Cap. 8 – Approcci Collaborativi nei Percorsi di Cura: il Knotworking e la Community Online

Capitolo del Manuale per operatori “educare alla Salute e all’Assistenza”

Autori: Stefano Bonometti, Domenico Simeone

Indice

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Se osserviamo le traiettorie di cura che i cittadini compiono per ristabilire la propria situazione di ben-essere si nota come vi siano una molteplicità di percorsi che si connotano per una “solitudine” esperienziale (Karhe, 2015; 2015b). Il paziente in molte occasioni si sente solo e non protagonista delle decisioni relative alla propria cura, disorientato all’interno di un sistema di procedure, protocolli e servizi che in non poche occasioni si mostrano contraddittorie. Al tempo stesso, il mondo delle prestazioni sanitarie suddiviso in differenti tipologie di servizi (assistenziale, infermieristico, medici di base, specialisti, territoriali e ospedalieri) è indotto, per una sorta di tutela interna, ad una certa autoreferenzialità che induce gli operatori sanitari, infermieri o medici, a svolgere le attività separatamente e senza possibilità di comunicazione. L’attesa vissuta dal cittadino riguardo le prestazioni di cura nasce fin da subito come una “paziente” e dura lotta per la conquista dell’attenzione da parte degli operatori dei servizi con costi sia economici sia in termini di tempo. Allo stesso modo, gli operatori di cura, data la complessità e la rigidità dell’organizzazione sanitaria, i vincoli burocratici (sempre più dettagliati per garantire la qualità del servizio) nonché le specifiche continue riguardo le prestazioni, si arroccano all’interno dei propri contesti di lavoro, erogando le prestazioni con attenzione alla propria autotutela e alla propria salvaguardia piuttosto che alla salute delle persone per difendersi da sistemi di controllo che ricordano il “grande fratello” di orwelliana memoria tesi a evidenziare l’errore e la responsabilità.

Queste traiettorie di cura rapsodiche per il malato e circostanziate e riferite al proprio servizio per gli operatori, mostrano con forza i loro limiti in termini socio-sanitari, a livello culturale, e in riferimento all’efficacia dei processi di cura rivolti ai cittadini.

In un periodo in cui, per ragioni anche differenti (economiche, organizzative, etiche), numerose realtà internazionali, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, e innumerevoli ricerche scientifiche, sollecitano la centralità della prevenzione e dell’alleanza tra mondo della cura e paziente, si rafforza la convinzione del valore di una comunità di cura, superando gli accentramenti funzionali e organizzativi attraverso lo sviluppo di competenze boundary crossing e dell’engagement del cittadino nel promuovere il proprio percorso di cura in rapporto con una pluralità di soggetti.

All’interno di questo quadro problematico si evidenziano due questioni a nostro avviso significative per il superamento di alcune contraddizioni. La prima è data dalla rivisitazione del significato della dimensione relazionale nelle situazioni di cura alla luce delle recenti scoperte scientifiche; la seconda, dal rafforzamento della dimensione sistemica dei servizi che, grazie anche alle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT), possono raggiungere nuovi livelli di legame e integrazione.

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Risignificazione della relazione nelle situazioni di cura

La dimensione relazionale nei servizi di cura è da sempre riconosciuta, anche se più in linea teorica che nell’operatività pratica, come un fattore centrale per l’efficacia clinico-terapeutica. Un’attribuzione di importanza che però vive una possibile contraddizione. La relazione per un verso connota la dimensione di cura per l’emersione del vissuto del malato (illness), per il coinvolgimento esistenziale della persona e per l’implicazione della carica emotiva espressa dalle situazioni di crisi e difficoltà. Per altro verso, la dimensione relazionale sembra debba essere contenuta, dati i suoi aspetti emotivi, affettivi, valoriali che possono distrarre la prestazione. Tali aspetti si ritiene che siano da contenere e ricondurre ad un livello a latere per garantire un procedere ritenuto logico razionale.

Pur partendo da punti di avvio anche molto distanti tra loro, molteplici correnti scientifiche dalle neuroscienze alla fenomenologia, dal personalismo al costruttivismo, hanno messo in luce la centralità della socialità, dell’emotività e dell’affettività nel promuovere un cambiamento significativo nell’agire delle persone, nonché l’intreccio inscindibile tra le componenti emotive e un procedere logico-razionale (Immordino-Yang, 2017; Damasio, 2013). Le recenti scoperte svolte nell’ambito delle neuroscienze riguardo ai neuroni specchio (Gallese, 2006) evidenziano la predisposizione umana alla comprensione delle azioni dell’altro, in particolare si può citare la Teoria della simulazione (embodied simulation) fondata sulla scoperta, avvenuta nel corso degli anni Novanta, di neuroni di tipo particolare (neuroni specchio) localizzati nelle regioni parieto-motorie del cervello, nell’area di Broca e in larga parte della corteccia premotoria e del lobo parietale inferiore. L’osservazione di azioni o comportamenti prodotti da individui induce nel cervello dell’osservatore l’attivazione dei medesimi circuiti nervosi deputati a controllarne l’esecuzione, producendo una simulazione automatica definita “simulazione incarnata”. Questo meccanismo consente una forma implicita di comprensione delle azioni degli altri (Gallese, 2004). Ciò avviene grazie alla presenza di reti neuronali che si costituiscono nel corso della relazione con il mondo esterno. Percepire un’azione non semplicemente come una sequenza di movimenti, equivale a ‘simularla’ internamente, ossia ad attivare il suo programma motorio pur in assenza dell’esecuzione fattuale di quella stessa azione. Questa dimostrazione neuroscientifica basata sull’evidenza rafforza ciò che le correnti fenomenologiche, personalistiche ed ermeneutiche hanno affermato in termini di principio da tempo attraverso le riflessioni di M. Buber, P. Ricoeur, E. Husserl a E. Stein, secondo le quali la relazione con l’altro rappresenta la modalità e il luogo attraverso il quale conosciamo il mondo e noi stessi, attivando una co-costruzione del nostro sapere. La relazione con l’altro rappresenta quindi il fattore esistenziale per eccellenza. Questa particolare predisposizione fisiologica della nostra mente alla comprensione del mondo è messa ancora più in evidenza dal contributo di A. Damasio, il quale attraverso numerose ricerche empiriche mette in luce l’importanza delle emozioni nella produzione del ragionamento razionale. La possibilità di agire secondo un ragionamento logico-razionale, secondo Damasio si fonda sull’integrazione e non sull’esclusione della componente emotiva. Per certi versi, le emozioni anticipano il procedere cognitivo e lo connotano per la loro risonanza, caratterizzando il ragionamento che ne consegue.

Da qui si rafforza la proposta di un cambio di paradigma in base al quale la risonanza emotiva è strettamente integrata con il procedere cognitivo, recuperando quella dimensione affettiva ritenuta prevalentemente fonte di distorsione. Questo riconoscimento emerge non tanto e non solo per un’opzione etica, quanto per un’osservazione empirica resa evidente dagli studi fisiologici e neuroscientifici che ne confermano l’intrinseca integrazione.

Sia che si percorra quindi una strada basata sulle evidenze scientifiche sia che si ripercorra il pensiero filosofico esistenzialista emerge come la relazione, carica della sua dimensione emotiva, sia il tramite per la comprensione del mondo e per la formulazione della nostra conoscenza e la base delle decisioni riguardo ai nostri comportamenti.

Se decliniamo queste riflessioni nell’ambito della salute e della malattia si evidenzia come la cura dell’altro e di sé intreccia inesorabilmente la relazione con la tecnica, le emozioni con le competenze. La comprensione e l’apprendimento di competenze per la conduzione di un percorso terapeutico è un processo in cui la mente ricostruisce un percorso logico in base alla risonanza emotiva vissuta nella relazione. L’attività assistenziale, clinica e terapeutica espressa nella relazione tra operatore sanitario (medico, infermiere, operatore socio-sanitario) e paziente è strettamente intrecciato con la sfera emotiva e affettiva dei soggetti coinvolti.

Con queste considerazioni si vuole mettere in luce non solo l’importanza della relazione ma una sua riconfigurazione di significato che apre ad un agire multidimensionale, superando l’isolamento esperienziale del malato e del percorso terapeutico. Questa riformulazione del significato di relazione sollecita a tenere presente la pluralità delle dimensioni umane, non solo per un rispetto etico, ma per una vera e propria efficacia del percorso di cura. Una cura che va ben oltre la prescrizione terapeutica e si realizza attraverso un intreccio di attività cognitive, affettive, emotive, motorie inserite in un contesto sociale e culturale, espresse nell’incontro tra operatori sanitari e malato.

La “solitudine” vissuta da tanti malati è la risultante non tanto di una carenza effettiva di servizi di cura, ma da una mancanza di ricostruzione, ricodifica, risignificazione della terapia in condivisione tra malato e operatori. La cura è opportuno che sia vissuta nella sua pienezza esperienziale. Si tratta di un percorso terapeutico nel quale, in modo corresponsabile, operatori e malato procedono, individuando insieme la strada da percorrere e ancorando le decisioni ad una risonanza emotiva che si manifesta nella relazione. In questo modo si evita l’offerta di un servizio preconfezionato e standardizzato, in cui diversi operatori, in modo autonomo, offrono il servizio/prodotto/terapia al malato ed egli in autonomia (o solitudine) esegue, a diverso grado di coinvolgimento, le indicazioni fornite.

La relazione di cura, inoltre, si alimenta e si concretizza in una pluralità di rapporti con persone con differenti ruoli e competenze che, con modalità, tempi e strumenti differenti, partecipano alla promozione della salute della persona malata.

Questa molteplicità di contributi si mostrano in molte occasioni come un arcipelago di isole divise una dall’altra e l’elemento che le accomuna è la malattia della persona, e non la progettualità e la condivisione del percorso di cura. La dimensione propria della cura si gioca in una logica di sistema aperto attraverso la configurazione di traiettorie originali e uniche, composte e attivate dai soggetti coinvolti, in modo ogni volta differente.

Un sistema di assistenza che potrebbe essere valorizzato in una prospettiva denominata knotworking che rinnova e avvalora il lavoro di rete in una visione più adeguata alla società tecnologica contemporanea.

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La trasformazione della realtà sociale

Come evidenzia Folgheraiter (1998), il lavoro di rete è un modello d’intervento che si realizza tra i servizi del territorio e, soprattutto, tra i soggetti informali che danno vita a relazioni interpersonali che gravitano e si intrecciano attorno alle persone (relazioni familiari, parentali, amicali, di vicinato, di mutuo aiuto), assicurando protezione e sostegno nei casi di difficoltà personale e sociale. L’efficacia di un intervento di cura sul territorio trova un suo fondamento nell’intreccio delle relazioni che i soggetti coinvolti intessono fra di loro. Il rafforzamento della consapevolezza che la pluralità dei soggetti può effettivamente diventare una rete è il primo passaggio necessario perché al malato sia fornito non solo un servizio ma un’effettiva presa in carico del suo vissuto di malattia.

Uno dei punti di forza di un network è la complementarietà tra la dimensione formale delle istituzioni e quella informale delle relazioni, con l’auspicio di “riuscire ad irrorare le nervature organizzative e i rapporti personali dentro i servizi con input continuativi di umanizzazione e significanza psicologica” (ibidem). Lavorare in rete potrebbe diventare effettivamente un atteggiamento, nonché una metodologia di intervento ricercando costantemente traiettorie condivise e integrate.

Sussiste però un limite, emerso nel corso degli anni, attorno al lavoro di rete, dato dal vivere questo legame tra i diversi soggetti come fosse un protocollo, un regolamento, in altre parole un sistema formale che regolamenta l’azione di cura. La rete, nell’intento di garantire equità, formalizza i suoi rapporti e perde di significatività relazionale, diviene un mansionario esteso per regolamentare le differenti prestazioni rivolte al malato. Una sorta di irrigidimento della rete, dove le maglie rimangono fisse, perdendo nella quotidianità della cura quella flessibilità necessaria per rimodellare continuamente l’agire assistenziale. Ciò per cui nasce il lavoro di rete si perde nella rigidità, nella stabilità e nella gerarchizzazione delle mansioni.

Nell’attuale società dell’informazione si aggiunge un ulteriore dato di complessità, la pervasività delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione che nella vita di ognuno ha modificato i rapporti sociali. Tale dato ha un peso notevole nel riconfigurare le relazioni sociali in quanto, nell’arco di un decennio, è cambiato il significato stesso di realtà sociale, di prossimità, di contatto. Tralasciando gli aspetti numerici del fenomeno, si osserva una trasformazione delle modalità di rapportarsi alla malattia, affidandosi alla ricerca in rete per trovare informazioni e risposte riguardo la propria situazione.

Il Web rappresenta la nuova rete di rapporti attraverso la quale si cercano le risposte ai propri bisogni, le informazioni ed anche il conforto. Emerge in modo evidente la trasformazione, non solo delle relazioni ma anche del piano culturale. I significati stessi delle parole evolvono e si trasformano, si pensi alla parola rete, sempre più riferita alla rete internet e al mondo web e molto meno alla rete delle persone sul territorio. Allo stesso modo, il termine social network, ha modificato il suo significato ponendo al centro della sua area semantica l’insieme dei contatti online e lo scambio fra loro all’interno di una piattaforma web. Urry (2006) ritiene che per comprendere la società attuale è necessario un nuovo paradigma, quello della mobilità secondo il quale, ogni identità è continuamente in movimento dato il suo peso principalmente virtuale fornito dal device con il quale entra in comunicazione con il mondo. Inoltre, ogni informazione è in continua mobilità e trasformazione all’interno di una rete mondiale in cui non solo le persone ma anche l’intelligenza artificiale produce continuamente nuove conoscenze, attivando una intelligenza connettiva illimitata. Infine, in continua mobilità sono le relazioni connotate per la pragmatica dei loro scambi più che dalla vicinanza geografica: messaggi, chat, gruppi, rappresentano un nuovo spazio di relazione senza necessariamente un contesto fisico di riferimento.

Si pone in luce con chiarezza la “società liquida” descritta da Bauman, in cui eraclitamente tutto scorre e si perdono riferimenti certi e permanenti.

Dare risposte di cura non considerando questi cambiamenti si rischia di agire attraverso modalità obsolete e non coerenti rispetto alle aspettative. Diventa necessario cambiare prospettiva con la quale si osservano le relazioni e attivare modalità assistenziali e cliniche in cui la traiettoria di cura si ridisegna con il contributo riflessivo e operativo di tutti i soggetti coinvolti nell’intero sistema di attività.

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Il Knotworking come fonte di engagement per pazienti e operatori

Uno studio decennale promosso dai ricercatori del CADRLE dell’Università di Helsinki ha elaborato all’interno della corrente culturale del Cultural Historical Activity Theory, il concetto di Knotworking (Engeström, 2000; 2008) che favorisce un cambio di prospettiva e di modalità d’intervento a favore dei contesti organizzativi in cui agiscono, al tempo stesso, una pluralità di soggetti che con competenze differenti condividono medesime finalità.

La presentazione del Knotworking può prendere avvio dall’etimologia della parola contesto, avvalorando il significato di con-textere: intessuto, intreccio, tessitura ed anche tessere insieme (Bonometti, 2017). Il contesto dell’assistenza primaria diviene più che un luogo, un processo, un insieme dinamico di relazioni, situazioni, persone ed eventi caratterizzate per una “prossimità connettiva” nella quale promuovere opportunità di cura, di cambiamento e di crescita. Per prossimità connettiva si intende mettere in luce quell’insieme di relazioni significative (prossimi, sono coloro che sono vicini, importanti) che però non seguono criteri geografici, ma pragmatici, ovvero relazioni caratterizzate per il valore dell’interazione più che per il mezzo attraverso il quale si svolgono (presenza, mediata, online). La prossimità connettiva rappresenta un nuovo paradigma di socialità, infatti, attraverso il Web, si articolano una molteplicità di relazioni sociali prima impossibili, che però non implicano di per sé la significatività delle relazioni, che rimangono in carico ai soggetti e alla loro orizzonte valoriale.

I differenti soggetti coinvolti in questo intreccio più che immaginarsi in una rete stabile e configurata secondo regole e compiti strutturati, è più realistico che si percepiscano come un intreccio di nodi in continua mobilità che condividono medesime problematiche e strategie risolutive.

Questo percorso di cura configurato per e con il paziente, può essere inteso come un boundary-object, ovvero un oggetto di confine fra i differenti domini di competenze e funzioni. Si presenta come un artefatto culturale, frutto dell’agire condiviso, nell’accezione che emerge da Rossi e Toppano (2009) secondo i quali l’artefatto rappresenta il valore personale e socio-culturale delle pratiche del lavoro attivate dai soggetti coinvolti per realizzarlo. Gli artefatti presuppongono un progetto, uno scopo e di conseguenza un’intelligenza capace di attività creativa (Simeone, 2017). Possono essere intesi come entità ideate, progettate e costruite intenzionalmente per raggiungere uno o più scopi (outcome); inoltre, l’artefatto, interseca le differenti parti del sistema, ovvero una struttura costituita da parti e da relazioni appartenenti ad uno o più ambienti in continua interazione.

Il knotworking è questo intreccio poliedrico e mutevole, condiviso tra i soggetti, ma non più caratterizzato per la stabilità e la struttura, quanto piuttosto dalla mobilità e dall’intenzione di superare le contraddizioni (tensioni) interne fra i nodi della rete. Engeström nel definire il knotworking utilizza la nozione di “pulsazioni rapide, distribuite e parziali, un’improvvisa orchestrazione di performance collaborative tra sistemi di attività e attori differenti e liberamente connessi” (Engeström, 2000). Un intreccio di storie personali, identità, sistemi di attività che ponendo dinanzi a sé questioni condivise attivano un procedere sinergico nuovo, originale, multiprospettico. La rete delle relazioni è nei fatti un knotworking, nodi e legami di un sistema che si stringono o si allentano in base all’object (il percorso di cura) su cui converge lo sforzo a diverso grado d’intensità in ordine allo specifico periodo di cura. Possono esserci momenti di maggiore intensità d’interazione, data la necessità della situazione, per poi allentare la tensione e far sussistere solamente legami deboli. Per legame debole si intende che nel tempo persiste un collegamento fra i soggetti coinvolti ma che non è attivo. Solo in specifici momenti i legami si ri-attivano, i nodi si stringono, la rete diviene nuovamente produttiva.

Il knotworking rappresenta non solo un modello di interazione fra più soggetti coinvolti in un progetto, ma può divenire un’opportunità di apprendimento e crescita per i soggetti stessi.

Il knotworking si pone tra il lavoro di rete e il gruppo di lavoro (Engeström, 2008), ma con caratteristiche organizzative molto più fluide, tempistiche di lavoro discontinue e con una priorità sul compito/progetto più che sui specifici soggetti.

Ai differenti soggetti coinvolti nel processo di cura è richiesto di identificare uno spazio (in presenza o online) nel quale promuovere processi di scambio di informazione, di confronto, di negoziazione e di condivisione di azioni assistenziali e terapeutiche. In questo specifico spazio di confine (boundary zone) si incontrano i differenti contributi professionali e assistenziali, dal medico specialista a quello di base, dal caregiver all’assistenza infermieristica sul territorio per un aggiornamento delle informazioni, lo scambio di opinioni e lo sviluppo delle traiettorie di cura.

Ogni partecipante che interviene nel Knotworking rappresenta un sistema di attività di seconda generazione (Figura 1) e terza generazione (Figura 2) (Engeström, 2001). Ciascun Soggetto (Subject) ha una specifica questione da affrontare (Object), la affronta in base a Strumenti culturali e professionali (Tools and signs), al fine di raggiungere un risultato atteso (Outcome). Per far ciò ha norme di riferimento (Rules), è inserito in comunità scientifiche o familiari (Community), nonché specifiche organizzazioni di attività (Division of Labor).

Figura 1 – Il Sistema di attività di seconda generazione (fonte: Engeström, 2000)

 

 

Questa triangolazione rappresenta la complessità che caratterizza ogni soggetto che partecipa al Knotworking. Da qui derivano le differenti prospettive di intervento, i linguaggi e le pratiche diverse che creano le contraddizioni e in molti casi rendono difficoltoso il percorso di cura. Il superamento della difficoltà non sta nell’irrigidimento del sistema, razionalizzando le procedura ma nel valorizzare la dimensione soggettiva della partecipazione, focalizzando l’attenzione su un Object condiviso di secondo livello, negoziato, riformulato e dotato di un nuovo senso.

Figura 2 – Il sistema di attività di terza generazione (fonte: Engeström, 2000)

I soggetti possono costruire e aggiornare costantemente un accordo di cura (Care Agreement) in uno spazio condiviso (anche attraverso piattaforme online) nel quale comunicare e condividere documenti, attraverso legami non necessariamente stabili e routinizzati, ma attivati attraverso “rapide pulsazioni” alternate a periodi di latenza, secondo i bisogni emergenti dal percorso di cura.

Il nuovo Object3 rappresenta un oggetto di confine, ciò che abbiamo definito un artefatto, che si configura come l’effettivo percorso di cura al quale tutti partecipano attivamente, sia nella formulazione iniziale sia costante aggiornamento nel corso del tempo. L’attivazione del knotworking prende in considerazione alcune contraddizioni interne emergenti fra i sistemi di attività, dalla difficoltà di aggiornamento reciproco fra medici di base e medici specialistici, alle differenti prospettive tra sistema famiglia e istituzioni formali, come tra bisogni del malato e tempi d’intervento. Queste contraddizioni strutturali possono trovare spazio di soluzione nella condivisione di un nuovo livello di confronto, condiviso, mobile, focalizzato nel tempo sulle esigenze, che promuove scambio di informazioni e comunicazione e che coinvolge tutti gli operatori secondo il proprio ruolo e le proprie competenze. Le nuove tecnologie dell’informazione possono, attraverso la loro potenzialità e facilità d’uso, configurare questa modalità differente di relazione sociale e di cura, che non intende sostituire la relazione face to face, ma espandere le potenzialità dell’incontro, del confronto e della costruzione di un’intesa in una comunità di persone.

L’incontro fra i soggetti è un attraversamento di confini che configura uno spazio nuovo, mediato dalla necessità di costruire un artefatto condiviso, ovvero, il percorso di cura. Si tratta di un’interazione finalizzata alla costruzione di un senso comune, contestualizzata e focalizzata sulle questioni prioritarie della cura. L’agire condiviso finalizzato alla realizzazione dell’artefatto diventa un processo nel quale i soggetti, hanno l’opportunità non solo di comunicare, riflettere e costruire nuove pratiche, ma anche di evolvere nuove competenze e nuovi saperi. Un processo di apprendimento che prendendo avvio dal confronto interpersonale, alimenta progressivamente un patrimonio personale che successivamente viene rimesso in gioco nella comunità stessa.

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Conclusioni

Una questione rilevante di questa proposta organizzativa è l’effettiva possibilità di ricaduta sia dal punto di vista dell’operatività dei soggetti in gioco sia dal punto del supporto assistenziale e clinico.

Per confermare questa attesa è necessario che i soggetti appartenente al knotworking identifichino un case manager, una funzione di coordinamento intorno al percorso di cura che favorisca gli scambi e monitori le emergenze. Al di là di una responsabilità gerarchica o funzionale è colui che assume una leadership relazionale condivisa e riconosciuta a determinare ciò che accade. Le decisioni riguardo al piano di cura e ai necessari aggiornamenti in progress ricadono sull’insieme dei soggetti (paziente compreso) e sono riportati in un documento online (l’artefatto) che rappresenta l’Accordo di Cura condiviso. Nell’esperienza finlandese, prima citata, è definito Care Agreement e ha la funzione di formalizzare il processo di attraversamento dei confini disciplinari e di co-costruzione del percorso di cura. Ciò è possibile attraverso una sua digitalizzazione e un suo posizionamento in uno spazio online condiviso e protetto. Questa rete relazionale e professionale tra medici, infermieri, caregiver e pazienti si formalizza nel Care Agreement, supportata da sistemi tecnologici basati sul social network (dalla semplice applicazione WhatsApp collegata a un repository online come Drive), alla strutturazione di software ad hoc.

Muovendo da queste prime riflessioni, è stata attivata una ricerca esplorativa con l’obiettivo di comprendere se i nuovi spazi relazionali sviluppati nei social network e nelle chat online possano offrire a determinate condizioni, possibili opportunità per una nuova prospettiva di relazione assistenziale (Maculotti, 2017). Analizzare esperienze assistenziali sviluppate anche con il supporto di tecnologie social, permette di riflettere sui vincoli e sulle risorse di queste nuove modalità di espressione della realtà sociale, all’interno delle quali passa il racconto di sé, della propria sofferenza e della propria speranza di vita. Aspetti che vanno a comporre l’engagement del paziente, il suo coinvolgimento, la sua forza emotiva per promuovere il proprio cambiamento.

A partire da queste domande si è pianificato un percorso di indagine di natura qualitativa, al fine esplorare tali dinamiche all’interno di una community online attiva in WhatsApp, composta da pazienti post degenti, portatori di stomia in cura presso un Istituto Ospedaliero no profit della Lombardia.

Il team di ricerca ha individuato un campione di pazienti afferenti all’Unità Operativa di Chirurgia addominale e in cura presso il servizio di assistenza infermieristica per pazienti portatori di stomia e di indistinta patologia e prognosi finale, dal gennaio a luglio 2016.

I criteri di inclusione dei pazienti e/o dei loro caregiver sono stati quelli di essere pazienti ex-degenti dell’Unità Operativa di Chirurgia nell’arco degli ultimi tre mesi o in fase di dimissione, portatori di una stomia, in grado di possedere l’accesso e le competenze base per la gestione dell’applicazione WhatsApp, inoltre la partecipazione è basata sull’adesione volontaria dopo l’invito e la presentazione del progetto. I pazienti e il team di ricerca hanno firmato un accordo riguardo al rispetto della privacy e del corretto lavoro clinico, approvato dal direttore del dipartimento ospedaliero.

I pazienti attivi nel gruppo di Whatsapp sono stati 15 e la ricerca dal punto di vista qualitativa ha analizzato gli scambi verbali scritti, registrati e espressi attraverso simboli grafici tra l’infermiera e il gruppo, e fra i partecipanti stessi, all’interno di una chat di gruppo in Whatsapp, aperta ad hoc per la ricerca e riservata ai membri. Il percorso di analisi ha previsto anche una rilevazione quantitativa attraverso la somministrazione in due fasi, quella d’ingresso e quella finale. In 11 hanno risposto al questionario di ingresso (t0) e 9 hanno risposto al questionario finale (t1 a distanza di 6 mesi). Un paziente è deceduto durante il progetto di ricerca e un paziente non ha risposto.

L’esperienza condotta, con l’intenzione di comprendere la reale efficacia di un gruppo online attivato nell’ambiente Whatsapp per prolungare la relazione infermieristica, indica che ciò è possibile e, nelle condizioni sperimentate, è anche auspicato dai pazienti. Lo studio presenta limiti connessi ai percorsi di ricerca esplorativa, emergenti principalmente dal ridotto numero di casi analizzati, dall’identificazione di dimensioni e categorie di analisi in progress e a un ridotto livello di formalizzazione.

Gli elementi emersi dall’analisi, al tempo stesso, mettono in luce come lo spazio relazionale in ambiente tecnologico non preclude, anzi favorisce confidenza, supporto reciproco, coinvolgimento e apprendimento. Inoltre, gli scambi sono stati valutati dagli stessi pazienti efficaci ed utili anche dal punto di vista clinico e assistenziale, riducendo rientri in ospedale e una migliore gestione di presidi e strumenti clinici. Ciò è però possibile a fronte di alcune condizioni necessarie. Fra queste si ritiene un fattore chiave, la presenza di una figura di moderatore, esperto sia sul piano clinico-assistenziale sia sul piano della comunicazione online, nonché competente riguardo le relazioni di gruppo. Questo pivot deve inoltre possedere la capacità di discernere la complessità clinica delle richieste e quindi di produrre una risposta adeguata. Ciò mette in luce il possibile arricchimento della professione infermieristica, della sua estensione su contesti d’azione finora inesplorati o lasciati all’occasionalità. Inoltre, in questa ricerca il rapporto fra infermiere, malato e caregiver si è sviluppato effettivamente tramite un procedere sinusoidale in base alle richieste senza optare per sequenze routinarie e sequenziali. L’esperienza è un prodromo per l’attivazione di un effettivo knotworking in grado di rispondere in modo sempre più adeguato ai bisogni di cura della società 2.0.

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