Cap. 11 – Organizzazione distrettuale dei servizi dell’Assistenza Primaria

Capitolo del Manuale per Operatori di Sanità Pubblica “Governare l’Assistenza Primaria”

Autori: Pietro Del Giudice, Giulio Menegazzi, Lucia Lesa, Silvio Brusaferro

Indice del capitolo:

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Ruolo e organizzazione dei distretti

La Legge di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), 23 dicembre 1978 n. 833 definisce per la prima volta i Distretti Sanitari e prevede, all’art. 10 (organizzazione territoriale), che “i Comuni singoli o associati articolano le Unità sanitarie locali in Distretti sanitari di base, quali strutture tecnico-funzionali per l’erogazione dei servizi ambulatoriali di primo livello e pronto intervento”, demandando alle Regioni la definizione dei criteri per la loro costituzione. La Legge n. 833/1978, tuttavia, ha fornito solamente pochi elementi per la definizione delle caratteristiche specifiche del Distretto, cosa che ne ha inizialmente limitato le attività all’erogazione di alcuni servizi ambulatoriali di primo livello, lasciando poco definiti i livelli di coinvolgimento delle molteplici figure professionali (ad es. infermieri, assistenti sociali, medici specialisti, fisioterapisti, Medici di Medicina Generale (MMG), Pediatri di Famiglia (PDF, anche noti come Pediatri di Libera Scelta), ecc.).

Agli inizi degli anni 90’, con il Decreto legislativo (D.Lgs.) 30 dicembre 1992, n. 502 successivamente modificato dal D.Lgs. 7 dicembre 1993, n. 517 vengono fornite le prime indicazioni sul Distretto nell’ambito di un processo di riforma del SSN basato sui principi di aziendalizzazione. Il Distretto si configura come articolazione organizzativa dell’Azienda Sanitaria, insieme ai Presidi Ospedalieri e al nascente Dipartimento di Prevenzione. Il Distretto, come i Presidi Ospedalieri e il Dipartimento di Prevenzione, deve essere un centro di governo e non solo di erogazione di servizi; deve, pertanto, portare i servizi il più possibile vicino ai luoghi di vita delle persone, e cercare di dare risposta ad un bisogno di integrazione socio-sanitaria. Tuttavia, non vengono ancora definite in modo specifico le caratteristiche organizzative del Distretto, ed in molti casi l’istituzione dei Distretti sanitari si limita ad un piano formale senza prevederne un’effettiva autonomia operativa e gestionale. Malgrado l’enfasi della letteratura e le normative nazionali e regionali, in questa fase spesso i Distretti risultano come articolazioni “deboli”, caratterizzate da una diffusa difficoltà di riconoscimento di ruolo e di assegnazione di risorse.

È il Piano Sanitario Nazionale (PSN) 1994-1996 a fornire le prime indicazioni operative sulle funzioni del Distretto, identificandolo come il luogo naturale dove realizzare un elevato livello di integrazione tra i diversi servizi che erogano le prestazioni sanitarie e tra questi e i servizi socio-assistenziali. Il Distretto deve assumersi il compito di garantire l’integrazione di servizi e professionisti di area sanitaria con i servizi e i professionisti dell’ambito sociale. Il Piano fornisce le prime indicazioni sulle attività collocabili a livello distrettuale identificando nel supporto all’attività dei MMG, l’assistenza domiciliare integrata (ADI), il coordinamento dell’assistenza semiresidenziale e residenziale.

Un importante momento di passaggio è costituito dal PSN 1998-2000 che inserisce il Distretto nell’ambito delle fondamentali strategie di cambiamento del SSN. Il Piano infatti colloca in un unico livello di assistenza sanitaria le attività distrettuali, comprese l’assistenza sanitaria di base, specialistica semiresidenziale e territoriale, residenziale per non autosufficienti e lungodegenti stabilizzati. In questo caso la scelta di ricondurre a unitarietà tutte le attività territoriali nel livello distrettuale mira ad agevolare l’effettiva realizzazione di una rete dei servizi territoriali centrata sul Distretto. Per la prima volta si prevede inoltre un nuovo equilibrio tra attività e risorse dedicate all’ospedale e quelle dedicate al Distretto: alle cosiddette attività territoriali vanno dedicate più risorse di quelle previste per l’assistenza ospedaliera.

Il D.Lgs 19 giugno 1999, n. 229 (e successive modificazioni ed integrazioni) segna un’ulteriore svolta per i servizi sanitari del territorio attribuendo al Distretto l’autonomia indispensabile per il raggiungimento degli obiettivi di salute, dotando il Distretto di una forte connotazione organizzativa e valorizzando la riorganizzazione della medicina nel territorio. Le principali novità introdotte riguardano i servizi di Assistenza Primaria relativi alle attività sanitarie e socio-sanitarie, il coordinamento delle attività distrettuali con quelle dei dipartimenti e dei servizi aziendali (inclusi i presidi ospedalieri), la disponibilità di risorse autonome in base agli obiettivi di salute della popolazione e l’autonomia economico-finanziaria e tecnico-gestionale con contabilità separata nell’ambito del bilancio dell’Azienda sanitaria. Nel decreto si prevede che le Regioni disciplinino l’organizzazione del Distretto in modo da garantire l’Assistenza Primaria, le cure primarie e la continuità assistenziale mediante l’approccio multidisciplinare tra MMG, PDF, servizi di guardia medica e presidi specialistici ambulatoriali. Il Distretto viene a definirsi anche nelle dimensioni, di norma 60.000 abitanti, salvo deroghe per aspetti territoriali e demografici, e tra i suoi compiti è inclusa l’erogazione dell’assistenza primaria e socio-sanitaria, nonché l’assistenza specialistica ambulatoriale.

Nel disegno del D.Lgs 229/1999 il Distretto è sostanzialmente configurato come il sistema al quale è riconosciuta la responsabilità di governare la domanda (ruolo di committenza – valutare quali servizi per quali bisogni di salute) e di assicurare la gestione dei servizi sanitari territoriali (ruolo di produzione). La norma non specifica le modalità di svolgimento di queste funzioni; rientra nella competenza regionale indicare, ad esempio, se la funzione di produzione è erogata con gestione diretta dei servizi e delle prestazioni o anche ricorrendo alla negoziazione e all’acquisto di prestazioni erogate dai soggetti pubblici e privati accreditati.

Il D.Lgs n. 229/1999 disciplina inoltre per la prima volta il ruolo e la funzione del Direttore di Distretto, che è responsabile degli obiettivi e delle risorse assegnate e fa parte integrante del collegio di direzione dell’azienda.

Si evidenziano, anche, alcuni aspetti fondamentali nella definizione delle attività. Il Distretto deve operare pianificando le proprie attività, tramite il Programma delle attività territoriali (PAT), anche definito – secondo l’indicazione di diverse Regioni – “piano territoriale della salute”. Questo si configura come l’atto della programmazione negoziata con gli enti locali degli obiettivi e delle attività da erogare, sulla base delle risorse assegnate e tenendo conto delle indicazioni del Direttore generale e degli orientamenti regionali. Per il coordinamento con gli enti locali, il D.Lgs 229/1999 prevede la costituzione nel Distretto di un organismo di rappresentanza comunale: il Comitato dei sindaci di Distretto, la cui organizzazione e il funzionamento sono disciplinati dalla Regione, e che concorre alla predisposizione del PAT e alla verifica del raggiungimento dei risultati di salute definiti dallo stesso.

Il Distretto così non è più solo luogo di produzione di servizi, ma diventa anche luogo di programmazione, che avviene sulla base dell’analisi dei bisogni della popolazione e delle risorse disponibili. Da qui iniziano la definizione delle priorità, delle attività e delle risorse necessarie per attuarle, e la scelta se utilizzare servizi interni all’Azienda o acquistarli all’esterno.

La riforma attribuisce al Distretto un ambito di autonomia analogo a quello previsto per le altre articolazioni organizzative dell’Azienda sanitaria, costituite dai presidi ospedalieri e dal dipartimento di prevenzione e specificamente:

  • autonomia economico-finanziaria nell’ambito delle risorse assegnate, con contabilità finanziaria all’interno del bilancio della USL. Spetta al Direttore generale attribuire al Distretto un volume di risorse determinato in funzione degli obiettivi di salute e del volume programmato di attività del Distretto;
  • autonomia gestionale nell’ambito dei programmi approvati dall’Azienda, tenendo conto degli accordi presi con i Comuni interessati in merito ai servizi, che vengono definiti assieme al Distretto all’interno dei documenti dei Piani di Zona.

Per quanto riguarda le funzioni di committenza e produzione del Distretto, il D.Lgs 229/1999 afferma che è compito istituzionale del Distretto garantire le prestazioni socio-sanitarie. Nello specifico il Distretto deve garantire:

  • l’assistenza primaria, ivi compresa la continuità assistenziale. Le modalità devono comprendere il coordinamento, in ambulatorio e a domicilio, tra MMG, PDF, servizi di guardia medica notturna e festiva e i presidi specialistici ambulatoriali;
  • l’erogazione delle prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria, nonché delle prestazioni sociali di rilevanza sanitaria delegate dai Comuni.

Riguardo gli aspetti di integrazione socio-sanitaria e la necessità di coordinamento con gli enti locali, è la Legge 8 novembre 2000, n. 328 conosciuta come legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, che indirizza in modo organico la materia e indica alle Regioni, come elemento non obbligatorio ma da considerare come importante e prioritario, la coincidenza tra Distretti sanitari e ambiti sociali, aggregazioni intercomunali che hanno il compito di avviare nuove forme e modalità di progettazione, organizzazione e gestione associata dei servizi sociali. Spetta ancora alle Regioni, secondo questa norma, definire i criteri per l’articolazione dell’Azienda USL in Distretti, mentre il Direttore generale, nell’atto aziendale, deve individuarli specificamente e definirne le modalità organizzative e di funzionamento. La legge, inoltre, fa ulteriormente riferimento al coordinamento tra la pianificazione zonale e quella distrettuale: i Comuni afferenti al Distretto sanitario predispongono il Piano di zona in accordo con l’Azienda sanitaria, all’interno del quale sono definiti gli accordi in merito ai servizi sociosanitari. In quest’ottica il coordinamento della programmazione affidata al Distretto mira a favorire la realizzazione di programmi integrati per il cittadino e di un punto unico di riferimento per la comunità locale.

Negli anni successivi assume particolare rilevanza la modifica del titolo V della Costituzione (Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), la quale sposta l’attenzione su come garantire ai cittadini, dovunque essi si trovino, le prestazioni sanitarie e socio-sanitarie territoriali rientranti nei Livelli essenziali di assistenza (LEA). La definizione dei LEA inserisce un importante disaggregazione del livello “Assistenza distrettuale” in una serie di sotto-livelli:

  1. Assistenza sanitaria di base
  2. Attività di emergenza sanitaria territoriale
  3. Assistenza farmaceutica erogata attraverso le farmacie territoriali
  4. Assistenza integrativa
  5. Assistenza specialistica ambulatoriale
  6. Assistenza protesica
  7. Assistenza territoriale ambulatoriale e domiciliare
  8. Assistenza territoriale residenziale e semi-residenziale
  9. Assistenza termale

A valle di questa norma si verifica una forte diversificazione nell’organizzazione sanitaria a livello regionale, nella quale la rete distrettuale viene riconosciuta come “motore” per la mobilitazione delle risorse della comunità, e identificata come soluzione prioritaria per l’applicazione di nuove forme di assistenza.

Il successivo PSN 2003-2005 introduce un interessante cambio di prospettiva per il Distretto, invertendo il tradizionale sistema di offerta sanitaria fondata prioritariamente sui servizi che attendono i cittadini con le loro domande di assistenza e di salute,, a favore di un approccio che identifica i servizi sociosanitari quale soggetto attivo che intercetta il bisogno sanitario e si fa carico in modo unitario delle necessità sanitarie e socio-assistenziali dei cittadini. Il PSN 2003-2005 identifica due obiettivi di specifico rilievo per il Distretto:

  • Promuovere il territorio quale primaria sede di assistenza e di governo dei percorsi Sanitari e Socio-Sanitari”;
  • Promuovere una rete integrata di servizi sanitari e sociali per l’assistenza ai malati cronici, agli anziani e ai disabili”.

Un ulteriore obiettivo, più generale, ha notevole rilevanza per i servizi sociosanitari distrettuali: l’attuazione dei LEA e la riduzione delle liste di attesa, con particolare attenzione agli aspetti di appropriatezza ed integrazione, temi rispetto ai quali si possono delineare molte linee di intervento per l’assistenza territoriale e per l’integrazione con i servizi ospedalieri.

Con il successivo PSN 2006-2008 si mira a rafforzare l’integrazione del MMG/PDF nel sistema promuovendo lo sviluppo delle forme di aggregazione innovative della medicina generale, quali le équipe territoriali e i nuclei o unità di cure primarie. Il Piano sottolinea la necessità di completare l’offerta dei servizi nel raccordo ospedale-territorio e lo sviluppo, là dove ne ricorrano le condizioni secondo l’organizzazione dei servizi regionali, dell’ospedale di comunità. Il Piano, inoltre, stabilisce che le Regioni attribuiscono maggiori risorse finanziarie all’assistenza territoriale, fino a raggiungere i seguenti parametri tendenziali: 51% assistenza distrettuale; 44% assistenza ospedaliera; 5% prevenzione.

Il PSN 2011-2013 continua l’opera di approfondimento e promozione delle cure primarie all’interno delle attività distrettuali precisando che “la funzione delle cure primarie deve essere riconosciuta nelle strategie aziendali mediante la definizione, nei momenti istituzionali e nei documenti di pianificazione e di strategia aziendale, del ruolo e degli obiettivi assegnati ad esse e al Distretto. A quest’ultimo è, inoltre, affidata la governance del sistema per l’erogazione di livelli appropriati”. Si prevede quindi lo sviluppo da parte delle Aziende sanitarie di soluzioni sempre più integrate nel campo delle cure primarie, dove i professionisti vedono rafforzato il loro ruolo attraverso la realizzazione di sistemi d’integrazione tra coloro che operano nei servizi territoriali (rete orizzontale) e tra le diverse strutture d’offerta, in particolare tra servizi sociosanitari territoriali e sistema ospedaliero (rete verticale).

Questa integrazione “prevede appositi percorsi e la presa in carico costante nel tempo da parte di un team caratterizzato da competenze sociali e sanitarie, nonché il monitoraggio mediante adeguati strumenti di valutazione di appropriatezza, delle fasi di passaggio tra i vari setting assistenziali”. Inoltre, “il coordinamento e l’integrazione di tutte le attività sanitarie e socio-sanitarie a livello territoriale vengono garantiti dal Distretto al quale sono altresì affidati i compiti di ricercare, promuovere e realizzare opportune sinergie tra tutti i sistemi di offerta territoriale e di fungere da strumento di coordinamento per il sistema delle cure primarie (MMG e altre professionalità convenzionate). Il Distretto rappresenta, inoltre, l’interlocutore degli Enti locali ed esercita tale funzione in modo coordinato con le politiche aziendali”.

Il più recente D.Lgs n. 159/2012 definisce la funzione e la composizione delle Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT), chiamate a “condividere in forma strutturata, obiettivi e percorsi assistenziali, strumenti di valutazione della qualità assistenziale, linee guida, audit e strumenti analoghi, nonché forme organizzative multi professionali, denominate unità complesse di cure primarie (UCCP), che erogano prestazioni assistenziali   tramite   il coordinamento e l’integrazione dei professionisti delle cure primarie e del sociale a rilevanza sanitaria tenuto conto della peculiarità delle aree territoriali”. Il decreto prevede che le UCCP “possano adottare, anche per il tramite del Distretto sanitario, forme di finanziamento a budget”, e che “definiscono i conseguenti livelli di spesa programmati, in coerenza con gli obiettivi e i programmi di attività del Distretto”.

La definizione delle UCCP come strutture complesse all’interno delle AFT nell’organizzazione dell’assistenza e delle cure territoriali e la loro integrazione anche informativa all’interno dell’organizzazione Distrettuale viene ulteriormente ribadita e approfondita nel testo del Patto per la Salute 2014-2016, in cui si definiscono i limiti entro cui dimensionare le nuove AFT, che “coprono un bacino di utenza riferito a non più di 30.000 abitanti, e rappresentano l’insieme dei professionisti che hanno in carico il cittadino che esercita la scelta nei confronti del singolo medico”. Le UCCP vengono quindi ad identificarsi come “parte fondamentale ed essenziale del Distretto, integrandosi all’interno della rete dei servizi distrettuali e permettendo una relazione diretta tra l’assistenza territoriale e gli altri nodi della rete assistenziale”. Il testo ribadisce inoltre l’importanza dell’utilizzo di nuovi strumenti di governance, affermando che “per un efficientamento delle cure primarie, è importante una ridefinizione dei ruoli, delle competenze e delle relazioni professionali con una visione che assegna a ogni professionista responsabilità individuali e di equipe su compiti, funzioni ed obiettivi, abbandonando una logica gerarchica per perseguire una logica di governance responsabile dei professionisti coinvolti prevedendo sia azioni normativo/contrattuali che percorsi formativi a sostegno di tale obiettivo”.

Per quanto riguarda l’assistenza socio-sanitaria, il Patto per la Salute 2014-2016 introduce un’innovazione organizzativa prevedendo l’accesso ai servizi tramite l’utilizzo di “un punto unico, che indirizza il cittadino al percorso socio-sanitario e socio-assistenziale adeguato alle sue condizioni e necessità”. Non vengono ancora identificati i livelli minimi di servizi da garantire al cittadino condivisi a livello nazionale, ma il compito spetta invece alle Regioni, che “si impegnano ad armonizzare i servizi socio-sanitari, individuando standard minimi qualificanti di erogazione delle prestazioni socio-sanitarie che saranno definite anche in relazione al numero e tipologia del personale impiegato”.

In sintesi, l’insieme delle direttive sui servizi sociosanitari ha portato negli anni ad una riconsiderazione del ruolo del Distretto, chiamato ad essere “funzionalmente forte” (1). Questo è una struttura aziendale con ruolo organizzativo, gestionale e di facilitazione allo svolgimento delle attività sanitarie e sociosanitarie di un ambito territoriale. La funzione di governance trova un punto di forza nella somma delle funzioni di coordinamento e gestione delle prestazioni anche specialistiche con quello del governo della domanda e valutazione dei servizi. Il “Distretto funzionalmente forte” è tenuto a svolgere una serie di funzioni che lo rendono centrale nella rete dei servizi sociosanitari:

  • valutare il fabbisogno e la domanda di salute;
  • elaborare un’adeguata e condivisa pianificazione strategica;
  • sviluppare la programmazione operativa delle attività (budgeting);
  • definire un sistema di obiettivi e indicatori per valutare efficienza, qualità e sicurezza dell’assistenza;
  • assicurare lo sviluppo di iniziative di promozione/educazione alla salute e prevenzione anche in accordo con il dipartimento di prevenzione;
  • monitorare buon uso delle risorse, appropriatezza ed equità dei percorsi assistenziali;
  • facilitare l’accesso all’erogazione dei servizi sanitari e sociosanitari territoriali da parte dei professionisti che lavorano individualmente, ma soprattutto in team mono- o multi- professionali;
  • creare una rete di presidi territoriali sociosanitari, che comprenda al suo interno il sistema della domiciliarità e residenzialità, servizi sociali, ospedale, ambulatori , dipartimento di salute mentale, SERT, neuropsichiatria infantile ed altri servizi che possano fornire cure in maniera integrata;
  • creare un sistema informativo integrato che permetta l’interoperabilità dei vari sistemi in dotazione alle figure professionali.

Accanto a queste funzioni sono essenziali gli strumenti di integrazione dei servizi sia rispetto all’organizzazione (intra-aziendale, regionale, con i comuni) sia rispetto ai pazienti, con riduzione della variabilità diagnostico assistenziale e del percorso di fruizione.

In definitiva, sebbene negli anni i ruoli e le funzioni del Distretto siano state definite sempre più nel dettaglio, queste rimangono un campo in continua evoluzione, per le quali diverse Regioni hanno contribuito negli anni con esperienze e sviluppi che hanno poi in parte guidato la normativa nazionale. L’Agenzia Nazionale per i servizi sanitari Regionali (Age.na.s.) ha realizzato diverse valutazioni sullo stato attuativo del distretto sanitario, che hanno portato alla produzione di diversi report che definiscono lo stato attuativo dei Distretti sia a livello nazionale che regionale (2,3).

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L’esercizio della committenza a livello distrettuale

Una delle funzioni che contraddistinguono il Distretto all’interno del SSN è quella di committenza dei servizi sociosanitari, ovvero l’insieme di attività necessarie all’analisi dei bisogni di salute di una popolazione e alla specificazione dei servizi richiesti per far fronte a questi bisogni all’interno di una pianificazione strategica. Svolgere un ruolo di committenza vuol dire anche assicurare che i servizi identificati siano effettivamente erogati, e misurare, monitorare e valutare la qualità dei risultati ottenuti (4).

Il termine committenza nasce nel mondo anglosassone alla fine degli anni 90’ (commissioning) per definire un’attività più sofisticata del semplice acquisto di beni e servizi da parte delle organizzazioni sanitarie, che comprendesse al suo interno anche tutte le attività volte ad assicurare una reale risposta ai bisogni di salute di una popolazione (5).

La committenza, in questi termini, può essere vista come un processo ciclico costituito da tre fasi (vedi figura 1):

  • analisi dei bisogni di salute;
  • acquisizione dei servizi;
  • monitoraggio e valutazione dei risultati.

Figura 1. Il ciclo della committenza. Brusaferro et al. (6)

La committenza si basa quindi sull’analisi continua dei bisogni di una comunità e sulla configurazione di servizi in risposta ai bisogni di salute all’interno del suo contesto, tenendo conto degli attori presenti e delle risorse disponibili.

Il Royal College of General Practitioners ha identificato 5 principi fondamentali che dovrebbero orientare una buona attività di committenza (7):

  1. migliorare gli esiti (outcomes) per pazienti e comunità, dando priorità alla domanda rispetto all’offerta ed incoraggiando l’innovazione;
  2. sviluppare l’empowerment del paziente attraverso approcci condivisi alla assistenza; informando pienamente i pazienti ed aiutandoli ad essere protagonisti della loro assistenza;
  3. utilizzare pratiche evidence based nella valutazione dei bisogni, nel disegno dei servizi e nel monitoraggio degli outcomes;
  4. mobilizzare le risorse della comunità;
  5. rendere sostenibili i sistemi sanitari.

La suddivisione del ciclo della committenza in diverse fasi può portare a caratterizzarla con un ciclo temporale ben definito (ad esempio annuale), mentre nella realtà il ciclo della committenza deve essere inteso come un processo continuo in cui diverse attività di diverse fasi coesistono e si sovrappongono (8).

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Analisi dei bisogni di salute

L’analisi dei bisogni di salute è quel processo di revisione sistematica delle istanze di salute di una popolazione che permette di concordare priorità ed allocazione di risorse in una logica di appropriatezza, sicurezza ed equità (9).

L’attività di analisi dei bisogni di salute si articola in tre principali azioni:

  • coinvolgimento e inclusione dei portatori di interessi (stakeholder), necessario per una risposta di tipo proattivo e basato su un principio di collaborazione con le istituzioni.
  • raccolta e analisi di dati relativi allo stato di salute, contestualizzati per un dato luogo, una data popolazione e un dato tempo;
  • identificazione condivisa delle priorità d’azione tra committente e stakeholder.

I bisogni di salute di una popolazione non sempre si presentano in una forma facilmente interpretabile dalle istituzioni che li devono affrontare: una lettura corretta della realtà in cui si opera richiede anche la capacità di riconoscere quei bisogni che non sono formalmente espressi, ma che spesso trovano vie indirette di sfogo (anche in forma di disagio e instabilità sociale) (10). Per questo, l’attività di committenza richiede un processo proattivo mirato alla creazione di un rapporto in cui le comunità collaborano attivamente con il committente.

La raccolta e nell’analisi dei dati relativi allo stato di salute della popolazione necessitano della capacità di leggere e utilizzare i dati provenienti da diverse fonti (epidemiologiche, amministrative, economiche), al fine di trasformarli in informazioni utili ad identificare i bisogni di una popolazione. Parallelamente da un lato è necessario assicurare che gli operatori addetti all’analisi dei bisogni di salute abbiano la capacità di utilizzare i dati, dall’altro bisogna fare in modo che i dati necessari siano disponibili, facilmente accessibili e temporalmente rilevanti. Al momento non esiste un set di indicatori condiviso per l’analisi dei bisogni di salute a livello nazionale. Alcuni esempi possibili sono gli indicatori definiti per la realizzazione del profilo di comunità dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’ambito del progetto “Città Sane” (11), oppure gli “European Community Health Indicators” (ECHI), prodotti dallo European Monitoring Programme (12).

La finalizzazione della fase di analisi dei bisogni di salute avviene al momento della definizione dei contenuti (sostenuti da evidenze scientifiche e/o buone pratiche), delle strategie, delle risorse disponibili, della sensibilità e delle attese della comunità, e delle conseguenti priorità d’azione necessarie a rispondere ai bisogni per quella popolazione. La condivisione e collaborazione tra committente e stakeholder diventano fattori critici all’interno di questa fase per ridurre il rischio che la committenza non risponda efficacemente ai bisogni di salute della popolazione (13).

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Acquisizione dei servizi

Una volta effettuata un’analisi dei bisogni di salute della popolazione, i sistemi sanitari, ed in questo caso il Distretto, devono decidere come acquisire i servizi necessari a fornire le risposte più adeguate. Nonostante le possibili differenze organizzative, la gamma di soluzioni include:

  • produzione del servizio facendo ricorso ad una risorsa interna;
  • produzione del servizio da una risorsa esterna proveniente dal servizio sanitario;
  • acquisto del servizio da provider esterno al servizio sanitario.

All’interno del ciclo della committenza, la fase di acquisizione dei servizi è caratterizzata da diverse attività che accomunano tutte le tipologie di servizi sanitari:

  • configurazione dei servizi e delle loro caratteristiche;
  • definizione dei sistemi di fornitura;
  • gestione appropriata della domanda.

La configurazione dei servizi è il momento in cui si devono identificare le opportunità di miglioramento per offrire un insieme di servizi mirati ai bisogni di salute identificati. Il committente, basandosi sulle evidenze scientifiche e/o sulle buone pratiche nazionali ed internazionali, deve in questa fase definire e/o modificare prestazioni e servizi già esistenti, o crearne di nuovi. Questi servizi devono essere organizzati in modo da risultare integrati tra loro, costo-efficaci, sicuri e coordinati con l’insieme di altre prestazioni e servizi erogati.

La definizione dei sistemi di fornitura esita nella sottoscrizione di contratti con tutti i fornitori, nei quali devono essere descritti i requisiti di attività, di qualità, le interfacce organizzative e le aspettative sia del committente che del fornitore del servizio.

L’ultima attività della fase di acquisizione dei servizi consiste nella gestione appropriata della domanda. In questa fase è necessario verificare l’adeguatezza dei servizi in funzione del volume di attività atteso, degli standard di sicurezza per assicurare che non vengano sovra- o sotto-utilizzati e degli standard di qualità e sicurezza delle cure.

Parallelamente è importante supportare ed incentivare i pazienti ad utilizzare i servizi nel modo ottimale. Questo si realizza sia contemporaneamente alla erogazione del servizio sia, in proiezione futura, anticipando bisogni futuri e necessità di innovazione tecnologica ed organizzativa.

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Monitoraggio e valutazione dei risultati

Per monitoraggio e valutazione dei risultati in questo contesto si intende la misurazione continua del livello di efficacia dei servizi e delle prestazioni erogate e la valutazione del conseguimento degli obiettivi previsti dalla programmazione.

Il monitoraggio delle attività è strumentale:

  • al supporto alle decisioni cliniche/scelte del paziente;
  • alla gestione delle performance (tramite il monitoraggio della qualità e sicurezza delle azioni e dei loro esiti (outcomes);
  • alla definizione e l’analisi del punto di vista degli utenti, della comunità e delle autorità locali.

Il monitoraggio accorpa dati ed informazioni di natura differente, compreso il feedback restituito dall’utenza, ma deve anche permettere il confronto interno ed esterno (benchmark) e favorire la diffusione della conoscenza sia a livello interno che esterno al servizio sanitario.

La gestione delle performance si avvale di indicatori che forniscono periodiche informazioni riguardo alle prestazioni stesse (ad esempio il volume di servizi utilizzati, le risorse in utilizzo, gli esiti, etc.) e di indicatori di qualità, riferiti a sei aree di misura della qualità (14):

  1. sicurezza;
  2. esperienza e risultati incentrati su paziente e operatore;
  3. coordinamento assistenziale;
  4. assistenza clinica;
  5. salute della popolazione o della comunità;
  6. efficienza e riduzione dei costi.

Misurare, produrre report e confrontare i risultati sono forse i più importanti passi verso cui deve dirigersi l’assistenza sanitaria per un rapido miglioramento dei risultati e per la riduzione dei costi (15).

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Il lavoro di rete tra servizi sanitari, sociali e attori informali

La tipologia di servizi ed il ruolo che vengono affidati al Distretto richiedono come requisito il lavoro di rete e, conseguentemente, il conoscere, il saper lavorare ed utilizzare le reti.

Una rete è definita da una serie di nodi, da legami e linguaggi che ne mettono in risalto l’interdipendenza rispetto ad un comune obiettivo (o insieme di obiettivi). In ambito sanitario e sociosanitario esiste una molteplicità di attori, ognuno dei quali può essere descritto come un nodo, e una serie di interdipendenze che aumentano con la complessità del sistema. I sistemi sanitari devono configurarsi in modo da rendere queste interdipendenze le più funzionali possibile alla presa in carico e risoluzione dei bisogni partendo da una condivisione di linguaggi ed obiettivi. Tuttavia nell’ambito dell’assistenza al cittadino si incontrano altre reti, dette informali in quanto non necessariamente strutturate ed evidenti, composte da associazioni di cittadini, volontariato o anche semplici reti di contatti, che concorrono a determinare le opzioni e le scelte che compie il cittadino di fronte ad un problema di salute.

In ambito sociosanitario un intervento può dirsi di rete quando un determinato problema non viene affrontato da un singolo professionista (di area clinica, educativa, assistenziale o sociale), bensì sfruttando l’insieme di competenze esistenti all’interno delle rete di relazioni (istituzionali e non). La soluzione al problema, secondo questo modello, emerge dal concorso della stessa rete o di parte di essa o di una rete potenziata più forte, alla quale il problema si relaziona (16). Impostare gli interventi sanitari e sociosanitari in una logica di rete aiuta a sfruttare caratteristiche dei sistemi complessi adattativi, quali sono le organizzazioni sanitarie, come la mancanza di linearità nei processi, l’auto-organizzazione, i comportamenti emergenti e la presenza implicita di regole semplici che governano questi sistemi (17).

Gli elementi di maggiore criticità sono essenzialmente due: le reti nascono se i nodi sono in grado di leggere e interpretare le interdipendenze (18); le reti perdurano se i nodi distribuiscono equamente il valore aggiunto generato dalla rete, garantendo una equità percepita tra contributi apportati e ricompense (19).

Uno studio inglese sull’utilizzo delle reti in sanità identifica cinque elementi chiave nel successo di una rete, che sono interdipendenti e interagiscono tra loro, rendendo possibile alla rete il supporto nella produzione di servizi e, al tempo stesso, favorendo l’apprendimento e il cambiamento.

Questi elementi, che vanno intesi in senso dinamico in un ciclo che si auto rinforza nel proprio sviluppo, sono:

  1. presenza di un obiettivo comune, per cui i membri della rete si muovano verso una direzione comune mantenendo un sufficiente focus sulle finalità della rete stessa;
  2. definizione di una struttura cooperativa, che permetta alle persone di lavorare assieme anche tra diverse organizzazioni, prendendo decisioni comuni e integrando le risorse;
  3. raggiungere una massa critica, in modo da poter crescere e aumentare il proprio valore per i membri della rete;
  4. sfruttare l’intelligenza collettiva, che si accumula man mano che i membri producono scambi e imparano gli uni gli altri, generando ulteriore valore e facilitando la discussione e la sperimentazione;
  5. sviluppare un senso di comunità, in cui i membri possano beneficiare gli uni gli altri e costruire relazioni che favoriscano la reciprocità e sforzi discrezionali.

La presenza di questi elementi nel lavoro di rete va intesa come un ciclo dinamico e mutualmente rinforzante, e che aiuta a mantenere il momentum per la crescita e lo sviluppo della rete. È infatti l’effetto combinato di questi elementi che consente un effettivo miglioramento della qualità, dell’apprendimento e del cambiamento a risultato del lavoro di rete(20).

In questa visione, il cosiddetto “terzo settore”, così come le semplici reti di cittadini, sono considerate sempre più un ingranaggio fondamentale per la costruzione dei sistemi di welfare e per la programmazione dei sistemi sociosanitari, sia come asse fondamentale della community care, sia come integrazione del lavoro degli operatori istituzionali in un’ottica di welfare mix (21).

In altri termini il curare lo sviluppo di molteplici reti a livello di comunità locale ed attorno al singolo cittadino va ad incidere su quello che viene definito come “capitale sociale” (inteso come insieme di tutti i fattori che contribuiscono al senso di comunità) che a sua volta ha un ruolo riconosciuto nel processo di salutogenesi (22). Fattori come la congiuntura economica e la disgregazione di punti di riferimento delle comunità, specialmente le più piccole, possono erodere il capitale sociale e impedire a parte della popolazione di fruire dei servizi sociosanitari e soddisfare i propri bisogni di salute.

L’importanza di disporre di una molteplicità di reti si coglie ancor più chiaramente se si considera la possibilità che non sia un operatore sanitario a recepire per primo un bisogno di salute: la qual cosa è piuttosto frequente. Spesso infatti l’aiuto viene cercato e ottenuto tramite la figura di riferimento più rapidamente contattabile e questo apre alla possibilità che non ci si riferisca solo ad una comunità fisica, ma anche ad una virtuale, come riferimento per il cittadino. In parte il fenomeno è dovuto alla complessità dei bisogni, che in quanto tali possono non solo non essere percepiti o non esprimere direttamente una domanda, ma anche non trovare articolazione a fronte di una domanda espressa. Questo fenomeno, che talvolta rimane “sommerso” e non facilmente quantificato, è in realtà un elemento il cui potenziale deve trovare ancora il giusto utilizzo (23).

Uno degli esempi tra i più dibattuti è l’assistenza agli anziani affidata alle badanti. In questo caso molte famiglie hanno scelto di farsi carico con le proprie risorse dell’assistenza, principalmente perché questa soluzione ha permesso la personalizzazione e la continuità dell’assistenza. La risposta della rete familiare in questo caso è diventata l’opzione principale, lasciando i sistemi sanitari in sottofondo, o nel migliore dei casi con un ruolo di welfare sussidiario e facilitazione delle di reti (24). Estendendo questo esempio dalla sfera familiare a quella della rete dei contatti personali si può fare riferimento al concetto di comunità di prossimità.

Una comunità di prossimità può essere definita come la rete di contatti rapidamente accessibili che circonda le persone (dove esse sono immerse più o meno consapevolmente) e ne costituisce un punto di riferimento quotidiano nella vita di relazione. In presenza di un problema assistenziale, possono farne parte gli attori convenzionalmente associati a reti formali: cure primarie (MMG, infermiere di comunità, distretto), amministratori locali e altre figure di riferimento nella comunità (farmacia, parroco, assistenti sociali) e reti informali (reti amicali, associazioni di volontariato o semplicemente di appartenenza).

In conclusione, il Distretto e gli attori formali della presa in carico dei bisogni di salute del cittadino hanno davanti quotidianamente una sfida: accettare l’unicità e la non riproducibilità delle reti informali, rischiando di non portare a livello di sistema il valore dell’esperienza acquisita, oppure lavorare sempre più strettamente con loro, correndo il rischio di “istituzionalizzare” una forma di lavoro che per definizione nasce slegata da vincoli amministrativi.

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Integrazione organizzativa dei piani e dei programmi delle attività territoriali

La gestione organizzativa delle attività sanitarie e socio sanitarie del distretto si base su alcuni strumenti: il Programma delle attività territoriali (PAT), il Piano attuativo locale (PAL), il Piano di zona (PdZ), il Piano attuativo annuale (PAA) e l’Accordo di Programma.

Il Programma delle attività territoriali (PAT) è il piano di salute distrettuale in cui sono definiti i bisogni prioritari e gli interventi di natura sanitaria e sociosanitaria necessari per affrontarli. Allo stesso tempo il Piano di zona è lo strumento per definire le strategie di risposta ai bisogni sociali e sociosanitari.

Il programma delle attività territoriali (PAT) è definito come la base programmatica per organizzare e articolare l’assistenza sanitaria primaria e l’integrazione sociosanitaria nel distretto. In quanto tale esso è chiamato ad evidenziare i centri di offerta e di responsabilità, a mettere in relazione l’analisi dei bisogni con la mappa dell’offerta, a selezionare le priorità di salute, a identificare le risorse necessarie per conseguire i risultati di salute e di miglioramento del sistema di offerta.

Gli obiettivi del PAT vanno inoltre espressi in termini dei risultati attesi, di miglioramento delle condizioni di salute della popolazione (con idonei indicatori di efficacia) e in termini di miglioramento dei risultati attesi di miglioramento della rete di offerta e della sua qualificazione quantitativa e qualitativa.

L’elaborazione del PAT del Distretto avviene in collaborazione con gli altri soggetti istituzionali e sociali interessati. Gli interlocutori spesso privilegiati in questa fase sono gli enti locali, gli altri soggetti pubblici che operano per la promozione della salute, i soggetti privati che erogano servizi nel territorio, il Terzo Settore, le organizzazioni dei cittadini e degli utenti. Il PAT rappresenta quindi il principale strumento di programmazione e governo del livello di assistenza distrettuale, nelle diverse modalità di erogazione, in modo coordinato nel territorio e nelle forme più adeguate per garantire continuità assistenziale e appropriatezza degli interventi domiciliari, diurni, ambulatoriali e residenziali extra ospedalieri.

Questa dimensione territoriale dovrebbe facilitare politiche integrate coerenti con i bisogni del territorio, rendere più agevole ed efficace la partecipazione dei cittadini attraverso il ciclo della committenza.

Inoltre, al fine di consentire una programmazione condivisa, partecipata, unitaria e coerente in relazione ai bisogni sociosanitari del territorio, è necessario che le Aziende sanitarie ed i Comuni operino per raccordare la loro azione programmatoria, in particolare per gli aspetti sociosanitari del Piano di Zona (PdZ) con gli aspetti sociosanitari del PAT del Distretto e il Piano Attuativo Locale (PAL) dell’Azienda sanitaria.

Il PdZ, si configura come un documento di programmazione di durata triennale regolamentato dalla legge sui servizi sociali 328/2000. Il PdZ è pensato come uno strumento flessibile che, coerentemente con i Livelli Essenziali di Assistenza e le principali politiche di ciascuna programmazione regionale, definisce obiettivi, azioni e risorse rispetto le aree sociali che richiedono una maggiore integrazione tra i diversi servizi che insistono in una determinata area territoriale. Il PdZ delinea la rete di strutture e servizi accessibili dal cittadino, le modalità di accesso (in modo da ridurre possibili disuguaglianze) e il coordinamento con le strutture statali.

Gli obiettivi del PdZ sono quelli di:

  • analizzare qualitativamente e quantitativamente i bisogni e i problemi della popolazione;
  • individuare e mobilitare risorse pubbliche, private e del volontariato;
  • delineare gli obiettivi comuni e le priorità a cui finalizzare le risorse;
  • identificare la figura che può offrire il servizio necessario e le forme organizzative;
  • stabilire le modalità gestionali per garantire interventi integrati in termini di efficacia, efficienza e d economicità;
  • pianificare un sistema di responsabilità e tempi per la verifica, oltre che di valutazione dei programmi e dei servizi.

Il PdZ comprende 3 fasi principali:

  1. analisi dei bisogni della popolazione e di identificazione di risorse;
  2. messa a punto e approvazione degli obiettivi e degli interventi da implementare
  3. attuazione e gestione integrata delle attività che prevede per ogni area anche un gruppo di monitoraggio.

Risulta evidente che il Distretto gioca un ruolo fondamentale nelle prime due fasi con una forte compartecipazione. Per quanto riguarda la terza fase, quella di attuazione, il PdZ prevede due ulteriori strumenti:

  • il Piano Attuativo Annuale (PAA);
  • l’Accordo di Programma.

Il PAA è un piano che definisce quelli che sono gli obiettivi, gli interventi, i servizi previsti e le relative risorse necessarie in quel territorio nell’anno di riferimento suddividendole per azioni di sistema e aree di intervento. Gli impegni, le azioni da mettere in atto e le risorse destinate che le singole aziende socio-sanitarie definisco per il raggiungimento degli obiettivi del PAA sono descritte all’interno dei documenti di pianificazione aziendale, ad esempio il PAL.

L’Accordo di Programma invece definisce l’accordo annuale tra gli attori istituzionali con la sottoscrizione da parte del Direttore Generale dell’Azienda sanitaria o del Distretto ed i sindaci dei comuni interessati.

L’integrazione che caratterizza il PdZ è quindi dovuta ai diversi attori presenti sul territorio che contribuiscono alla sua stesura, attori istituzionali e sociali, sanitari e non sanitari. Le reti formali, costituite dagli attori istituzionali quali Regioni, Province, Comuni ma anche Aziende Usl e Distretti , contribuiscono per la loro funzione di governo e programmazione, mentre le rete informali, che comprendono le cooperative, associazioni di volontariato, organizzazioni sindacali e le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), offrono il loro specifico apporto sulle diverse aree di bisogno. Spesso è necessario anche il coinvolgimento del mondo della scuola o di quello giudiziario.

In questa visione i PAT del Distretto, integrandosi alla programmazione dei PdZ locali, rappresentano la sintesi programmatica territoriale e devono esprimere non più il solo governo della domanda socio-sanitaria ma piuttosto il governo della salute dei cittadini che vivono nello specifico territorio.

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Unitarietà diagnostico-assistenziale e di fruizione dei servizi

Uno degli obiettivi principali cui il distretto deve tendere abbiamo detto è quello centrato sul paziente e relativo alla facilitazione degli accessi e alla riduzione della variabilità diagnostico-terapeutica e di percorso. La creazione di Punti Unici di Accesso (PUA) è in parte legata a livelli di risposta che sono in molti settori inferiori alla domanda potenziale: istituire un punto di ingresso unico rappresenta un modo per individuare le priorità socio-assistenziali e regolare gli ingressi nel sistema in funzione dei livelli di bisogno. Le quattro aree di intervento più significative per i PUA previste dalle regioni sono (25):

  1. Accoglienza, informazione e orientamento;
  2. accompagnamento (individuazione di un percorso personalizzato di aiuto);
  3. risoluzione dei problemi semplici;
  4. osservatorio (raccolta e analisi dei dati su domanda e offerta).

La normativa nazionale ha iniziato ad occuparsi dei PUA, dapprima identificandoli come “sportelli unici di accesso” per l’accesso ai servizi socio-assistenziali (D.M. 10 luglio 2007). L’accordo Stato-Regioni del 25 marzo 2009 invita successivamente le Regioni a sviluppare i punti unici di accesso al fine di semplificare l’informazione e l’accesso ai servizi, promuovere l’integrazione tra attività sanitaria e socio-assistenziale, realizzare la presa in carico del paziente attraverso l’affido diretto alle unità valutative e agli altri servizi da cui dipende la definizione e l’attuazione del percorso assistenziale individuale. In quel periodo erano già in corso diverse sperimentazioni a livello regionale, che hanno identificato questa tipologia in maniera differente non solo per denominazione, ma anche per funzioni svolte. Uno studio del 2011 condotto dall’Age.na.s. sullo stato di attivazione dei Distretti (2) mostra come sia la presa in carico il ruolo trasversalmente meno svolto dai PUA a livello nazionale (tabella 1).

Tabella 1. Funzioni in carico ai PUA in Italia. (2)

Area geografica

Punto informativo e di orientamento

Sportello per gli aspetti amministrativi

Modalità organizzativa per l’avvio e l’accesso ai servizi con convocazione dell’UVD

Svolgimento dell’intero processo organizzativo di presa in carico

Nord-est

65,9%

44,7%

62,6%

33,3%

Nord-ovest

80,6%

58,2%

63,4%

29,1%

Centro

66,3%

23,8%

79,2%

34,7%

Sud e isole

58,5%

33,5%

67,5%

39,6%

Totale

66,7%

40.0%

67,5%

34,9%

Non è quindi univocamente condiviso se il PUA debba essere il luogo di attivazione degli interventi o anche il luogo di erogazione di servizi. Si può piuttosto parlare di avvio alla presa in carico, ruolo che vede il PUA come servizio favorente la continuità di cura ma non di ripetute interazioni col singolo cittadino, dal momento che un bisogno complesso sarà poi gestito dai servizi idonei al caso.

Per quanto riguarda la riduzione della variabilità all’interno dei servizi assistenziali in un’ottica di unitarietà dei percorsi di fruizione dei servizi, lo strumento proposto è la costruzione di percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA). Il primo riferimento normativo allo strumento dei PDTA appare nel 1996, con la legge finanziaria riguardo ai tetti di spesa nella quale si afferma che “i medici…conformano le proprie autonome decisioni tecniche a PDTA cooperando in tal modo al rispetto degli obiettivi di spesa”. I successivi PSN 1998-2000 e 2004-2006 indicano i PDTA come strumenti per “favorire modalità sistematiche di revisione e valutazione della pratica clinica ed assistenziale e assicurare i LEA”, con l’obiettivo “di assistere i clinici ed i pazienti nel prendere decisioni, migliorare la qualità delle cure sanitarie e ridurre la variabilità nella pratica clinica e negli outcomes”.

In letteratura internazionale esistono moltissime denominazioni (ad es. integrated care pathway, clinical pathway, critical pathway, care map), con altrettante specifiche definizioni che rendono difficile definire univocamente cosa costituisca un PDTA, e che hanno portato a riconoscere diverse tipologie di PDTA (PDTA ospedaliero, PDTA territoriale, PIC = PDTA sia ospedaliero che territoriale).

Una recente analisi di applicazione dei PDTA in diverse regioni italiane è stata condotta nel 2014 dalla Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere (FIASO), in collaborazione con il Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale (CERGAS) dell’Università Bocconi (26). In questo studio i PDTA vengono definiti come “una sequenza predefinita, articolata e coordinata di prestazioni erogate a livello ambulatoriale e/o di ricovero e/o territoriale, che prevede la partecipazione integrata di diversi specialisti e professionisti (oltre al paziente stesso), a livello ospedaliero e/o territoriale, al fine di realizzare la diagnosi e la terapia più adeguate per una specifica situazione patologica”.

Possono quindi essere evidenziate alcune caratteristiche comuni ai PDTA, che in sintesi devono rappresentare la contestualizzazione di Linee Guida in una specifica realtà organizzativa, attraverso l’utilizzo di modelli locali che, in relazione alle risorse disponibili, consentano un’analisi degli scostamenti tra situazione attesa e osservata permettendo all’azienda sanitaria di delineare il miglior percorso praticabile all’interno della propria organizzazione rispetto ad una patologia o ad un problema clinico. La costruzione dei PDTA prevede quindi i seguenti passaggi:

  1. identificazione di una patologia o problema clinico e relative evidenze scientifiche, linee guida e buone pratiche;
  2. definizione dei processi in uso a livello locale tramite la costruzione di diagrammi di flusso;
  3. valutazione della compliance rispetto a procedure e risultati stabiliti, audit interno e reportistica.

Essendo i PDTA per lo più sviluppati per il trattamento di patologie e problemi di salute cronici, il Distretto, in quanto committente dei servizi sociosanitari, è chiamato ad assumere un ruolo centrale e di regia nella costruzione, nel mantenimento e nella valutazione dei percorsi e degli esiti correlati all’applicazioni di questi.

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Nuovi modelli ed esperienze di integrazione per l’assistenza territoriale

Per garantire l’erogazione di prestazioni assistenziali coordinate e favorire l’integrazione dei professionisti delle cure primarie e del sociale a rilevanza sanitaria tenendo conto della peculiarità delle aree territoriali, la normativa propone la costituzione di Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT), all’interno delle quali si costituiscono le unità complesse di cure primarie (UCCP), Le UCCP e le AFT hanno come compiti essenziali:

  • assicurare l’erogazione delle prestazioni territoriali (medicina generale tramite le AFT , assistenza infermieristica, attività territoriale ambulatoriale e domiciliare, attività specialistica, servizi e supporto);
  • garantire la continuità dell’assistenza mediante l’utilizzo della ricetta elettronica dematerializzata e il continuo aggiornamento della scheda sanitaria individuale informatizzata e del fascicolo sanitario elettronico;
  • garantire l’accessibilità dell’assistenza territoriale per tuto l’arco della giornata per tutti i giorni della settimana, avvalendosi dei professionisti del ruolo unico della Medicina Generale;
  • garantire la continuità dell’assistenza nelle tre declinazioni (relazionale gestionale ed informativa), prevedendo l’applicazione di percorsi assistenziali condivisi e l’integrazione informativa tra le componenti della medicina convenzionata e la rete distrettuale ed ospedaliera.

Una interessante esperienza a livello nazionale mirata alla realizzazione di un’effettiva integrazione dei percorsi diagnostico-assistenziali e di fruizione dell’assistenza territoriale con la costituzione delle UCCP è quello delle “Case della Salute”. Si tratta di un modello che da alcuni anni è in corso di sperimentazione in diverse regioni italiane, seppur con variazioni legate alle diverse interpretazioni dei Servizi Sanitari Regionali (si possono trovare diversità nelle denominazione, nelle composizioni delle figure professionali, nella definizione del bacino territoriale, della sede, della governance e dei sistemi informativi).

Le “Case della Salute”, afferenti al Distretto, sono immaginate come luoghi dove l’integrazione è pensata in modo da non essere solo funzionale, ma anche strutturale e fisica. Questi modelli rappresentano un’evoluzione di ulteriore complessità nell’integrazione dei servizi rispetto all’idea originaria del PUA, dal momento che accentrano anche diversi servizi e li coordinano in modo da poter effettuare una presa in carico dei bisogni del cittadino.

Secondo la definizione in uso nella Regione Emilia-Romagna (27), tra le prime regioni a sviluppare questo modello organizzativo, le “Case della Salute” hanno il compito di:

  • assicurare un punto unico di accesso ai cittadini;
  • garantire la continuità assistenziale 24 ore al giorno, 7 giorni su 7;
  • organizzare e coordinare le risposte da dare al cittadino;
  • rafforzare l’integrazione con l’ospedale soprattutto in relazione alle dimissioni protette;
  • migliorare la presa in carico integrata dei pazienti con problemi di patologie croniche;
  • sviluppare programmi di prevenzione rivolti al singolo, alla comunità e a target specifici di popolazione;
  • promuovere e valorizzare la partecipazione dei cittadini;
  • offrire formazione permanente agli operatori.

Lo scopo dunque è quello di realizzare delle strutture che siano facilmente individuabili dal cittadino per accedere ai servizi, in cui sia possibile ricevere servizi di cure primarie integrati e configurati in sinergia con le altre realtà del sistema sanitario, semplificando i percorsi.

La “Casa della Salute” è organizzata per aree, ciascuna finalizzata ad offrire una risposta immediata al cittadino. In questo modello di assistenza territoriale possono essere identificate alcune funzioni fondamentali dell’attività, che sono: punto unico di accesso, specialistica ambulatoriale, ambulatorio infermieristico/infermieristica di comunità, diagnostica di base, continuità assistenziale, ADI, farmacia, forme di aggregazione di MMG e PDF (28). La quantità di servizi presenti può essere soggetta a variazioni e pianificata in modo da avere centri di ordine gerarchico maggiore con maggior disponibilità di servizi, in base a strategie dettate dalle diverse caratteristiche epidemiologiche e demografiche dell’area servita che può esprimere diversi bisogni di salute.

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Conclusioni

L’evoluzione normativa e le esperienze sviluppate in questi anni in Italia mostrano come il Distretto sia oggi uno degli ambiti di sperimentazione più vivaci. Alcuni elementi emergono come delle costanti che caratterizzano il Distretto nell’ambito delle diverse scelte effettuate dalle regioni nell’ambito SSN:

  • il ruolo di coordinatore dell’assistenza sanitaria di primo livello e di integrazione dei servizi sanitari e sociali;
  • l’articolazione in molteplici servizi tra loro strettamente coordinati (ad es. Cure Primarie, assistenza primaria, servizi sociosanitari, ecc.) ed in continua evoluzione;
  • il ruolo di primo sensore della domanda legata ai bisogni di salute di una popolazione e territorio e di programmazione della risposta in termini di offerta di servizi (committenza);
  • il ruolo di collegamento tra cittadini, le loro rappresentanze istituzionali ed i Servizi del Sistema sanitario regionale e nazionale;
  • l’autonomia gestionale ed economica;
  • il ruolo (anche se non sempre pienamente esercitato) di committenza;
  • il ruolo di raccordo con le funzioni di base del dipartimento di prevenzione, del dipartimento di salute mentale, dei servizi per le tossicodipendenze, ecc..

In sintesi il Distretto rappresenta oggi una frontiera, un campo di sperimentazione, ed allo stesso tempo, con le sue aree di azione in continua evoluzione e talora poco definite, il paradigma di una sanità che è alla ricerca di assetti organizzativi e modelli di risposta alla complessità della domanda sociosanitaria. Modelli che necessariamente devono favorire il coinvolgimento dei professionisti e la loro integrazione, l’appropriatezza, la sicurezza, la trasparenza e la sostenibilità delle attività sanitarie e socioassistenziali, e da avere come perni la centralità del paziente ed il forte radicamento nella comunità locale.

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Acronimi

  • ADI: Assistenza domiciliare Integrata
  • AFT: Aggregazioni Funzionali Territoriali
  • AGENAS: AGEnzia NAzionale per i Servizi sanitari regionali
  • CERGAS: Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale
  • D.Lgs: Decreto Legislativo
  • PDF: Pediatri Di Famiglia
  • ECHI: European Community Health Indicators
  • FIASO: Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere
  • IPAB: Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza
  • LEA: Livelli Essenziali di Assistenza
  • MMG: Medico di Medicina Generale
  • PAA: Piano Attuativo Annuale
  • PAL: Piano Attuativo Locale
  • PAT: Programma delle Attività Territoriali
  • PDTA: Percorso Diagnostico-Terapeutico Assistenziale
  • PdZ: Piano di Zona
  • PSN: Piano Sanitario Nazionale
  • PUA: Punto Unico di Accesso
  • SSN: Servizio Sanitario Nazionale
  • UCCP: Unità Complesse di Cure Primarie
  • UTAP: Unità Territoriali di Assistenza Primaria

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Bibliografia

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