali del territorio che offrano anche consulenze telefoniche in caso di necessità;
  • valutazione multidimensionale del bisogno e strutturazione del Piano Assistenziale Individualizzato:
    • con un approccio negoziale e condiviso con il caregiver e, quando possibile con l’assistito;
    • che comprenda e dia visibilità al ruolo di chi assiste;
    • che ponga il caregiver nella condizione di poter scegliere quali responsabilità voglia assumersi in relazione alla persona non autosufficiente;
    • che riconosca al caregiver il diritto/dovere di ricevere il sostegno e la formazione necessaria per affrontare situazioni del tutto nuove e quasi sempre lontane dalla propria specifica professione o lavoro. L’impegno del caregiver ha inoltre bisogno di essere riconosciuto con espressioni di gradimento, consenso, rispetto, ascolto, che rafforzano l’autostima, lo gratificano, gli infondono fiducia e rinforzano l’impegno;
  • identificazione di un case manager che si faccia garante dell’attuazione degli interventi previsti dal Piano Assistenziale Individualizzato, della rimodulazione continua degli stessi in funzione dell’evoluzione dei bisogni e della continuità assistenziale, informativa e relazionale nei passaggi tra i diversi setting di cura;
  • attivazione di interventi informativi e formativi strutturati, pianificati, basati su metodi di provata efficacia verificati e rinforzati nel tempo, anche attraverso l’utilizzo di materiale scritto. Per rafforzare e valorizzare il ruolo di caregiver occorre soddisfarne i bisogni di empowering cioè riconoscere alla persona le risorse di cui dispone e fare il possibile per accrescerle, svilupparle ed utilizzarle per risolvere i problemi che gli si presentano con sufficiente controllo sul proprio coinvolgimento emotivo;
  • attivazione di gruppi di sostegno, auto mutuo aiuto, di confronto tra pari per offrire occasioni di confronto, di relazione, di riduzione della solitudine, di attenzione alle problematiche di chi assiste e non solo di chi è assistito, anche attraverso il coinvolgimento delle istituzioni locali e dei gruppi di volontariato. Gli interventi di sostegno (in gruppo o individuali) dovrebbero essere organizzati in maniera da non richiedere eccessivo investimento di tempo personale ed energie psicofisiche al caregiver (DORS Piemonte, 2014);
  • disponibilità di servizi e posti di sollievo per offrire la possibilità di offrire brevi parentesi orarie di sostituzione nell’attività di assistenza o brevi periodi di inserimento in strutture residenziali;
  • disponibilità di consulenze e supporto psicologico.

Il numero dei caregiver è destinato a crescere perché, se è vero che viviamo più a lungo, sono aumentati anche gli anni di vita in situazione di comorbilità e non autosufficienza.

Rosalynn Carter, moglie dell’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy dice che al mondo ci sono quattro tipi di persone: «Quelli che si sono presi cura di qualcuno, quelli che lo stanno facendo, quelli che lo faranno e quelli che ne avranno bisogno».

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NORMATIVA E DOCUMENTI A SOSTEGNO DEL CAREGIVER

L’autrice di questo paragrafo é Simonetta Di Meo

Sul tema dei caregiver familiari sono attualmente in discussione, in entrambi i rami del Parlamento, alcune proposte di legge. Al Senato sono stati presentati tre diversi disegni di legge che presentano contenuti e impostazioni diverse:

  1. Disegno di legge 2048 (De Pietro e altri): “Misure in favore di persone che forniscono assistenza a parenti o affini anziani”. Ha la finalità di favorire l’assistenza delle persone anziane di età pari o superiore agli 80 anni. I benefici previsti sono piuttosto limitati: agevolazioni fiscali sulle spese sostenute per l’assistenza, circoscritte però ai bassi redditi, e incentivazione del part-time.
  2. Disegno di legge 2128 (Bignami e altri): “Norme per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare”. Contempla una serie di benefici di varia entità sia in ambito previdenziale (contributi figurativi), sia di copertura assicurativa (malattia, infortuni, malattie professionali), indicando però in modo molto stringente sia la platea dei beneficiari sia la tipologia di limitazioni funzionali da considerare meritevoli di tutela. Il disegno di legge non indica però la copertura della relativa spesa.
  3. Disegno di legge 2266 (Angioni e altri): “Legge quadro nazionale per il riconoscimento e la valorizzazione del caregiver familiare”. Punta a tracciare le linee di orientamento per una successiva regolamentazione regionale sulla materia, limitando i benefici effettivi e diretti ad agevolazioni fiscali in termini di detrazione di spese sostenute per l’assistenza e ad un ampliamento della platea dei beneficiari dei permessi lavorativi (ex legge 104/1992). Fra le azioni più di sistema prevede un’indagine multiscopo da affidare all’ISTAT e interventi di sensibilizzazione.

I tre disegni sono stati assegnati, in sede referente, alla 11ª Commissione del Senato (Lavoro, previdenza sociale) che ne ha deciso l’esame congiunto e, nella seduta del 27 settembre 2017 è stato presentato lo schema di testo unificato, cioè la base su cui ora la Commissione procederà alla discussione.

Si tratta di un testo che introduce la definizione di “Prestatore Volontario di Cura” (art. 3) come la “persona che gratuitamente si prende cura del coniuge, di una delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso e del convivente di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76, di un familiare o di un affine entro il secondo grado ovvero di uno dei soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184, che, a causa di malattia, infermità o disabilità gravi, è riconosciuto invalido civile al punto da necessitare assistenza globale e continua ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, per almeno 54 ore settimanali, ivi inclusi i tempi di attesa e di vigilanza notturni”.

Delinea inoltre possibili azioni in ambito regionale (informazione, formazione, interventi di supporto, consulenze), e attribuisce allo Stato la responsabilità di definire i criteri di individuazione degli “assistiti”. L’iter sta proseguendo nell’ambito del dibattito per l’approvazione della legge finanziaria 2018. L’emendamento approvato in sede referente dalla commissione Bilancio del Senato e inserito nel testo varato dall’Aula istituisce un Fondo per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

La dotazione dello strumento è pari a 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2018-2020 ed è destinato alla copertura finanziaria di interventi legislativi diretti a riconoscere il valore sociale ed economico dell’attività di cura non professionale svolta dal caregiver familiare.

Pur non esistendo ancora una normativa nazionale specifica a sostegno del caregiver, oggi è sempre più frequente trovare attenzione e riferimenti all’argomento nei provvedimenti che riguardano i temi dei servizi socio-sanitari e della non autosufficienza.

Ne sono esempi recenti:

  • il DPCM 12 gennaio 2017 “Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza […]” che prevedono la valutazione multidimensionale, la presa in carico del paziente e dei familiari, il coinvolgimento nella definizione del Piano Assistenziale Individualizzato e diversi interventi di supporto come l’educazione terapeutica a pazienti e caregiver, counselling per la gestione della malattia o della disabilità e la prevenzione delle complicanze, interventi di sollievo, gruppi di sostegno, supporto psicologico e sociale per i familiari che assistono;
  • il Piano Nazionale della Cronicità, approvato il 15 settembre 2016 dalla conferenza Stato-Regioni, nel quale vengono previsti il coinvolgimento del paziente e i suoi caregiver nel “patto di cura”, la valorizzazione della loro esperienza e azioni formative a sostegno del ruolo di assistenza.

La Regione Emilia Romagna è stata la prima ad approvare una legge sul riconoscimento e il sostegno al caregiver – Legge Regionale n.2 del 28 marzo 2014 “Norme per il riconoscimento e il sostegno del caregiver famigliare (persona che presta volontariamente cura ed assistenza)”.

Essa stabilisce che la Regione Emilia-Romagna “riconosce e valorizza la figura del caregiver familiare in quanto componente informale della rete di assistenza alla persona e risorsa del sistema integrato dei servizi sociali, socio-sanitari e sanitari”. Il caregiver familiare viene poi definito come “la persona che volontariamente, in modo gratuito e responsabile, si prende cura, nell’ambito del piano assistenziale individualizzato, di una persona cara consenziente, in condizioni di non autosufficienza o comunque di necessità di aiuto per un periodo prolungato nel tempo, non in grado di prendersi cura di sé”. Con questa legge la Regione ha inteso rendere più omogenee le risposte nei diversi territori, valorizzare l’apporto di queste figure e sostenerle nella loro vita (non solo nell’attività di cura) anche attraverso un rapporto più strutturato con la rete dei servizi, l’associazionismo no-profit e il volontariato.

Alla legge è seguita l’adozione di linee guida attuative (Deliberazione della Giunta Regionale 16 Giugno 2017, N. 858). Si tratta di un documento elaborato da un gruppo di lavoro composto da rappresentanti della Regione, Terzo settore, parti sociali, Aziende Unità Sanitarie Locali, Comuni, che introduce provvedimenti significativi per coloro che svolgono questo ruolo: tra gli altri, la possibilità di avere sostegno psicologico ed economico (assegno di cura anziani e disabili e contributo aggiuntivo assistenti familiari), supporti anche temporanei per essere coadiuvati nell’assistenza, e il riconoscimento delle competenze acquisite al fine di favorire il rientro nel mercato del lavoro.

Altre Regioni stanno seguendo l’esempio dell’Emilia Romagna e hanno in esame analoghi provvedimenti normativi (Abruzzo, Campania, Lazio, Lombardia, Marche Piemonte e Sardegna).

Accanto all’evoluzione normativa meritano attenzione altre iniziative che si pongono l’obiettivo di valorizzare il ruolo dei caregiver e di sensibilizzare istituzioni e opinione pubblica sul tema. Tra queste:

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Glossario
  • APSS: Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari
  • BPCO: Bronco-Pneumopatia Cronica ostruttiva
  • DPCM: Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
  • DVD: Disco Versatile Digitale
  • IMC: Indice di Massa Corporea
  • ISTAT: Istituto Nazionale di Statistica
  • PAI: Piano assistenziale Individualizzato

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