Cap. 15 – Gestione di sistema delle malattie croniche ad elevata prevalenza

Capitolo del Manuale per Operatori di Sanità Pubblica “Governare l’Assistenza Primaria

Autori: Alessandra Buja e Roberto Toffanin

Indice del capitolo:

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Concetto di Governo Clinico e relativi strumenti professionali/organizzativi

Il concetto di Governo Clinico (GC), liberamente tradotto dall’inglese “clinical goverance” è entrato nel dibattito scientifico nel 1998 a seguito dell’articolo di Scally e Donaldson pubblicato sul BMJ (1), in cui la GC veniva definita come: “… un sistema per cui le Organizzazioni Sanitarie sono responsabili del miglioramento continuo della qualità dei loro servizi e di garantire elevati standard di qualità dell’assistenza, creando un ambiente nel quale la qualità possa fiorire”. Per comprendere appieno il concetto di Clinical Governance è necessario considerare che i due termini inglesi non sono facilmente traducibili in italiano: la Governance indica la gestione ed il governo dei processi attraverso un sistema di consultazione, condivisione e concertazione, mentre il termine Clinical deve essere considerato in un contesto di non sola pertinenza medica, ma riferito a tutte le professioni sanitarie coinvolte nei processi clinico-assistenziali. Nell’articolo di Scally e Donaldson venivano individuati i 4 aspetti principali alla base di ogni programma di GC:

  • la performance professionale o qualità tecnica;
  • l’utilizzo delle risorse o efficienza;
  • la gestione del rischio clinico;
  • la soddisfazione degli utenti riguardo ai servizi.

Sempre nello stesso articolo venivano definite le componenti integrate del GC, ovvero:

  • gli elementi strutturali;
  • l’accesso alle evidenze scientifiche;
  • la formazione e sviluppo professionale;
  • la tecnologia informatica a supporto della pratica clinica;
  • la coerenza degli obiettivi dei singoli e dei gruppi con quelli dell’organizzazione;
  • la comunicazione aperta;
  • la gestione delle performance scadenti attraverso un loro riconoscimento precoce, l’intervento, l’autoregolamentazione ed il ritorno informativo ai singoli e ai gruppi dei dati e degli indicatori di valutazione delle performances;
  • il sistema della qualità;
  • la cultura e la leadership clinica, con un alto valore riconosciuto alla formazione e alla ricerca, la partnership con i cittadini e l’etica del lavoro di gruppo.

Nel corso degli anni successivi l’interesse per tali concetti si è esteso in tutto il mondo ed ha coinvolto, a diversi gradi, tutti i servizi sanitari, con l’intento di agire in modo coordinato, per arrivare con un approccio sistematico e multiforme di miglioramento della qualità. Da segnalare, a questo proposito, è lo strumento messo a punto dai ricercatori dell’Istituto di Igiene dell’Università Cattolica di Roma, teso a valutare il grado di realizzazione nella pratica del GC (2). Esso identifica le componenti della strategia unitaria del GC:

  • Medicina delle Prove di Efficacia (MePE, Evidence Based Medicine, EBM): integrazione dell’esperienza clinica del medico con la migliore evidenza scientifica disponibile;
  • La dimostrazione della responsabilità (accountability): individuazione univoca dei responsabili degli atti clinici;
  • Laudit clinico: valutazione sistematica della propria attività ed i propri risultati confrontandoli con standard espliciti;
  • Misurazione della performance clinica: monitoraggio sistematico dei risultati della pratica clinica in termini di efficacia, appropriatezza, efficienza, qualità e tempi;
  • La valutazione delle tecnologie sanitarie (HTA – Health Technology Assessment): valutazione integrata sulla base di analisi di impatto economico, sociale, etico, legale e culturale delle tecnologie sanitarie (farmaci, dispositivi, …) impiegate o da adottare;
  • La valutazione ed il miglioramento continuo delle attività cliniche: un sistema che, attraverso la tecnica del problem-solving, tenda a verificare sempre la qualità tecnico professionale e percepita e sia orientato al continuo miglioramento della stessa;
  • Risk Management: identificazione degli errori prevenibili commessi durante la pratica clinica ed analisi e gestione del rischio clinico volta alla prevenzione degli eventi avversi prevenibili;
  • Empowerment del cittadino-paziente: rafforzamento della partecipazione del cittadino alle decisioni cliniche.

Distingue, inoltre, quattro strumenti funzionali o “prerequisiti” necessari al perseguimento degli obiettivi e alla realizzazione delle strategie, che sono:

  1. La gestione delle persone e delle risorse: es il Sistema premiante e di valorizzazione del personale, che deve essere orientato al raggiungimento degli obiettivi della “clinical governance” e quindi potenziato e dimensionato in funzione del perseguimento di traguardi definiti per le strategie sopradescritte;
  2. La ricerca scientifica e lo sviluppo: anche parte della ricerca va orientata alla definizione e alla valutazione delle strategie più efficaci ed efficienti per il perseguimento delle strategie sopradescritte di “clinical governance” al fine di organizzare i servizi riferiti ad evidenza scientifica;
  3. La cultura dellapprendimento: la formazione continua e lo sviluppo delle risorse umane dovrebbe essere coerente e funzionale al raggiungimento degli obiettivi e alla messa in atto delle strategie;
  4. La tecnologia dellinformazione: i Sistemi informativi dovrebbero essere a supporto delle attività attraverso un sistema informativo integrato che permetta il dimensionamento dei fenomeni per la pianificazione e l’organizzazione delle strategie e la valutazione della performance.

Sebbene gran parte degli studi e delle attività di governo clinico siano riconducibili alla gestione delle attività ospedaliere, attualmente vi è un interesse emergente nell’applicare strategie di governo clinico nell’ambito dell’Assistenza Primaria, dove, tanto quanto che nell’ambiente ospedaliero, possono annidarsi l’inefficienza e l’inefficacia delle soluzioni sia gestionali che cliniche.

Appare, quindi, sempre più importante chiarire quali siano i modelli e gli strumenti della clinical governance applicabili all’Assistenza Primaria in relazione alla loro provata efficacia nel “creare un ambiente che favorisca l’espressione dell’eccellenza clinica”, soprattutto nella gestione dei pazienti affetti da patologie croniche.

Le malattie croniche, infatti, a differenza di quelle acute, causano modificazioni durature e spesso irreversibili della qualità di vita, portando ad un continuo peggioramento dello stato di salute. Il management delle malattie croniche è molto complesso e spesso richiede una terapia farmacologica multipla, visite specialistiche periodiche e importanti cambiamenti dello stile di vita. Tutto questo necessita di un approccio integrato organizzato, sistematico e sistemico al paziente cronico, che differisce da quello acuto anche per l’espressione della domanda di accesso ai servizi. I pazienti cronici, infatti, non sono sempre consapevoli dei propri bisogni di prevenzione, cura, autocura ed assistenza, con conseguente assenza di domanda o di tempestività. Per questi pazienti è necessaria un’organizzazione dei servizi ispirati alla clinical governance. In particolare, un’Assistenza Primaria efficace può prevenire l’insorgenza delle malattie croniche e ridurre la mortalità evitabile attraverso l’identificazione e la modifica dei fattori di rischio per la salute; come dimostrato da numerosi studi nazionali e transnazionali (3). L’Assistenza Primaria è in grado di ridurre la mortalità evitabile anche attraverso una diagnosi precoce delle malattie (4) ed il coordinamento efficace dell’assistenza, che garantisce una presa in carico del paziente continua e longitudinale (5). Nonostante le sue grandi potenzialità, una vasta letteratura dimostra che l’Assistenza Primaria, in molti paesi e regioni, non è garantita alla popolazione in modo sufficiente (6).

Già prima del 1997 erano state numerose le iniziative nel campo del miglioramento della qualità dell’assistenza nella medicina di famiglia, per impulso soprattutto del WONCA (World Organization of National Colleges, Academies and Academic Associations of General Practitioners/Family Physicians – Organizzazione Mondiale dei Collegi Nazionali, delle Accademie e delle Associazioni Accademiche di Medicina Generale di Famiglia). Un gruppo di lavoro del WONCA, ad esempio, nel 1992 produsse un opuscolo intitolato, “Verifica e revisione di qualità per Medici di Medicina Generale”, nel quale veniva descritto quello che oggi chiamiamo il ciclo di audit, adattato al contesto della medicina di famiglia (7). Subito dopo la pubblicazione del Libro Bianco del Ministero della Salute del Regno Unito nel 1997, e del fondamentale articolo di Scally e Donaldson sul British Medical Journal (1998), che lanciavano il concetto di GC, sono apparsi numerosi contributi, che proponevano esperienze e modelli di GC. Nel 1999, Baker ed altri propongono un modello operativo per realizzare programmi di GC nell’Assistenza Primaria (8) attraverso i Primary Care Groups (strutture organizzative a servizio di un bacino di circa 100.000 abitanti), i cui elementi fondamentali sono:

  • la responsabilità per il miglioramento della salute delle comunità servite, sviluppando i servizi primari e di comunità e richiedendo la collaborazione di servizi specialistici di alta qualità;
  • utilizzo del GC come sistema locale per il miglioramento qualitativo e per l’accountability;
  • la nomina di un responsabile del GC per ogni gruppo; ogni professionista può prendere parte alle iniziative di GC;
  • un programma complessivo per il miglioramento qualitativo, iniziative per lo sviluppo professionale, politiche per la gestione del rischio clinico e per affrontare le performance insufficienti, la rendicontazione della qualità dell’assistenza.

Oltre a mostrare come i gruppi di Assistenza Primaria possono introdurre nella loro pratica quotidiana elementi del GC, il lavoro evidenzia anche come le Autorità di Sanità Pubblica ed i committenti politici possano monitorare i progressi nella implementazione del GC.

In un articolo del 1999 (9), i medici di famiglia neozelandesi, per lo più riuniti in cooperative private, illustrano il proprio modello di GC, nel quale un comitato di direzione eletto dai membri risponde alle Autorità di Sanità Pubblica dell’impiego di risorse pubbliche. Tali associazioni di medici si caratterizzano per una struttura organizzativa ed una dotazione di personale ben definita, un sistema informativo, linee guida cliniche, incontri di revisione tra pari della qualità dell’assistenza e un sistema di ritorno informativo ai singoli medici della loro performance. Le Associazioni usano la metodica di budget per produrre risparmi con i quali sviluppare servizi nuovi e migliori. Secondo gli autori, il GC si può sviluppare come una funzione collaborativa con i leader clinici eletti dai colleghi che si impegnano a perseguire sia la qualità clinica che l’efficienza nell’uso delle risorse. Il GC funziona meglio se il controllo burocratico è ridotto al minimo assicurando però un’appropriata accountability. Il GC permette la creazione di una leadership idonea a costruire alleanze sia all’interno del gruppo di Assistenza Primaria, che con altre professionalità e con le comunità locali.

Rebecca Rosen, in un articolo del settembre 2000 (10), riassume le principali iniziative per il miglioramento della qualitatà in medicina generale a livello internazionale. Cita quindi i gruppi di revisione tra pari in Nuova Zelanda, la formazione continua in Germania sui temi della qualità e della economia sanitaria, la ricertificazione periodica dei medici in Norvegia, attraverso la formazione e l’opportunità di frequentare l’ospedale e, infine, il coinvolgimento della comunità nella regolamentazione del lavoro del medico e nella valutazione della qualità in Canada (esempio di accountability). Una revisione sistematica del 2010 si propone di individuare le dimensioni “core” dell’Assistenza Primaria, che rivestono un maggiore impatto sugli esiti di salute (11). Gli autori mettono al primo posto il sistema di governance delle organizzazioni di Assistenza Primaria, costituito da chiari obiettivi di salute, una politica di equità di accesso, un sistema di gestione della qualità e della sicurezza, l’appropriatezza della tecnologia impiegata, l’advocacy dei malati e l’integrazione nel sistema sanitario. Gli studi, concludono gli autori, trovano un’associazione del sistema di governance con l’accessibilità, la continuità, il coordinamento e la globalità dell’assistenza, l’equità, l’efficienza e lo stato di salute degli assistiti. Riscontrano inoltre un’associazione del sistema di governance con la soddisfazione professionale degli operatori, con il grado di accontability locale, i costi e la soddisfazione degli assistiti.

Nei paragrafi successivi tratteremo per esteso le singole componenti della clinical governance che dovranno poi essere integrate a livello di sistema.

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Dall’EBM ai Percorsi Diagnostici Terapeutici nella gestione dei malati cronici

La MePE è definita come “l’utilizzo di stime matematiche del rischio (probabilità) di benefici e di danni, derivanti da studi di elevata qualità condotti su campioni di popolazione, per guidare le decisioni cliniche nella diagnosi e nella condotta terapeutica su singoli pazienti” (12).

Il termine EBM comparve per la prima volta in un articolo scientifico nel 1992 pubblicato sul Journal of American Medical Association. In esso si affermava che tutte le azioni cliniche sul piano diagnostico, della valutazione prognostica e delle scelte terapeutiche, dovevano essere basate su solide evidenze quantitative, derivate da una ricerca clinico-epidemiologica di alta qualità.

Come sottolineato da Alessandro Liberati (13), le assunzioni di fondo della MePE sono le seguenti:

  • sebbene l’esperienza e lo sviluppo di un “istinto clinico” siano un requisito essenziale per una buona pratica della medicina, lo sforzo di standardizzare e rendere riproducibili e valide le proprie osservazioni rappresenta un momento fondamentale per accrescere la credibilità delle deduzioni sulla utilità di un test o l’efficacia di una terapia;
  • lo studio delle basi fisiopatologiche rappresenta una guida necessaria, ma non sufficiente, per derivare linee di condotta clinica;

Da tali assunzioni deriva un chiaro “cambio di paradigma”:

  • si deve accettare di dover prendere certe decisioni in condizioni di incertezza, per mancanza di informazioni rilevanti;
  • il rispetto dell’autorità ha un peso molto inferiore rispetto alla valutazione critica rigorosa della qualità delle conoscenze disponibili.

Nella stessa raccolta di saggi curata da Alessandro Liberati (13), si evidenziano le caratteristiche peculiari della Medicina di Famiglia ed in particolare la dimensione del tempo, “entro cui si collocano e si sviluppano la storia del paziente, la storia delle sue consultazioni, la storia della sua malattia (o malattie)”. Questa ed altre caratteristiche, come l’attitudine a lavorare nell’incertezza, l’abitudine a vedere sintomi e problemi più che malattie (e a operare quindi in condizioni di bassa prevalenza delle malattie, diversamente dal setting specialistico, nel quale si opera su casistiche selezionate e, quindi, ad alta prevalenza), la centralità della relazione e gli aspetti negoziali della consultazione, rendono peculiare l’ambiente della medicina di famiglia e pongono problemi particolari all’applicazione pura e semplice della MePE. Per questi motivi, la conoscenza dei risultati della ricerca scientifica deve informare il giudizio clinico e non dettare la pratica clinica. Il medico di famiglia “con il passaggio dalla ricerca alla pratica realizza una sintesi tra conoscenze scientifiche ed esigenze individuali, tra oggettività e soggettività, non definibili a priori da nessun trial clinico.” Gli autori concludono che l’utilizzo di Linee Guida Cliniche (LGC) di buona qualità è comunque necessario, visto il gran numero di procedure diagnostiche e terapeutiche incongrue a cui vengono sottoposti i cittadini e lo spreco di denaro pubblico per pratiche non efficaci.

Come è noto, le LGC sono raccomandazioni sviluppate in modo sistematico, per assistere i clinici nelle decisioni. In aggiunta le Linee guida possono svolgere un ruolo importante nella definizione di politiche sanitarie. Attualmente sono disponibili strumenti per rispondere a tali bisogni dei medici utilizzatori delle LGC: un esempio è il sistema GRADE (Grading of Recommendations, Assessment, Development, and Evaluation), messo a punto dal Canadian Task Force on Preventive Health Care, il quale ha lo scopo di aiutare i medici a contestualizzare le LGC ed a supportare un approccio centrato sulla persona (14, 15). Un altro strumento sviluppato per rispondere al problema della grande variabilità della qualità delle Linee Guida è il sistema AGREE (Appraisal of Guidelines for REsearch & Evaluation) (16), che aiuta a valutare il rigore metodologico e la trasparenza con la quale una Linea Guida è stata sviluppata.

La formazione dei medici di famiglia, infine, dovrebbe renderli capaci di valutare e di usare le evidenze scientifiche mantenendo la centralità della persona (17,18).

Il trattamento di un problema di salute, tuttavia, soprattutto per i pazienti affetti da diverse comorbidità, richiede frequentemente il contributo di più attori all’interno di un sistema inter-professionale, inter-disciplinare e multi-disciplinare. Per facilitare questo lavoro coordinato e basato sulle migliori evidenze scientifiche le aziende sanitarie locali sono chiamate a definire i Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali (PDTA), che rappresentano la contestualizzazione delle Linee Guida, relative ad una patologia o problematica clinica, nella specifica realtà organizzativa di un’azienda sanitaria, tenute presenti le risorse ivi disponibili. I PDTA, in pratica, sono strumenti che sulla base delle linee guida ed in relazione alle risorse disponibili, permettono all’azienda sanitaria di delineare, rispetto ad una patologia o ad un problema clinico, il miglior percorso praticabile all’interno della propria organizzazione. Per redigere un PDTA è necessario un approccio multiprofessionale e multidisciplinare; sono infatti necessarie sia competenze cliniche che organizzative. Dal punto di vista clinico verranno individuati i rappresentanti delle professionalità che intervengono nella presa in carico di una determinata patologia. Inoltre, è previsto che collaborino alla stesura anche operatori dotati di competenze metodologiche e organizzative a differenti livelli: dalla gestione per processi alla valutazione e miglioramento per la qualità, dal coordinamento di gruppi di lavoro al coinvolgimento dei professionisti impegnati in azienda, dalla programmazione e controllo di gestione alla formazione. La concreta attuazione e poi il monitoraggio dei PDTA richiede la definizione di indicatori clinici ed organizzativi, di volumi di attività e di tetti di spesa previsti e quindi anche di flussi informativi che permettono di ottenere la valutazione degli indicatori.

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Misurazione della Performance Clinica: individuazione di indicatori misurabili e confrontabili, accountability, audit clinico

Misurazione delle performance per l’Assistenza Primaria (Distretto Socio Sanitario)

Negli ultimi decenni la complessità dell’Assistenza Primaria nei paesi sviluppati è notevolmente aumentata anche grazie all’accorpamento dei servizi specialistici. Nel Sistema Sanitario Italiano tali servizi specialistici territoriali sono stati collocati all’interno del Distretto Socio Sanitario e suddivisi per Aree di problemi che richiedono un’alta integrazione socio sanitaria: anziani, disabili, bambino e famiglia, dipendenze, salute mentale, HIV e cure palliative. In modo corrispondente è aumentata la complessità dei problemi di salute e dei casi trattati nel contesto dell’Assistenza Primaria. La necessità di integrazione di questi servizi specialistici nell’ Assistenza Primaria richiede una visione unitaria del GC, che assicuri la qualità e la sicurezza della erogazione dei servizi. In questa prospettiva riteniamo utile richiamare la proposta dell’Istituto Australiano di Assistenza Primaria (19), che esplora quali tipologie di indicatori potrebbero essere utilizzate in una visione unitaria del GC nei servizi di Medicina di Comunità. Gli indicatori seguono le 6 dimensioni della qualità fatte proprie dal Victorian Quality Council: l’efficacia, la sicurezza, l’appropriatezza, l’accessibilità, l’accettabilità e l’efficienza. Particolarmente interessante è la proposta di indicatori clinici della dimensione dell’efficacia, definita come “il grado in cui si verificano i risultati attesi e desiderati di un trattamento”, che si sviluppano su tre livelli: I) indicatori specifici per disciplina, II) indicatori specifici per patologia e III) indicatori di sistema.

Gli indicatori specifici per patologia comprendono gli indicatori di processo e di esito intermedio specifici per malattia (il prototipo è rappresentato dalla frequenza della misurazione e dai livelli di HbA1c nei diabetici di tipo II), gli indicatori sui principali stili di vita principali (tabacco, alcool, tipo di nutrizione, indice di massa corporea e attività fisica, ecc.) e altri utili indicatori di processo (es. % di diabetici che hanno un piano di cura; % che hanno seguito il piano di cura nell’ultimo anno, ecc.). Mentre tali indicatori specifici per patologia hanno un carattere multidisciplinare, gli indicatori specifici per disciplina sono caratteristici di un particolare servizio. Il documento discute per esemplificazione gli indicatori di efficacia dei Servizi di Riabilitazione (fisioterapia, terapia occupazionale, foniatria-logopedia). Ogni disciplina definisce le aree di misurazione degli esiti di salute (per la fisioterapia: il controllo posturale, le funzioni dei movimenti muscolo scheletrici, il dolore, le funzioni sensorie ecc.).

Infine l’efficacia dell’assistenza delle malattie croniche può essere misurata anche tramite indicatori di sistema, cioè per mezzo di strumenti con i quali gli operatori valutano la capacità del sistema dei servizi di fornire l’assistenza necessaria. Nel contesto della medicina territoriale, potrebbe essere inserito nel programma di GC lo strumento ACIC (Assessment of Chronic Illness Care), attraverso il quale gli operatori dell’Assistenza Primaria valutano la qualità organizzativa dell’assistenza, rispondendo a quesiti calibrati per esaminare le sei aree del modello di Wagner (Chronic Care Model):

  • l’orientamento ai malati cronici dell’organizzazione o del sistema di assistenza;
  • l’attivazione delle risorse della comunità locale;
  • il grado in cui le persone vengono formate all’autogestione dei problemi di salute;
  • il grado di supporto alle decisioni cliniche;
  • l’organizzazione degli ambulatori;
  • il sistema informativo clinico.

Il GC dell’Assistenza Primaria non può infine non considerare le sfide poste dalla comorbosità e dalla fragilità. A questo proposito, conviene citare il sistema di indicatori formulato dal Multiple Chronic Conditions Measurement Framework, prodotto nel Maggio 2012 dal National Quality Forum, negli Stati Uniti, nell’ambito della Riforma Sanitaria avviata dal Governo Obama (20). Questo documento definisce innanzitutto il campo di applicazione, identificando le persone con condizioni croniche multiple tra i pazienti affetti da 2 o più condizioni croniche concorrenti, che inoltre hanno ripercussioni sullo stato di salute, sul funzionamento e/o sulla qualità della vita, e che richiedono una gestione assistenziale, caratterizzati da complessità”. Successivamente il documento propone i concetti chiave prioritari, che possono essere oggetto di strategie di miglioramento e che fanno riferimento alle Strategie Nazionali; rispetto a questi concetti chiave sono state definiti le possibili aree/obiettivo da valutare attraverso indicatori per la misurazione delle performance:

  • ottimizzare, mantenere, o prevenire la perdita di autonomia del paziente;
  • garantire, senza discontinuità, i passaggi tra diversi setting assistenziali (contesti/luoghi di assistenza) e tra diversi operatori sanitari che seguono il paziente;
  • raggiungere i risultati di salute importanti per il paziente (inclusi i risultati richiesti dal paziente ed i risultati rilevanti, specifici per la singola malattia);
  • evitare nell’ambito del fine della vita l’assistenza non appropriata, che non porta benefici al paziente;
  • garantire l’accessibilità all’assistenza in maniera continuativa;
  • favorire la trasparenza rispetto ai costi;
  • condividere la responsabilità tra paziente, i familiari ed erogatori di assistenza;
  • coinvolgere il paziente e condividere con lui le decisioni.

Per ciascun concetto chiave vengono proposti alcuni set di indicatori. Ad esempio, per il concetto chiave “evitare nell’ambito del fine della vita l’assistenza non appropriata, che non porta benefici al paziente” vengono proposte le seguenti misure:

  • pazienti in cure palliative che non ricevono un’assistenza coerente con i desideri/volontà del fine vita,
  • indagini sull’esperienza della famiglia colpita da lutto, dopo la morte del paziente;
  • prestazioni non palliative inappropriate (chemioterapia, interventi chirurgici) nel fine vita;
  • visite evitabili.

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Misurazione delle performance per la medicina di famiglia

Molto interessante è la revisione sistematica pubblicata nel 2010 da un gruppo australiano (20) con l’obiettivo di esplorare l’impatto della misurazione delle performance, in ambito di GC, sulla qualità e sulla sicurezza dei servizi primari. La revisione ha ricompreso 19 studi. Innanzitutto i ricercatori hanno classificato i vari modelli di GC a livello internazionale sulla base delle esperienze valutate, distinguendo:

  1. un modello nazionale, basato su un sistema di reporting e su un confronto con indicatori nazionali, con o senza supporto loco-regionale, come il sistema QOF (Quality and Outcome Framework) del Regno Unito;
  2. un modello che si sviluppa a livello locale/regionale, basato sulla collaborazione tra medici di famiglia, con o senza un ritorno mirato di dati per migliorare la qualità, oppure basato sulla collaborazione con la comunità locale, per stabilire le priorità cliniche e/o monitorare i servizi;
  3. un modello sviluppato solo a livello del singolo servizio, nel quale la gestione della qualità avviene all’interno del gruppo di medici nell’ambulatorio, usando ritorni informativi mirati ai singoli operatori sanitari con momenti di analisi guidata dei dati;
  4. un modello misto, nel quale sono presenti sia un confronto con indicatori nazionali appaiato ad incentivi economici, che un supporto da parte di una rete locale/regionale che un modello a livello di gruppo di medici, utilizzando il ritorno informativo mirato ai singoli operatori.

L’impatto dei diversi modelli di GC sulla qualità dell’assistenza è differente. Il primo modello, se al benchmarking nazionale si accompagna un supporto locale, può migliorare lo sviluppo professionale (conoscenze e competenze) dei medici e l’accessibilità; ma, se non ha un supporto locale può addirittura peggiorare l’accessibilità. Più efficaci sembrano i modelli basati sulla revisione tra pari e sul ritorno informativo ai singoli gestito tra colleghi, con il supporto di reti locali e con un rapporto stretto con la comunità locale. Questi modelli, nei diversi studi, hanno dimostrato di poter migliorare lo stato di salute dei cittadini assistiti, l’accessibilità, l’efficienza, la sicurezza e l’orientamento alla persona. In particolare il sistema di incentivazione della qualità vigente nel Regno Unito (QOF) è, ad oggi, il più vasto programma al mondo di retribuzione dei medici di famiglia basato sulla valutazione della performance professionale e organizzativa. Fino al 25% della retribuzione dei medici di famiglia è conseguente alla performance conseguita, misurata su più di 100 indicatori di valutazione della qualità dell’assistenza delle principali malattie croniche, dell’organizzazione dell’assistenza e dell’esperienza dei malati (22). È necessario notare che l’entità degli incentivi varia molto a seconda dell’area di patologia. Per esempio, nel 2005, i 15 indicatori connessi alla malattia ischemica e all’insufficienza cardiaca potevano valere fino a 15.125 sterline, mentre i 2 indicatori legati alle neoplasie potevano valere solo fino a 1.500 sterline. I costi del programma sono stati enormi: circa 5.86 miliardi di sterline nei primi sette anni del QOF. La ricerca valutativa, nei tre anni successivi alla sua implementazione, sull’efficacia nella pratica del QOF suggerisce che il programma ha registrato un rapido miglioramento degli indicatori incentivati, mentre alcuni aspetti non incentivati della assistenza hanno avuto un peggioramento (23). Tale miglioramento si è attenuato negli anni successivi (24). In linea teorica, un miglioramento della qualità dell’assistenza analogo a quello che si è verificato dopo l’applicazione del QOF potrebbe ridurre i fattori di rischio per eventi acuti come l’infarto o l’ictus, contribuendo quindi alla diminuzione della mortalità relativa. Le evidenze provenienti dagli RCT (Randomized Controlled Trial) infatti indicano che 25 indicatori compresi nel QOF sono associati a riduzioni della mortalità (25). Sono stati fatti alcuni tentativi per estrapolare, dai miglioramenti della qualità dell’assistenza registrati dal QOF la riduzione potenziale della mortalità nella popolazione generale (25). Tuttavia, è necessario tenere in mente che l’evidenza di efficacia (efficacy) derivata dai RCT potrebbe non tradursi in benefici concreti per i cittadini nel mondo reale dei servizi sanitari (effectiveness) (26). Inoltre, gli incrementi della qualità misurati nel QOF potrebbero, almeno in parte, derivare da una migliore registrazione delle attività mediche o da manipolazioni delle statistiche sulla performance (27) e, quindi, non contribuire a miglioramenti reali della salute dei cittadini.

I risultati di alcuni studi suggeriscono che il QOF abbia condotto a miglioramenti di outcomes intermedi (28) e ad una riduzione dei ricoveri ospedalieri per alcune malattie, incluse le malattie ischemiche del cuore (29).

Uno studio recente eseguito dalle Università di York e Manchester e dall’Università del Michigan negli USA (30) ha confrontato le variazioni della mortalità in Gran Bretagna, relative agli anni 1994-2010, per malattie incluse nel QOF, con le variazioni osservate in altri paesi sviluppati che non hanno introdotto in modo sistematico il pay for performance. Non sono stati rilevati decrementi significativi della mortalità in UK dopo l’introduzione del QOF, rispetto alle nazioni prese come confronto. Gli autori hanno concluso che, alla luce di tutte le evidenze disponibili, il pay for performance potrebbe non essere un metodo efficace per migliorare la salute della popolazione. Il rapporto costo-efficacia dei programmi di pay-for-performance dovrebbe essere messo a confronto con quello di altri tipi di intervento per capire come le risorse possano essere usate nel modo migliore, allo scopo di migliorare la salute delle popolazioni.

A conclusione di questa rassegna sulle maggiori esperienza valutate di GC comparse nella letteratura scientifica internazionale, è utile segnalare l’esperienza Italiana di Health Search e di MilleGPG.

Health Search nasce nel 1998 come unità di ricerca della Società Italiana di Medicina Generale (SIMG) basata sui seguenti punti programmatici:

  1. creare una scuola nella quale i Medici di Medicina Generale, su base volontaria, ricevono la formazione per la descrizione e la registrazione codificata della loro attività professionale, attraverso l’utilizzo di un software di gestione dei dati clinici appositamente personalizzato (Millewin);
  2. costituire un network di Medici di Medicina Generale che includa un numero di ricercatori rappresentativi di ogni macro-area geografica in termini di numerosità della popolazione di riferimento;
  3. costituire un database nel quale le informazioni derivanti dalla pratica clinica quotidiana vengano raccolte per perseguire l’obiettivo del miglioramento della qualità delle cure, attraverso procedure di audit sistematico e di confronto tra pari.

Specificamente destinato al GC nella medicina di famiglia è invece lo strumento informatico MilleGPG (General Practice Governance), basato su un database relazionale sviluppato da Millennium in collaborazione con un team di lavoro della società scientifica SIMG coordinato da Genomedics. Il software mette a disposizione del MMG una serie di “cruscotti” e di indicatori destinati a supportarlo nella verifica della sua attività rispetto alle linee guida e agli standard più diffusi, anche in coerenza con le nuove necessità derivanti dal contratto nazionale e/o dagli accordi regionali o di Azienda Sanitaria (31).

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La Accountability nella Assistenza Primaria

Il concetto di Accountability è stato fin dall’inizio un punto cardine del concetto di Governo Clinico. I professionisti sanitari non devono solo impegnarsi per migliorare la qualità dell’assistenza, ma devono anche essere in grado di dimostrare che lo stanno facendo. (32) Nel corso degli anni 90’ infatti numerosi scandali dovuti a pratiche pericolose da parte di medici del Regno Unito avevano scosso la fiducia dei cittadini sulla capacità di autoregolazione degli Ordini professionali rispetto alla qualità ed alla sicurezza delle cure. Il termine “accountability” non ha ancora trovato una traduzione italiana condivisa ed identifica la responsabilità verso la società e tutti gli stakeholder, mentre la “responsibility” fa riferimento alla responsabilità verso il singolo paziente (33). Partendo da questa accezione di accountability, intesa come responsabilità verso la società e verso i portatori di interessi (stakeholder), risulta evidente la necessità di definire, all’interno del sistema dell’Assistenza Primaria, chi è responsabile, verso chi e per che cosa. Definiti questi concetti, fondamentale è renderli operativi trovando gli strumenti per dare applicazione concreta al concetto di accountability e per misurare se e quanto un professionista o una organizzazione sono o meno “accountable”.

Alla definizione del concetto di accountability nell’Assistenza Primaria contribuisce con chiarezza un lavoro comparso sul BMJ nell’anno 2000 (32). Secondo l’autrice, rispetto alla responsabilità del singolo professionista verso il singolo paziente, già presente in tutti i sistemi sociali, il Governo Clinico aggiunge una responsabilità collettiva evidenziando che tutti i professionisti devono sentirsi responsabili uno verso l’altro, al fine di promuovere un nuovo senso di responsabilità collettiva, solidale, di tutti i medici di famiglia e di tutti i componenti del team di Assistenza Primaria, riguardo alla qualità dell’assistenza erogata ai cittadini. Altrettanto interessante è la risposta al quesito “responsabili verso chi?”. Nello stesso articolo l’autrice distingue tre tipi di responsabilità: una responsabilità verso l’alto (le Autorità di Sanità Pubblica e gli Amministratori) e responsabilità verso il basso (la Comunità locale) ed una responsabilità orizzontale (verso i colleghi, componenti dello stesso team di Assistenza Primaria). Le novità portate dal Governo Clinico nell’ambito della Assistenza Primaria stanno infatti nel coinvolgimento delle Comunità locali, nella definizione delle priorità nella programmazione delle attività cliniche, nella condivisione periodica di obiettivi di salute pubblica con le Autorità sanitarie (“annual accountability agreements” del Regno Unito) e soprattutto nella necessità di sviluppare la responsabilità verso tutti i colleghi e tutti i professionisti coinvolti nella gestione del paziente, senza cui gli obiettivi di miglioramento della qualità e della sicurezza delle cure non potranno essere conseguiti. Questo aspetto è molto rilevante per i medici di famiglia, anche per l’obbligatorietà posta nelle norme contrattuali (es. Il Contratto di esercizio della Regione Veneto) di partecipare agli audit clinici sui percorsi dei malati cronici e di effettuare la revisione tra pari e una Significant Event Analisys all’interno dei gruppi. Riguardo alla domanda “responsabili per che cosa?”, l’autrice cita in particolare la responsabilità circa i processi ed i programmi di assistenza. La responsabilità verso i processi comprende la capacità di registrare a chi e come viene erogata l’assistenza, dimostrando di soddisfare gli standard qualitativi richiesti, sia a livello regionale che locale (ad esempio la capacità di produrre un registro completo dei propri assistiti per le principali malattie croniche). La responsabilità circa i programmi e le loro priorità riguarda le attività svolte, le prestazioni effettuate e le varie dimensioni della qualità dell’assistenza.

Al secondo ordine di quesiti, riguardanti il come rendere operativo e valutabile nella pratica il concetto di accountability, all’interno dello sviluppo del Governo Clinico, citiamo il lavoro di Baker del 1999 (8). L’autore definisce, sia per i singoli professionisti che per i gruppi, quali sono le fasi operative e gli strumenti da mettere in campo per:

  1. definire la qualità;
  2. dimostrare la responsabilità e la trasparenza nel contesto della accountability;
  3. realizzare il processo del miglioramento qualitativo.

Le azioni rilevanti relative al punto 2 sono, ad esempio, definire le seguenti responsabilità:

  • responsabilità verso le Autorità sanitarie: comunicare in forma di report periodici la formazione ricevuta, la partecipazione agli audit, le misurazioni della performance, i reclami, la modalità di gestione delle performance
  • responsabilità verso la Comunità Locale: pubblicazione in forma anonima dei risultati degli audit, valutazione partecipata della qualità dei servizi, coinvolgimento degli assistiti nella scelta dei temi da sottoporre ad audit/valutazione delle performance.
  • responsabilità verso i colleghi: partecipazione agli audit, avere una procedura per la gestione delle cattive pratiche, avere una procedura per aiutare i singoli e i gruppi a migliorare le performance.

Pertanto oltre ad evidenziare come i gruppi di Assistenza Primaria possono introdurre nella loro pratica quotidiana gli elementi del GC e della accountability, il lavoro evidenzia anche come le Autorità di Sanità Pubblica e le Comunità locali possano monitorare i progressi nella implementazione del Governo Clinico da parte dei singoli professionisti e da parte dei team di Assistenza Primaria.

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L’audit clinico

“L’obiettivo dell’audit è di effettuare una misurazione della pratica assistenziale in riferimento ad una serie di standard. A differenza dell’attività di ricerca (in cui ci si pone la domanda, “qual è la cosa giusta da fare?”), in un audit clinico ci si chiede: “Stiamo facendo la cosa giusta nel modo giusto?”. Così definisce l’audit clinico Andrea Benjamin in un articolo comparso sul BMJ nel 2008 (34).

Il tema dell’audit clinico, della sua delimitazione semantica, della metodologia e delle fasi di realizzazione, è ampiamente trattato dalla letteratura internazionale, a testimonianza di un grande interesse e di grandi speranze circa il suo utilizzo per il miglioramento continuo della qualità dell’assistenza sanitaria.

A conferma di ciò è la comparsa sempre più frequente del termine audit (o di termini relativi a procedure affini) nella legislazione e nella normativa contrattuale. Il DPR 14 gennaio 1997, nel quale sono definiti i requisiti minimi strutturali, tecnologici ed organizzativi per il funzionamento dei servizi sanitari, afferma la necessità che i servizi sanitari garantiscano la qualità delle prestazioni e la monitorino con l’utilizzo di indicatori specifici. Nello stesso DPR si precisa inoltre che tutti i servizi sanitari debbano avere in corso almeno un progetto di miglioramento qualitativo. La Convenzione nazionale della Medicina Generale stabilisce l’obbligo, per la Medicina in associazione, di condivisione di linee guida e di momenti di revisione della qualità delle attività e dell’appropriatezza prescrittiva.

La Giunta Regionale della Toscana, con un decreto del Novembre 2005 definisce una procedura particolare, per l’analisi di un singolo evento avverso, denominata “Audit clinico GRC” (Gestione Rischio Clinico) (35).

Il Contratto di Esercizio della Medicina Generale della Regione Veneto stabilisce l’obbligo per i Medici di Famiglia di eseguire almeno tre “audit aziendali complessivi” per anno (relativi a diabete, BPCO, scompenso cardiaco, cure palliative e fibrillazione atriale/terapia anticoagulante orale) basati sull’analisi degli indicatori individuati in sede di Comitato Aziendale. Sempre nel contratto d’esercizio è stabilito l’obbligo di svolgere almeno 5 “self-audit organizzativi” per anno, fra cui anche quelli inerenti la gestione del rischio clinico (36).

Per un approfondimento sulle definizioni, sulla storia dell’audit, e successivamente, dell’audit clinico, sulle sue varie fasi e sulla metodologia, rinviamo alla lettura dei manuali e delle raccomandazioni basate su evidenze di efficacia, elaborate da autorevoli autori, istituzioni o società scientifiche, dei quali citiamo solo alcuni tra quelli apparsi in questi ultimi anni soprattutto nel panorama italiano (34, 35, 36, 37, 38).

Nel Maggio 2011 il Ministero della Salute italiano (37) ha pubblicato un documento dal titolo “L’Audit Clinico”, a cui hanno collaborato alla stesura finale alcuni rappresentanti degli Ordini dei Medici e dei Collegi degli Infermieri. Nel lavoro si fa la necessaria chiarezza terminologica: viene usata la terminologia proposta dal NICE e viene distinto l’Audit Clinico dal Significant Event Audit, ponendo fine all’uso improprio del termine “Audit Clinico” per designare la discussione di singoli casi o eventi.

A tale proposito risultano molto chiare le conclusioni del bel contributo di Ulrich Wienand (39) all’interno delle raccomandazioni Siquas-Vrq “Audit clinico: che cosa è e che cosa non è”: “Da quando il metodo dell’audit clinico è stato introdotto nella letteratura scientifica, le sue principali caratteristiche non sono mutate: una valutazione strutturata e sistematica, condotta da professionisti che con criteri espliciti, intendono migliorare la qualità negli aspetti di processo ed esito. Nel corso degli anni sono stati modificati alcuni aspetti: l’audit clinico è diventato multiprofessionale ed è diventato strumento indispensabile per confrontare la pratica dei professionisti con le evidenze scientifiche e le raccomandazioni che ne derivano. L’uso estensivo che viene fatto in Italia del termine “audit clinico” per connotare pratiche e strumenti piuttosto differenti, non trova riscontro nella letteratura internazionale, ma sembra seguire una moda terminologica.”

Nella pratica, appaiono utilissime le precisazioni contenute nel lavoro di Baruchello e Gottardi (40), i quali distinguono e definiscono con chiarezza l’audit clinico con analisi quantitative, l’auto valutazione (self audit), la revisione tra pari (peer review), la valutazione di un evento significativo (significant event audit) e discutono le opportunità offerte dalle Tecnologie Informatiche per il Clinical Audit in medicina di famiglia.

Riportiamo anche alcune evidenze perfettamente sintetizzate nell’articolo di Baruchello e Gottardi (40).

  • Il self-audit, se condotto in modo sistematico e periodico, orienta il professionista alla revisione critica della propria competenza professionale, lo allena alla costruzione di modelli di valutazione relativa della qualità prestata ai propri pazienti e lo può sensibilizzare alla necessità di analisi migliorative più complesse. Grado di qualità dell’evidenza: B; Forza della raccomandazione: 1;
  • La peer review conduce un gruppo di pari ad analisi in profondità delle problematiche qualitative, che influenzano reciprocamente i partecipanti al progetto di miglioramento. Essa richiede l’utilizzo esperto di metodi di facilitazione. Tale attività comparativa può portare a cambiamenti motivazionali stabili, consuetudine al lavoro di gruppo, riorientamento organizzativo, identificazione di nuove aree d’intervento. Grado di qualità dell’evidenza: B; Forza della raccomandazione: 1;
  • La tecnica del SeA (significant event analysis) costituisce un potente strumento per costruire gruppi collaborativi di MMG e altri operatori della salute impegnati in futuri progetti di clinical governance. Focalizza l’attenzione prioritariamente sulla centralità del paziente nel processo di cura. Grado di qualità dell’evidenza: B; Forza della raccomandazione: 1;
  • Quando si intende realizzare un Audit Clinico volto a ridurre la variabilità interoperatori del tasso di invio allo specialista, occorre prevedere di standardizzare i livelli qualitativi di registrazione dei dati da parte dei singoli MM. Grado di qualità dell’evidenza: A; Forza della raccomandazione: 1;
  • Gli audit clinici coinvolgenti specialisti delle cure secondarie di riferimento (referral) e con la partecipazione attiva di gruppi collaborativi locali di MMG possono condurre a miglioramenti dell’appropriatezza d’invio a consulenza dei pazienti, solo se prevedono interventi strutturati formativi e la condivisione paritetica sui dati del fenomeno oggetto dell’analisi. Grado di qualità dell’evidenza: A; Forza della raccomandazione: 1;

Per quanto riguarda gli aspetti metodologici, crediamo indispensabile una riflessione sui due elementi che, nell’articolo citato precedentemente di Andrea Benjamin, compaiono come quelli che si sono dimostrati più efficaci per lo svolgimento degli audit clinici:

  1. “Un ambiente in cui le direzioni dell’Azienda Sanitaria considerino l’audit clinico una priorità, in modo che la sua realizzazione venga incoraggiata e sostenuta”;
  2. “L’esistenza di un programma strutturato per l’audit, in cui l’Azienda Sanitaria disponga di un ufficio centrale dedicato all’audit clinico, che coordini le relative attività e ricomponga i risultati dell’audit per tutta l’Azienda nel suo complesso”.

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L’Empowerment dei pazienti cronici

La parola “empowerment” racchiude al suo interno un concetto ampio e complesso che non si può tradurre in italiano con un singolo termine. Secondo lo psicologo di comunità Rappaport l’empowerment si può considerare “Il processo attraverso il quale le persone raggiungono la padronanza delle proprie vite”. Secondo altri Autori, riferendo il concetto al rapporto medico-paziente, sostengono si possa definire l’empowerment come “Un processo educativo finalizzato ad aiutare il paziente a sviluppare le conoscenze, le capacità, le attitudini e il grado di consapevolezza necessari ad assumere responsabilità̀ nelle decisioni che riguardano la sua salute” (41), o anche come “un processo di responsabilizzazione del malato nei confronti del proprio stato di salute”. In questa visione lo stesso paziente è considerato come “Produttore di salute” alla pari del medico (42). Un sistema di cura che promuova l’empowerment del paziente pertanto richiede che vi sia, tra medico e paziente, una condivisione delle scelte e degli obiettivi da raggiungere nei diversi stadi della malattia cronica e che quindi le aspettative e le prospettive sulla malattia del paziente assumano un’importanza cruciale nelle decisioni cliniche. In quest’ottica il soggetto coinvolto viene considerato come il massimo esperto delle conseguenze della malattia cronica sulla sua vita e l’unico che realmente conosce l’importanza delle stesse e le proprie motivazioni alla cura (43). Questo approccio pone quindi l’accento sul self-management della malattia, mettendo in discussione la trasmissione verticale delle informazioni dal medico al paziente, che potrebbe avere un valore solamente in caso di patologia acuta, ma sicuramente rivelarsi poco indicato e limitato per un paziente affetto da patologia cronica. (44). Questo tipo di patologie, infatti, richiedono cambiamenti importanti e duraturi dello stile di vita (ad es. l’alimentazione, l’attività fisica, la compliance alla terapia farmacologica spesso complessa) e, pertanto, coinvolgere il paziente nelle scelte terapeutiche e renderlo primo responsabile della propria salute diviene di importanza fondamentale.

Un approccio che favorisca l’empowerment del paziente è particolarmente importante non solo dopo la diagnosi della malattia, nel coinvolgimento del percorso di cura, ma anche in ambito di promozione della salute, quando i professionisti sanitari si trovano di fronte a soggetti sani, o di prevenzione in caso di pazienti esposti a fattori di rischio. A questo proposito responsabilizzare i soggetti può far capire, ad esempio, l’importanza delle campagne di screening e aumentare l’adesione alle stesse o promuovere corretti stili di vita per prevenire l’insorgenza di malattie croniche.

In particolare, per realizzare il coinvolgimento e la responsabilizzazione del paziente, ciascun piano terapeutico dovrebbe essere strutturato a misura del soggetto coinvolto tenendo in considerazione i fattori individuali quali età, eventuali comorbidità, ambiente familiare, ambiente sociale, ecc.

In questo scenario una ristrutturazione delle Cure Primarie in chiave “patient-centred care” assume un ruolo cruciale e può essere riassunta in tre elementi principali (43):

  • avere una visione olistica della persona e dei suoi bisogni, tenendo in considerazione non solo le conseguenze prettamente sanitarie ma anche i risvolti emotivi e psicologici della patologia;
  • promuovere un ruolo attivo del paziente nel prendere decisioni in merito alla sua condizione ed elaborare piani terapeutici che rispondano non solo alle esigenze sanitarie del paziente ma che tengano in considerazione anche i fattori individuali, le sue aspettative e le sue prospettive;
  • considerare il cittadino/paziente e i professionisti sanitari come attori alla pari che per tutta la durata della malattia devono collaborare insieme per la definizione di un piano d’azione flessibile.

In letteratura ci sono diversi studi che attestano come sia gli outcome di salute che la soddisfazione del paziente migliorino significativamente se vi è un rapporto medico-paziente aperto al dialogo, che ponga al centro la persona più che il singolo problema sanitario da trattare. Altrettanto importante è promuovere un’adeguata informazione dei soggetti coinvolti e favorire sessioni di training educativo-pratico su determinate procedure (42, 45, 46). Le manifestazioni più comuni che possono evidenizare un mancato empowerment del paziente affetto da una o più malattie croniche sono:

  • assenza del cambiamento dello stile di vita richiesto per il controllo della patologia (alimentazione, attività fisica…);
  • mancata aderenza alla terapia farmacologica, sia perché non se ne comprende appieno l’importanza, sia per mancata comprensione di dosi e modalità di assunzione;
  • visite specialistiche che non vengono effettuate con la periodicità prevista dal piano terapeutico;
  • ritardo diagnostico delle complicanze, perché si sottovalutano i sintomi o non si eseguono i controlli specialistici previsti;
  • mancata soddisfazione del paziente per la qualità delle cure ricevute (rapporto medico-paziente non soddisfacente, controlli clinici considerati non approfonditi e sbrigativi per necessità di tempistiche brevi, non adeguata comprensione della patologia e delle sue conseguenze, mancata visione olistica del paziente);
  • stato depressivo del paziente;
  • aumento del numero di ospedalizzazioni per riacutizzazioni della patologia la quale non è adeguatamente tenuta sotto controllo;
  • aumento dei costi per il Sistema Sanitario.

In un’ottica di problem solving, le cause del mancato empowerment sono molteplici e si possono far risalire a:

  • fattori individuali del paziente; in questa categoria rientrano tutte quelle caratteristiche individuali del paziente che possono ostacolare lo sviluppo dell’empowerment: lo stato psico-cognitivo, così come lo stato socio-culturale, condizionano la capacità dell’individuo di sviluppare le conoscenze, le capacità e le attitudini che caratterizzano il processo educativo che rientra nella definizione di empowerment;
  • fattori legati alla scarsa organizzazione del lavoro;
  • fattori legati alla carenza di dotazione strutturarle di tecnologie e sistemi formativi;
  • carente formazione alle strategie di educazione terapeutica e counseling dei professionisti sanitari e dei caregiver/badanti;
  • modalità di comunicazione scritta e orale che non facilitano l’apprendimento e il coinvolgimento del paziente.

Le strategie organizzative orientate al miglioramento tendono a ridurre il potere contribuente dei fattori individuali del paziente, che spesso non sono modificabili. Ad esempio, per ovviare al problema della difficoltà linguistica, è importante disporre di materiale informativo multilingua (almeno per le lingue più diffuse nel nostro paese. L’adozione di un piano terapeutico personalizzato per ogni soggetto affetto da malattia cronica, che tenga conto anche dei fattori individuali e delle aspettative/prospettive del paziente, sicuramente può favorire il coinvolgimento e la collaborazione dell’assistito ed è fondamentale in un sistema di cura basato sui principi di “patient-centred care”. Nel caso in cui il soggetto affetto da patologia cronica non sia autonomo sarebbe opportuno identificare il caregiver principale ed instaurare con lui un rapporto di fiducia e di condivisione, evitando di frammentare le informazioni tra le diverse persone che prestano assistenza e arginare, così, la possibilità di creare confusione.

Sono diversi inoltre gli interventi, sia in ambito clinico che in ambito organizzativo, che possono favorire l’empowerment del paziente.

  • Riorganizzazione della programmazione delle visite di medicina generale in modo da garantire dei percorsi, anche organizzativi, differenti per malati acuti e cronici, con particolare riguardo al tempo previsto per ogni consulto clinico, che dovrebbe essere maggiore nel caso di malati cronici. L’aderenza al piano terapeutico, infatti, aumenta nel caso in cui il paziente abbia una corretta percezione della gravità della patologia, della sua suscettibilità ad eventuali aggravamenti, dei vantaggi del trattamento e delle difficoltà che esso comporta. Secondo Daltroy un colloquio medico-paziente efficace si basa sui seguenti passaggi: a) incoraggiare il paziente a scrivere o a parlare delle sue preoccupazioni prima di ogni controllo clinico, B) discuterne con il medico c) fornire al paziente informazioni sulla malattia e sulle opzioni terapeutiche.
  • Elaborare un piano terapeutico scritto e facilmente comprensibile dal paziente.
  • Assicurarsi che il paziente abbia compreso tutto (ad esempio mediante l’utilizzo di tecniche quali il teach-back).

Per poter instaurare un rapporto che promuova una collaborazione efficace è quindi necessario che il medico abbia il giusto tempo da dedicare al paziente, in tale contesto la figura dell’Infermiere Case-manager, quale un punto di riferimento sempre disponibile per il paziente che si trova a domicilio, potrebbe rivestire un ruolo fondamentale per la gestione del paziente cronico, educandolo e favorendo l’empowerment nel suo percorso di prevenzione e cura. In questo ambito resta fondamentale la stretta collaborazione tra medico ed infermiere per garantire la continuità dell’assistenza.

Per il raggiungimento di un sempre più completo empowerment del paziente, lo sviluppo dei sistemi informativi è uno dei principali prerequisiti (o strategie funzionali), che risulta fondamentale anche per garantire la continuità dell’assistenza complessiva nella gestione clinica del paziente cronico che necessita di una stretta collaborazione e condivisione di obiettivi tra professionisti e tra operatori sanitari e pazienti. Il progresso tecnologico in ambito sanitario infatti ha portato ad una sempre maggior possibilità di integrazione tra sistemi informativi dei vari professionisti che hanno in carico il paziente e anche con il paziente stesso. E’ importante, pertanto, promuovere l’utilizzo di software, differenziati per patologia, che permettano di registrare e integrare le prescrizioni, gli esiti di esami laboratoristici, strumentali e di visite specialistiche, fruibili da tutti i professionisti sanitari coinvolti nel percorso di cura dell’assistito e accessibili al paziente stesso così che possa essere consapevole dei traguardi raggiunti e del piano di assistenza. Il Royal College of General Practitioners suggerisce, infatti, la condivisione di alcuni dati sanitari anche con il paziente, in un’ottica di promozione del self-management da parte del malato in modo da renderlo davvero protagonista e responsabile nel percorso di cura. Allo stesso scopo potrebbe essere utile potenziare l’integrazione anche attraverso applicazioni per smartphone e tablet, facilmente usufruibili dal paziente e utili sia nel monitoraggio (es. visualizzazione di grafici relativi all’andamento di alcuni importanti parametri clinici quali pressione, peso, glicemia, ecc.), che nel promuovere la corretta aderenza al piano terapeutico (es. sveglie che ricordino di assumere i farmaci o di presentarsi alle visite specialistiche). Questi supporti sono largamente diffusi ma raramente sono inclusi in progetti precisi e promossi dai sistemi sanitari.

Anche gli interventi formativi, spesso complessi da attuare, dovrebbero muoversi su due orizzonti: i professionisti sanitari e i pazienti. In particolare i primi dovrebbero essere formati sull’importanza della responsabilizzazione del paziente, attraverso la valorizzazione dell’impostazione di un sistema patient-centred care, dell’effettuare gli interventi di counseling ed educazione terapeutica e del definire l’adozione di piani terapeutici chiari e scritti.

All’interno dell’Assistenza Primaria non dovrebbero, inoltre, mancare strumenti di rilevazione che misurino il grado di coinvolgimento del paziente nelle decisioni relative alla gestione delle patologie croniche di cui sono affetti. Un aspetto che, nel contesto dell’Assistenza Primaria, dovrebbe essere indagato ed affrontato è la capacità del paziente di comprendere i messaggi degli operatori sanitari (health literacy). Il concetto di health literacy è definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come “le abilità cognitive e sociali che motivano gli individui e li rendono capaci di accedere, comprendere e utilizzare le informazioni in modo da promuovere e preservare la propria salute”. Pertanto, la capacità di comprendere i messaggi degli operatori “non significa solo essere in grado di leggere opuscoli e prendere appuntamenti, ma è un’importante strategia di empowerment che può migliorare la capacità degli individui di accedere alle informazione e di utilizzarle in modo efficace” operando scelte nella vita quotidiana che influiscano favorevolmente sullo stato di salute complessivo. È intuitivo che tale capacità dipende dal grado di istruzione dei singoli ed in italiano trova il suo corrispettivo in termini come “competenze per la salute” o “alfabetizzazione alla salute”. Secondo un’altra definizione l’health litaracy è un insieme di competenze che migliorano la capacità delle persone di elaborare informazioni utili a vivere in modo più salutare; tali competenze includono il saper leggere, scrivere, ascoltare, dialogare, calcolare e capacità di analisi critica così come di comunicazione e interazione (The Calgary Charter on Health Literacy). Nutbeam propone un modello a tre livelli che, in maniera progressiva, consente ai singoli e alla comunità̀ di sviluppare e favorire una crescente autonomia nel prendere decisioni riguardanti la salute favorendo l’empowerment del cittadino/paziente:

  • Livello funzionale: capacità di lettura e comprensione di informazioni fornite dai professionisti sanitari e di agire in conseguenza a tali informazioni, ad esempio assumendo in modo corretto farmaci e programmando le visite mediche.
  • Livello interattivo: capacità di comprendere, valutare ed utilizzare informazioni di salute derivanti da fonti diverse per scegliere in modo consapevole, riducendo i rischi e migliorando la qualità di vita.
  • Livello critico: possibilità di orientarsi all’interno del sistema nella consapevolezza dei propri diritti di paziente; capacità di riconoscere la qualità dei servizi offerti e di valutare in modo critico le informazioni ed i messaggi di salute; agire per il miglioramento del benessere individuale e collettivo.

Quanto importante sia il concetto di health literacy nell’ambito dell’Assistenza Primaria è evidente sia parlando di prevenzione e promozione della salute, ma anche nell’ambito della gestione delle malattie croniche. In uno studio condotto presso una clinica di cure primarie a St. Luis, gli autori hanno valutato la relazione tra health literacy e la mancata aderenza al trattamento di pazienti affetti da diabete di tipo II: in un modello multivariato, la ridotta health literacy si è mostrata essere significativamente associata ad un aumento della non aderenza al trattamento di tipo non intenzionale, ma non di quella intenzionale. Tali risultati suggeriscono come la ridotta health literacy sia un fattore correlato alla non aderenza non intenzionale al trattamento, e pertanto, nei pazienti con ridotta health literacy, possono essere necessari interventi educativi mirati per ridurre questa tipologia di non aderenza al trattamento, migliorando quindi i risultati di salute, favorendo l’empowerment. Tali interventi dovrebbero essere attentamente monitorati per valutarne la loro efficacia e promuovere le migliori pratiche.

Infine, dovrebbero essere promossi sistemi incentivanti che premino attività di engagement e empowerment del paziente.

Un’altra frontiera è, oltre al sostegno delle associazioni di volontariato, anche lo sviluppo del quarto settore o la creazione di gruppi di pazienti con la stessa patologia cronica che si aiutano e sostengono tra di loro come gruppi di mutuo soccorso.

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Il rischio clinico nella gestione dei pazienti affetti da malattia croniche

Il rischio clinico è definito come possibilità che un paziente subisca un danno o un disagio involontario, imputabile alle cure sanitarie intese come prima risposta ad un iniziale problema di salute o durante il trattamento di patologie croniche, che causi un peggioramento delle condizioni di salute o la morte.

La maggior parte degli incidenti in organizzazioni complesse è generato dall’interazione fra le diverse componenti del sistema: tecnologica, umana ed organizzativa.

Il Clinical Risk Management è lo strumento preventivo che si pone l’obiettivo di anticipare gli eventi avversi mediante l’identificazione, l’analisi e la gestione del rischio clinico in ambito sanitario.

Il Nuovo Codice di Deontologia Medica all’articolo 14 (47) prevede che, non solo nei reparti ospedalieri, ma che ogni medico si adoperi per la sicurezza del paziente e la prevenzione del rischio. Citando tale articolo: “Il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e degli operatori coinvolti, promuovendo a tale scopo l’adeguamento dell’organizzazione delle attività e dei comportamenti professionali e contribuendo alla prevenzione e alla gestione del rischio clinico attraverso: l’adesione alle buone pratiche cliniche, l’attenzione al processo di informazione e di raccolta del consenso, nonché alla comunicazione di un evento indesiderato e delle sue cause, lo sviluppo continuo di attività formative e valutative sulle procedure di sicurezza delle cure, la rilevazione, la segnalazione e la valutazione di eventi sentinella, errori, near miss ed eventi avversi valutando le cause e garantendo la natura riservata e confidenziale delle informazioni raccolte”.

L’attenzione nel rendere l’assistenza più sicura all’interno dell’ambiente delle Cure Primarie è diventata una priorità dell’OMS nel 2012, con la formazione del Safer Primary Care Expert Working Group (48).

Dai dati internazionali si stima che la frequenza degli errori medici nelle Cure Primarie vari da 5 a 80 errori ogni 100.000 consultazioni.

Sono molteplici i fattori che concorrono a contribuire al “grado di rischiosità” del sistema che possono essere schematicamente raggruppati nelle seguenti classi, come definito dal Ministero della Salute:

  1. Fattori strutturali – tecnologici:
    • caratteristiche del fabbricato sanitario e dell’impiantistica (progettazione e manutenzione);
    • sicurezza e logistica degli ambienti (e.g. locali dell’ambulatorio del MMG);
    • apparecchiature e strumentazioni (funzionamento, manutenzione, rinnovo e.g. ventilatori per pazienti con ossigenoterapia a domicilio);
    • infrastrutture, reti, digitalizzazione, automatizzazione.
  2. Struttura organizzativa:
    • politica e gestione delle risorse umane: organizzazione, stili di leadership, sistema premiante, supervisione e controllo, formazione e aggiornamento, carico di lavoro e turni (che concorrono a determinare fatica e stress);
    • sistemi comunicativi (lettera di dimissione informatizzata accessibile);
    • condivisione di linee guida e percorsi diagnostico-terapeutici anche attraverso anche software che supportino le scelte terapeutiche (vedi sistema Ermete – Regione Veneto).
  3. Fattori umani (individuali e del team):
    • caratteristiche individuali (percezione, attenzione, memoria, capacità di prendere decisioni, percezione della responsabilità, condizioni mentali e fisiche, abilità psicomotorie) e competenza professionale;
    • dinamiche interpersonali e di gruppo e conseguente livello di cooperazione.
  4. Caratteristiche dell’utenza:
    • epidemiologia ed aspetti socio-culturali (aspetti demografici, etnia, ambiente socioeconomico, istruzione, capacità di gestione delle situazioni, complessità e compresenza di patologie acute e croniche);
    • rete sociale.
  5. Fattori esterni:
    • normativa e obblighi di legge;
    • vincoli finanziari;
    • contesto socio-economico-culturale;
    • influenze della opinione pubblica e dei media, delle associazioni professionali e di pubblica tutela.

Anche la letteratura internazionale in una recente revisione evidenzia come gli errori commessi nell’Assistenza Primaria possano aggravare le condizioni di salute o danneggiare il paziente.

L’impegno per il miglioramento della sicurezza del paziente nell’Assistenza Primaria a livello internazionale, è rivolto, soprattutto alla costruzione ed implementazione di sistemi di segnalazione (incident reporting) (49) per una ricognizione degli eventi accaduti. Infatti la conoscenza dei dati relativi alla tipologia dei rischi e alla mappatura degli stessi è fondamentale per operare in ambito preventivo. È, inoltre, necessaria una struttura organizzativa che sia in grado di raccogliere ed elaborare i relativi dati.

In Austalia il Patient Safety Collaboratives Manual (50) fornisce ulteriori indicazioni ai medici di medicina generale sostenendo che, dopo l’identificazione del rischio, è necessario dare priorità all’analisi di quegli eventi che hanno determinato un danno maggiore al fine di evidenziare le cause contribuenti e latenti (le insufficienze del sistema e/o organizzative che devono essere rimosse se si vuole raggiungere un efficace e duraturo controllo del rischio) per non fermarsi solo all’analisi delle cause immediate (ultima azione insicura commessa dal professionista che è in prima linea nel “sistema”). Questo approccio è reattivo, ovvero è un processo a ritroso che parte direttamente dall’analisi di un evento avverso prevenibile accaduto e rivaluta la sequenza degli avvenimenti, alla ricerca delle sue cause profonde. Questo approccio tuttavia non esonera dalla possibilità di adottare anche un criterio proattivo, che si basa sulla revisione di processi maggiormente a rischio (es. somministrazione di anticoagulanti), allo scopo di individuarne le potenziali criticità e ridurre la probabilità di rischio con accorgimenti di sistema.

Comunque, la conoscenza dei fattori che causano o contribuiscono al verificarsi degli errori nonché delle lacune latenti del sistema è il presupposto fondamentale per l’applicazione di strategie, quali ad esempio protocolli e linee guida, volte alla riduzione degli eventi avversi ed al miglioramento della qualità delle cure.

I principali approcci che sono stati studiati per migliorare la sicurezza del paziente nell’Assistenza Primaria comprendono quindi:

  • la sensibilizzazione attraverso campagne di educazione ed indagini sulla cultura della sicurezza;
  • lincident reporting (tecnica di identificazione del rischio);
  • sistemi root cause analysis (sistema di analisi reattiva del rischio) ;
  • sistemi di failure mode-effect-analysis (sistema di analisi proattiva del rischio).

Nel 2009, l’Agenzia Inglese per la Sicurezza del Paziente (NPSA) (51) ha emanato una guida di riferimento per i medici di famiglia relativamente alle misure da assumere per garantire la sicurezza del paziente, che includeva le seguenti indicazioni: costruisci una cultura della Sicurezza, conduci e sostieni la tua equipe, integra il risk management nella tua attività, promuovi la segnalazione, coinvolgi e comunica con i pazienti ed il pubblico, apprendi e condividi quanto apprendi e implementa misure per prevenire gli eventi avversi.

Un altro esempio è il modello australiano dove è previsto l’accreditamento dei medici di medicina generale presso lAustralian General Practice Accretitation Limited. E’ stato dimostrato che questo sistema è associato a una maggiore cultura della sicurezza del paziente. E’ ancora in fase di realizzazione inoltre da parte della Cochrane (52) una revisione sistematica degli interventi nelle Cure Primarie che possono portare alla riduzione degli errori prevenibili nella terapia.

In Italia, il Ministero della Salute ha istituito nel 2003 la Commissione per la Sicurezza che ha prodotto il documento “Risk management in sanità” (53). Successivamente sono state condotte varie attività finalizzate alla diffusione della cultura della sicurezza e alla messa a disposizione di strumenti per sostenere gli operatori e le istituzioni nella gestione del rischio clinico, tra cui:

  • il monitoraggio e l’analisi degli eventi avversi, con l’obiettivo di raccogliere dati relativi al verificarsi di eventi sentinella per individuarne i fattori causali;
  • la stesura di raccomandazioni, allo scopo di fornire indicazioni per prevenire il verificarsi di eventi avversi;
  • la formazione, per diffondere strumenti uniformi di studio ed analisi e per aumentare le competenze degli operatori sanitari.

Inoltre, il Ministero della Salute ha emanato un elenco di buone pratiche per la prevenzione del rischio nell’attività professionale del medico di medicina generale (54) che riguardano:

  • la competenza: l’individuazione delle criticità, intese come ambiti di carenza professionale, è essenziale. Se ne devono fare carico i singoli medici, le Aziende Sanitarie, le società scientifiche. I mezzi da utilizzare per sopperire alle carenze sono un accesso costante alla letteratura, corsi mirati, l’audit clinici e professionali;
  • la registrazione dei dati: la puntuale registrazione dei dati anamnestici e clinici del paziente costituisce una componente essenziale dell’operatività nonché un elemento fondamentale della gestione del rischio clinico;
  • la comunicazione: la comunicazione medico-paziente mira a instaurare un rapporto interattivo finalizzato alla compliance, al coinvolgimento del paziente nelle decisioni dei percorsi da intraprendere, alla spiegazione dei benefici attesi e degli effetti secondari che possono avere determinati trattamenti e degli obiettivi delle terapie. Infatti per la sicurezza del paziente, è necessario che la comunicazione riguardo alla terapia sia finalizzata a:
    • informare il paziente e i familiari sui percorsi diagnostico-terapeutici (razionale e obiettivi) e in particolare, sulle interferenze farmacologiche e con gli alimenti;
    • informare sulla corretta conservazione dei farmaci, specialmente se hanno confezioni e/o nomi simili e se sono farmaci ad alto livello di attenzione o ad alto rischio;
    • verificare l’aderenza ai trattamenti;
    • verificare periodicamente le motivazioni del paziente e la fiducia del paziente rispetto alla terapia;
    • coinvolgere i familiari ed i caregiver.

Interessante nell’ambito delle Cure Primarie è il tema della comunicazione tra medico di famiglia e gli altri professionisti: tale comunicazione deve avere l’obiettivo di ottimizzare la gestione interattiva dei problemi complessi per il raggiungimento dei migliori risultati di salute possibili. Occorre, quindi, che in ogni gestione interdisciplinare e interprofessionale si realizzi una trasmissione di informazioni e di dati utili all’adeguata conoscenza dei problemi. Ad esempio, nelle forme associative (associazione, medicina di rete, medicina di gruppo) e ancor più nelle Unita Complesse di Cure Primarie (UCCP) è indispensabile che gli operatori informino i colleghi di situazioni a rischio per motivi clinici, sociali, familiari, economici e culturali, e tutti dovrebbero poter consultare la cartella clinica prima di ogni attività e provvedere al puntuale aggiornamento della stessa. Il transito di informazioni, tutelate dal segreto professionale, consente un’adeguata gestione delle informazioni utili per la cura del paziente da parte del gruppo, in condizioni di sicurezza e affidabilità. Proprio per la prevenzione e la gestione del rischio legato a tutti gli ambiti della comunicazione è fondamentale considerare quanto già esposto rispetto al concetto di health literacy: la comunicazione efficace con il paziente deve considerare la capacità dello stesso di comprendere e tale capacità dovrebbe diventare un elemento che i professionisti considerano e condividono tra loro all’interno delle informazioni anamnestiche.

Alla luce di quanto detto, è importante che il medico di famiglia informi gli altri operatori (colleghi specialisti, infermieri) su:

  • patologie del paziente ed eventuali comorbilità;
  • dati anamnestici rilevanti;
  • eventuali allergie a farmaci o a mezzi di contrasto;
  • grado di compliance e di aderenza alla terapia;
  • problemi sociali, culturali ed economici del paziente e dei familiari, che possono influire sull’aderenza ai trattamenti proposti.

Il medico specialista, a sua volta, dovrebbe:

  • restituire al medico di medicina generale una relazione clinica chiara, priva di diciture abbreviate o sigle sulla consulenza, sull’esame eseguito, sul ricovero effettuato;
  • premurarsi che il documento di risposta contenga la data e il nome del paziente, sia leggibile e corredato da timbro e firma.

Nelle raccomandazioni del Ministero della Salute si fa riferimento anche a esempi dei più comuni errori che possono essere evitati facilmente nell’ambulatorio del medico di medicina generale.

In merito alla comunicazione col paziente può essere carente la spiegazione e la verifica della comprensione sulla modalità di assunzione dei farmaci, o mancare una verifica periodica delle corrette modalità di assunzione, o non essere spiegate le interazioni tra i diversi farmaci e tra questi e gli alimenti, o può mancare l’accertamento sull’eventuale assunzione di farmaci non prescritti dal curante. Come possibile soluzione viene raccomandato al medico di essere certo, congedando il paziente o i suoi familiari, che le sue indicazioni sulle dosi, sui tempi, sulle interazioni con cibo ed altri farmaci e sulla via di somministrazione siano stati comprese, coinvolgendo se possibile anche i familiari e fornendo uno schema scritto evitando le abbreviazione e utilizzando una scrittura chiara o utilizzando sistemi computerizzati di prescrizione medica. Nell’ambito della prevenzione degli errori legati alla non efficace comunicazione con il paziente anche in Medicina Generale potrebbero trovare un importante applicazione le strategie che sfruttano particolari tecniche che favoriscono una comunicazione con il paziente. A titolo di esempio citiamo due tecniche:

  • Teach-Back: tecniche strutturata che va a valutare quello che il paziente ha sentito e compreso; tale tecnica permette di controllare la chiarezza della comunicazione. E’ stato dimostrato che l’utilizzo della tecnica durante la visita, non aumenta in maniera significativa la durata delle visite, consente ai sanitari di limitare la discussione agli argomenti più importanti, riduce il numero di telefonate, richieste di chiarimenti e accessi impropri (55).
  • Il metodo dell’Ask Me 3: tecnica consiste nell’incoraggiare i pazienti a porre 3 domande fondamentali a cui dare risposta nel corso delle visite mediche al fine di concentrare l’attenzione del paziente sugli aspetti fondamentali: 1) Qual è il mio problema principale? 2) Cosa devo fare a riguardo? 3) Perché è importante che io lo faccia?

Riguardo all’organizzazione del lavoro i pre-requisiti più importanti necessari per raggiungere l’obiettivo di una organizzazione di qualità sono:

  • l’utilizzo di software specifici e sistemi computerizzati per la prescrizione dei farmaci che possano segnalare le possibili interazioni negative, la compatibilità fra le caratteristiche cliniche del paziente e i farmaci prescritti, i possibili eventi avversi e le esigenze di monitoraggio;
  • il possesso e l’utilizzo di un adeguato archivio informatico come descritto da parte dei MMG, che permetta la registrazione dei dati, il monitoraggio dei follow up, delle terapie, il controllo sulla compliance e aderenza, le indagini statistiche, la possibilità di verificare la qualità attraverso indicatori specifici, che possa inoltre, se condiviso con altri operatori sanitari, aiutare a tenere aggiornata la terapia modificata in corso di un accesso in ospedale o in caso di visita specialistica;
  • la disponibilità di personale di segreteria che consenta al medico di concentrarsi sui problemi clinici e sul colloquio con le persone. La segreteria, infatti, si occupa della gestione dell’accoglienza nella sala d’attesa e delle numerose telefonate in arrivo, esercitando un’importante attività di filtro. Questo tipo di organizzazione facilita inoltre la possibilità di organizzare l’attività ambulatoriale con un sistema per appuntamento che offre notevoli vantaggi, quali la riduzione dei tempi di attesa, la possibilità di dedicare ad ogni assistito un tempo adeguato, maggior silenzio e ordine nello studio;
  • l’idoneità dell’ambiente di lavoro, il suo arredamento e la piccola tecnologia professionale, elementi essenziali per la Sicurezza. Lo studio medico deve essere sufficientemente spazioso per poter accogliere il flusso di assistiti che vi accedono quotidianamente e dotato di lavandino per la corretta igienizzazione delle mani. È inoltre essenziale una buona climatizzazione interna, un adeguato ricambio di aria e la presenza di servizi igienici con antibagno. La sala d’aspetto deve essere ben areata e confortevole, con un adeguato numero di posti a sedere;
  • sistemi incentivanti e premianti che non prescindano o addirittura incentivino una premialità della produzione a discapito della sicurezza e anzi siano incentrati su misure di sicurezza del paziente;
  • percorsi formativi per favorire la cultura del rischio clinico o per colmare eventuali carenze di formazione rilevate, che hanno determinato il verificarsi di eventi avversi prevenibili;
  • indagini e ricerche che monitorino il livello di sicurezza nelle Cure Primarie per poter tarare i corsi di formazione e che misurino l’efficacia degli interventi addottati per ridurre il rischio clinico.

Infine, come proprio della clinical governance, l’adozione integrata e coerente delle buone pratiche e degli strumenti sopracitati come i PDTA e il sistema di misurazione delle performance possono contribuire al raggiungimento dell’obiettivo di raggiungere una maggiore sicurezza del paziente. Infatti, l’accettare di sottoporre la propria attività clinico-assistenziale a forme di auto-verifica, ma anche di valutazione e controllo secondo parametri professionalmente condivisi, può innalzare il livello di qualità dell’assistenza riducendo, per converso, il rischio di errore. La standardizzazione delle procedure secondo parametri condivisi, infine, può favorire i processi di integrazione fra le componenti multidisciplinari dei percorsi di diagnosi e cura, con un miglioramento globale sia della qualità effettiva degli interventi assistenziali, che di quella percepita dal paziente.

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Alcuni Esempi di Risk Management nell’Assistenza Primaria in Italia
  • Nel Distretto n° 1 della Azienda ULSS 16 di Padova, Regione Veneto i farmacisti dell’azienda sanitaria sono stati coinvolti nella revisione dell’interazione e della sicurezza della poli-terapia per i pazienti che assumevano più di cinque farmaci. Qualora i farmacisti si fossero accorti di eventuali interazioni pericolose per la sicurezza del paziente, dovevano inviare un avviso al MMG suggerendo eventuali modifiche della terapia.
  • L’AULS di Ferrara ha integrato la valutazione del rischio clinico nell’area del Dipartimento delle Cure Primarie. Sono stati individuati i referenti del rischio per ogni Servizio del Dipartimento Cure Primarie, ai quali è stato dato il mandato di organizzare all’interno del proprio Servizio la modalità di raccolta delle segnalazioni degli eventi avversi. Per quanto riguarda il Servizio di Pediatria di Comunità in seguito a segnalazione di eventi avversi si è attivata l’RCA (Root Cause Analysis) che ha portato all’elaborazione di procedure come azioni di miglioramento. Sono stati attivati percorsi formativi per l’inserimento dei nuovi referenti del rischio. Specificatamente in merito al Servizio di Assistenza Domiciliare sono stati effettuati eventi formativi relativi all’elaborazione di strumenti per l’applicazione del percorso di incident reporting.
  • La Regione Toscana con il nuovo Piano Sanitario Regionale ha voluto consolidare il modello a rete della gestione del rischio clinico attraverso un progressivo cambiamento culturale di tutti gli operatori e l’estensione delle logiche del rischio clinico dal settore ospedaliero a quello territoriale, con interessamento della medicina generale. Ha proposto, quindi, di estendere le buone pratiche trasversali alle strutture territoriali, in particolare per quanto riguarda la prevenzione delle cadute, l’igiene delle mani e la sicurezza nell’utilizzo dei farmaci. Ha deciso di incentivare l’utilizzo delle buone pratiche direttamente nei cittadini, soprattutto per promuovere la sicurezza nell’home care dei pazienti fragili (anziani, malati cronici senza supporto sociale, migranti, ecc.). Infine ha potenziato le buone pratiche finalizzate alla continuità del percorso tra ospedale e territorio quali: la sicurezza e continuità della terapia farmacologica (da sviluppare con farmacisti, associazioni dei pazienti e MMG), il passaggio di consegne tra professionisti ospedalieri e territoriali, il diario del paziente. La regione Toscana ha inoltre attivato una campagna per la corretta identificazione del paziente introducendo sistemi evoluti di riconoscimento e tracciabilità.

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Acronimi

  • BMJ:               British Medical Journal
  • BPCO:            BroncoPneumopatia Cronico Ostruttiva
  • DPR:               Decreto del Presidente della Repubblica
  • EBM:              Evidence Based Medicine
  • GC:                 Governo Clinico
  • LGC:               Linee Guida Cliniche
  • MePE:            Medicina delle Prove di Efficacia
  • MMG:            Medico di Medicina Generale
  • OMS:             Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO: World Health Organization)
  • PDTA:            Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale
  • QOF:              Quality and Outcome Framework
  • RCT:               Randomized Controlled Trial
  • SIMG:             Società Italiana di Medicina Generale
  • UCCP:            Unità Complessa di Cure Primarie
  • WONCA:        World Organization of National Colleges, Academies and Academic Associations of General Practitioners/Family Physicians – Organizzazione Mondiale dei Collegi Nazionali, delle Accademie e delle Associazioni Accademiche di Medicina Generale di Famiglia

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