Capitolo 6 – Costruire il lavoro di comunità per il supporto alle fragilità

Capitolo 6 – Costruire il lavoro di comunità per il supporto alle fragilità

Francesco Longo

Indice del capitolo

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Il capitolo si articola in tre parti logicamente correlate e da considerarsi congiuntamente.

  1. Si propone una riflessione sulle possibili vocazioni che le Case della Comunità possono assumere, in particolare rispetto al lavoro di comunità.
  2. Nella seconda parte si discute il framework che concettualizza la comunità come insieme di reti sociali, che diventano una piattaforma sulla quale poter operazionalizzare il lavoro di comunità.
  3. Nella terza parte si presentano le possibili logiche e gli strumenti necessari per attuare il lavoro di comunità.

 

Le possibili vocazioni della Case della Comunità

Nel PNRR la Casa della Comunità viene descritta come “una struttura fisica in cui opererà un team multidisciplinare di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialistici, infermieri di comunità, altri professionisti della salute e potrà ospitare anche assistenti sociali” e come “un punto di riferimento continuativo per la popolazione che ha il fine di garantire la promozione, la prevenzione della salute e la presa in carico della comunità di riferimento”. Nel DM 71 vengono definiti in linea generale i criteri per individuare il rapporto tra la Case della Comunità e la popolazione di riferimento, oltre ad alcuni aspetti relativi ai modelli organizzativi, all’organizzazione in rete Hub & Spoke e alle funzioni principali.

I diversi modelli possibili di “Case”

All’interno di questa cornice normativa sono lasciati ampi spazi decisionali alle Regioni e alle singole AUSL in merito alla vocazione da dare alle Case della Comunità da attivare, che può variare a seconda dei servizi inseriti e, di conseguenza, degli obiettivi perseguiti. Esistono tre diversi modelli possibili di “Case”: la Casa della Salute, la Casa Socio-sanitaria e la Casa della Comunità. La Casa della Salute è caratterizzata dalla presenza di servizi sanitari collocati in un unico luogo fisico e integrati tra loro; la Casa Socio-sanitaria integra sia i servizi sanitari territoriali del SSN sia alcuni o tutti i servizi sociali degli enti locali; infine, la Casa della Comunità integra tutti i servizi sanitari territoriali, alcuni o tutti i servizi sociali degli enti locali e allo stesso tempo si apre alle risorse e alle reti di comunità.

Figura 1:I diversi modelli possibili di “Case”

Ognuna delle tre tipologie descritte può essere a sua volta interpretata in maniera diversa, portando alla definizione di molte possibili fattispecie di Case.

La prima tipologia (Casa della Salute) può avere quattro distinte vocazioni.

  • In prima istanza, essa si può configurare come il luogo predisposto alla medicina di iniziativa, in cui viene garantito l’accesso ai servizi e il case management della cronicità stabilizzata. Si potrebbe prevedere una programmazione di numerose Case di questa tipologia, con una modesta quantità di servizi erogati, in quanto il ruolo principale di reclutamento e accesso non prevede una importante erogazione fisica dei servizi, che sarebbero dislocati in altre strutture.
  • La seconda vocazione possibile per la tipologia “Casa della Salute” la vede come luogo erogativo delle cure primarie e della specialistica territoriale per i pazienti cronici. In questo caso, non si tratterebbe solo di adempiere a funzioni di reclutamento e accesso ma anche di provvedere all’erogazione di servizi di cure primarie e specialistici territoriali per la cronicità.
  • La terza vocazione che la Casa della Salute può assumere riguarda la presa in carico prevalente della fragilità e della non autosufficienza anziana e dei disabili adulti (4,4 milioni di persone in Italia).
  • Infine, la quarta e ultima vocazione vede la Casa della Salute come una piattaforma erogativa di tutti i servizi territoriali specialistici (psichiatria, igiene pubblica, materno infantile, neuropsichiatria infantile, ecc).

Le quattro tipologie descritte rappresentano declinazioni diverse del concetto di Casa della Salute in senso stretto e l’aspirazione a realizzare ciascuna delle tipologie è ugualmente legittima e molto ambiziosa. Ovviamente le 4 vocazioni proposte, possono essere variabilmente combinate tra di loro.

La seconda tipologia, ovvero la Casa Socio-sanitaria, che ha l’ambizione di unire servizi sanitari territoriali e servizi sociali degli enti locali, può a sua volta essere declinata in quattro modalità molto diverse tra loro.

  • L’integrazione tra i servizi può essere focalizzata sulla co-programmazione interistituzionale dei percorsi sanitari e sociali.
  • Oppure, la Casa Socio-sanitaria può configurarsi come il luogo in cui si garantisce l’accesso unitario sia per i servizi assistenziali sia per quelli sociali (attraverso il PUA) e il case management unitario (sia sociale sia sanitario).
  • Nella terza vocazione possibile, la Casa Socio-sanitaria eroga direttamente sia alcuni servizi sanitari sia alcuni servizi sociali degli enti locali (che spesso sono erogati dal terzo settore), che verrebbero ricollocati dalle loro sedi tradizionali alla Casa Socio-sanitaria.
  • In ultimo, la Casa Socio-sanitaria assumerebbe la responsabilità dell’erogazione dell’intero portafoglio dei servizi sociali che verrebbero quindi delegati al SSN da parte degli enti locali o perlomeno pienamente integrati.

Anche in questo caso si tratta di quattro possibili modelli molto diversi tra di loro ma ugualmente sfidanti, che possono essere variabilmente coniugati tra di loro.

La terza e ultima tipologia, la Casa della Comunità, può declinare il suo lavoro con la comunità in tre modi diversi.

  • Nella prima vocazione la Casa della Comunità è il luogo di co-produzione di gruppo, in cui i servizi sanitari e sociali (ad esempio, l’educazione sanitaria) non vengono erogati per un singolo paziente ma ad un gruppo di pazienti L’erogazione di servizi fatta da un solo operatore verso molteplici pazienti permetterebbe di moltiplicare la produttività e costruire o rafforzare reti sociali tra i pazienti, che garantisce anche una spinta alla compliance alle terapie.
  • Nella seconda vocazione, la Casa della Comunità è intesa come centro per la co-progettazione e la valutazione partecipata dei servizi e delle performance, lasciando spazio alla partecipazione democratica.
  • Infine, nella terza vocazione della Casa della Comunità l’obiettivo principale è quello di promuovere, sostenere e valorizzare le reti sociali esterne ai servizi pubblici (come i gruppi di lettura in biblioteca, i gruppi di cammino, la rete dei NEET, il volontariato in genere, ecc.) per tutelare e promuovere la salute.

Nella programmazione delle Case della Comunità, la sfida per gli stakeholder locali sarà quella di decidere quale delle diverse vocazioni possibili assegnare a ciascuna struttura, tenendo in considerazione che le vocazioni non sono tra di loro alternative ma che possono combinarsi variabilmente tra di loro, anche per rispondere alle specificità dei singoli contesti e per valorizzare le reali risorse umane e di servizi disponibili. Esse non costituiscono una dimensione statica, ma si evolvono e arricchiscono progressivamente nel tempo, in una prospettiva strategica che deve essere almeno decennale. È frequente che le vocazioni di diverse Case della Comunità di una stessa AUSL debbano differire in tutto o in parte tra di loro a secondo delle esigenze, storie e competenze dei singoli contesti locali. L’evoluzione e l’arricchimento progressivo nel tempo può attivare sentieri di convergenza.

Figura 2:Le possibili vocazioni delle “Case”

 

Le variabili presenti in ciascun territorio

Per programmare la combinazione di vocazioni da assegnare alla singola Casa della Comunità è importante considerare tre variabili presenti in ciascun territorio: capitale istituzionale, capitale sociale e risorse economiche disponibili nell’ASL.

  • Il capitale istituzionale del territorio in cui si progetta la realizzazione della Casa di Comunità indica la forza degli enti e delle aziende pubbliche e si può catturare ad esempio misurando quanto è stabile e riconosciuta la direzione generale di un’AUSL o il sindaco di un Comune o l’indirizzo della giunta regionale, quanto è forte il commitment sulle Case della Comunità e quindi la disponibilità ad investire nella loro evoluzione progressiva, quante competenze professionali sono disponibili rispetto a quelle necessarie e quanto è diffusa la cultura di change management e la propensione all’innovazione.
  • La seconda variabile relativa al capitale sociale si riferisce alle caratteristiche del tessuto sociale e della comunità del territorio. Il capitale sociale è misurabile ad esempio con la diffusione delle associazioni di volontariato, dal livello di fiducia che le persone ripongono nelle istituzioni, dalla presenza e forza delle reti sociali formali e informali presenti nella comunità e dal livello di digitalizzazione delle relazioni esistenti nelle reti sociali (quanto le reti sono abituate a funzionare in maniera moderna).
  • La terza variabile utile è rappresentata dalle risorse pubbliche disponibili per le Case della Comunità. Esse dipendono sia da scelte di allocazione delle risorse, ma anche di razionalizzazione dei servizi esistenti, dall’assunzione di configurazioni organizzative più ricomposte e a rete. Le risorse dipendono anche dalla situazione di equilibrio economico degli enti locali e dell’azienda sanitaria, che può favorire o meno scelte di spesa espansive, così come dalla forza dell’azienda nella capacità di riallocare le risorse.

La presenza di alto capitale istituzionale, sociale e di risorse disponibili crea un contesto favorevole alla programmazione della totalità delle Case “full optional”, caratterizzate dall’unione di elementi che derivano da tutte e tre le vocazioni (Case della Salute, Case Socio-sanitarie e Case della Comunità). Tale contesto favorevole potrebbe portare ad un rapido e progressivo sviluppo delle Case della Comunità e alla possibilità di dare sostegno ad altri territori nella costruzione delle loro Case. Diversamente, se ci si trova nel contesto di medio capitale istituzionale, sociale e disponibilità di risorse, è possibile prevedere circa metà delle Case cosiddette “full optional”, mentre l’altra metà (nei contesti più difficili) sarebbe a sua volta divisa ugualmente tra Case a vocazione Socio-sanitaria e Case della Salute, con modalità di apprendimento dai territori più virtuosi. I contesti con una bassa combinazione delle tre variabili inizieranno a programmare la maggioranza delle strutture con la vocazione di Case della Salute in senso stretto e solo una parte di sperimentazioni pilota di Case Socio-sanitarie e Case della Comunità nei territori più forti. Dopo la prima sperimentazione e con il sostegno da parte di altri territori, nel tempo le vocazioni potrebbero modificarsi andando a tendere verso le Case “full optional”.

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La comunità vista come un insieme di reti sociali formali e informali

Rileggere il concetto di comunità, anche attraverso il sistema delle reti sociali formali e informali che le innerva, permette lo sviluppo di un approccio attuativo e gestionale al community building, essendo identificata una struttura organizzativa -la rete sociale- con cui rapportarsi e con cui costruire una relazione di scambio di contributi e ricompense. Si tratta quindi di un passaggio concettuale chiave, che offre la conseguente possibilità di delineare e discutere le possibili logiche e strumenti manageriali di relazione e influenza delle reti sociali.

Le reti sociali sono gruppi di persone interdipendenti tra di loro, cioè connesse attraverso legami sociali di natura e intensità diverse, che variano dalla semplice conoscenza casuale, ai rapporti di lavoro, ai vincoli familiari, a relazioni basate su specifici elementi di interesse o di comunanza di esperienza. Le reti sociali fanno sentire i membri parte di un gruppo sociale, in cui l’avvicinamento e l’identificazione reciproca risulta più facile e immediata. La rete sociale può essere definita come l’insieme delle strutture relazionali tra attori che definiscono il contesto nel quale questi si muovono e le cui caratteristiche servono per spiegare i comportamenti degli attori che compongono la rete stessa. All’interno delle reti sociali agiscono dei meccanismi di mutuo riconoscimento e influenza reciproca, che porta gli individui che le compongono a sentire di farne parte e ad essere condizionati da quanto tali reti rappresentano per il singolo individuo. Di seguito alcuni esempi: il vicinato caratterizzato dalla condivisione dello stesso ambiente di vita; la parrocchia basata sull’appartenenza a una comunità religiosa; le comunità di immigrati che hanno la stessa identità nazionale; i genitori di una scuola in quanto frequentatori di uno stesso servizio; il gruppo dei dializzati che sono affetti dalla stessa malattia e condividono un analogo percorso terapeutico; le associazioni, i gruppi di volontariato o i circoli in cui l’attiva partecipazione delle persone è l’elemento collante; i frequentatori abituali di uno stesso luogo, ad esempio un parco, una piazza, un bar; i partecipanti ad attività sportive, culturali o ludiche quali i gruppi sportivi, gli amici della lirica, i fungaioli; i lavoratori di una comune azienda o le reti professionali; gli iscritti a partiti, sindacati, gruppi di advocacy.

Caratterizzazione delle reti sociali

Le reti sociali si caratterizzano da livelli diversi di formalizzazione e di consapevolezza: si va infatti da reti informali e con un basso livello di consapevolezza come possono essere i frequentatori abituali di uno stesso luogo oppure i genitori di una scuola, a reti informali, ma con un’attiva partecipazione consapevole, come quelle della parrocchia o i gruppi di volontariato, fino alle associazioni e ai sindacati che hanno un elevato livello di formalizzazione e di attiva partecipazione. Le reti formali sono infatti quelle caratterizzate da strutturazione e riconoscibilità anche dall’esterno, in base alla presenza di documenti formalizzati (proprio statuto, protocollo d’intesa e accordo di rete) che ne dichiarano gli obiettivi e i settori di intervento ed a meccanismi ufficiali di governance per stabilire l’adesione delle persone ed i ruoli e responsabilità di chi ne fa parte, incluso l’identificazione di un interlocutore definito.  Le reti informali sono invece caratterizzate da un alto livello di spontaneità, sia nella loro genesi che nel loro funzionamento, sono più difficili da identificare ed intercettare, e si basano prevalentemente su legami di tipo personale e relazioni implicite spesso molto forti, sviluppati sia attraverso interazioni dirette, che attraverso la comunicazione a distanza indipendentemente dal territorio di appartenenza.

Figura 3: Livello di consapevolezza e di formalizzazione delle reti sociali

Le reti sociali possono essere utilmente analizzate dal punto di vista della loro struttura relazionale e culturale interna, per poter definire il miglior modo di interazione da parte della componente pubblica. Alcune reti sociali mostrano relazioni paritarie in cui si sviluppano soprattutto interazioni di tipo orizzontale in cui gli individui non hanno particolare potere o autorità gli uni sugli altri, mentre altre risultano essere più di tipo gerarchico, e non solo quelle formali e rigidamente strutturate. Se si osservano le finalità perseguite, alcune reti sociali si focalizzano sul sostegno ai membri interni, come per esempio un’associazione di pazienti, mentre altre più sul sostegno a soggetti esterni, nel caso di gruppi di volontariato. Inoltre, nelle reti sociali possono agire meccanismi di sostegno e aiuto reciproco, che in alcuni casi può manifestarsi attraverso logiche redistributive, che permettono di ripartire le risorse a disposizione tra i membri della rete, mentre altre reti possono applicare piuttosto logiche di scambio equo. Un altro modo per classificare e analizzare le reti sociali fa riferimento al loro dimensionamento, contrapponendo quelle radicate in un territorio e quindi di livello locale a quelle che rappresentano raggruppamenti locali di reti di livello più ampio, come lo sono per esempio alcune realtà associative nazionali che hanno ramificazioni locali. Le reti sociali si caratterizzano anche per essere aperte e soggette a progressivo ampliamento oppure per mantenersi chiuse e autonome verso l’esterno. Un ultimo aspetto da tenere in considerazione è il tipo di rapporto che le reti sociali hanno con le istituzioni, che può essere di attenzione e disponibile al dialogo oppure di autonomia, se non proprio basato su un atteggiamento distante o di contrapposizione.

Tabella 1: Caratterizzazione delle reti sociali

Tipologia di relazioni

Gerarchiche

(leader)

Paritarie

(mutuo aggiustamento reciproco)

Finalità perseguite

Focalizzate sul sostegno ai membri interni

Focalizzate sul sostegno a esterni

Logiche applicate

Logiche redistributive

Logiche di scambio equo

Dimensioni

Solo locali

Reti di nodi locali (associazioni di volontariato nazionale)

Tipologia di connessione

Basate solo su relazioni

Basate su strumenti di connessione ICT

Rapporto con ambiente esterno

Reti attente

Reti autonome e chiuse

Rapporto con le istituzioni

Attente o in dialogo con le istituzioni

Autonome, disilluse o ostili alle PA

 

Le singole reti sociali sono diverse tra di loro. Le PA devono, mapparle, analizzarle e classificarle, per poter identificare la modalità di relazione più coerente ed efficace rispetto alle loro caratteristiche, per poter organizzare al meglio le interdipendenze capaci di produrre valore pubblico.

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Strumenti manageriali per attuare il lavoro di comunità

È necessario utilizzare sistematicamente logiche e strumenti manageriali capaci di sostenere le reti sociali esistenti, inserendole armonicamente nel sistema di welfare locale, sia in fase di programmazione, sia in fase di gestione, riuscendo anche a rendicontare il maggiore valore aggiunto attivato per la comunità, rispetto a logiche di intervento tradizionali. Sappiamo che l’azione imprenditoriale e di innovazione insita nel lavoro di comunità può nascere da una iniziativa promossa direttamente da una rete sociale, da un soggetto organizzato del terzo settore (professionale o volontario) o da una istituzione pubblica. In ogni caso, le logiche manageriali di programmazione e gestione possono essere le medesime, anche se ci aspettiamo da soggetti più piccoli e meno strutturati, meno capacità di sistematizzarli e ingegnerizzarli, pur riuscendo a percorrere le stesse tappe logiche per la tutela degli interessi collettivi.

Gli strumenti manageriali più utili per il lavoro di comunità sono i seguenti:

  • Logiche e strumenti per l’analisi dei bisogni territoriali e i loro gap di copertura a supporto della definizione delle priorità, sia in termini di target di popolazione, sia di cluster territoriale;
  • Governance del sistema di rete allargata e governance delle singole iniziative di CB per un coinvolgimento efficace di tutti gli stakeholder capace di generare il necessario committment diffuso;
  • Piano strategico di CB, per definire l’insieme delle priorità di azione e delle reti delle alleanze sociali e istituzionali;
  • Change management nelle istituzioni pubbliche e nelle reti sociali per affiancare e ibridare i servizi pubblici di welfare tradizionali con iniziative di CB;
  • Sistema di programmazione e controllo del CB per contemperare contributi e ricompense tra i nodi della rete di alleanze e per valutare il rapporto costo-efficacia complessivo delle singole iniziative e del loro complesso.

Logiche e strumenti per l’analisi dei bisogni

L’analisi dei bisogni e dei servizi territoriali permette di definire i gap dei diritti non garantiti. Potremmo ad esempio scoprire che il 25-30% dei giovani tra i 25 e i 35 anni sono NEET (né lavorano, né studiano), che il 33% delle famiglie sono unipersonali alimentando un grande problema di solitudine, che il 47% delle coppie si separano alimentando il numero deIle famiglie monogenitoriali (oggi 11% delle famiglie totali), che il 23% della popolazione è anziana, che il 40% dei cronici sono over o under treated. La disponibilità di un sistema di conoscenza dei territori è fondamentale per disporre di una agenda dei problemi e per ancorare le iniziative di comunità a obiettivi specifici e correlati. Ad esempio, ci permetterebbe di chiederci, dopo tre anni di lavoro di comunità: quanti anziani soli abbiamo oggi riconnesso in nuove forme di socializzazione a loro prima estranee; quanti NEET abbiamo agganciato e re-inserito in un percorso professionale; di quanti abbiamo aumentato la compliance alle terapie dei pazienti cronici?

Governance

La definizione della governance del lavoro di comunità rappresenta un esercizio decisivo, articolato e multilivello perché si tratta di costruire assetti e meccanismi istituzionali capaci di contemperare quattro esigenze complesse:

  • l’integrazione tra istituzioni pubbliche: comuni, AUSL, ASP, ecc.
  • l’integrazione tra pubblico e privato formalizzato e professionale (profit e non profit)
  • l’integrazione tra welfare strutturato e informale
  • l’articolazione su due livelli di lavoro: quelli micro-locali (es. Casa della Comunità) e quelli di area più ampia (es. distretto).

A tal proposito non è possibile definire un modello di governance idealtipico di riferimento essendo i territori troppo diversi per geografia, per ricchezze di reti sociali disponibili, per tradizioni negli assetti istituzionali del welfare socio-sanitario. A titolo esemplificativo sul tipo di progettazione di governance che è necessario attivare proponiamo la Tabella 2 che delinea le possibili distinte funzioni tra Distretto Socio-Sanitario e Casa della Comunità, dove in questo caso il primo rappresenta il centro del sistema da 100.000 abitanti e la seconda il livello micro-territoriale di prossimità. Implicitamente, questa rappresentazione fa intravvedere anche la possibilità di articolare la governance su tre livelli (Azienda USL, distretto, Casa della Comunità), rendendo il sistema ancora più articolato.

Tabella 2: Suddivisione di funzioni tra Distretto Socio-Sanitario e Casa della Comunità

 

Possibili ruoli e funzioni complementari tra Distretto e Casa della Comunità

 

Il distretto medio del SSN ha 100.000 abitanti e potrebbe contenere da 3 a 5 Casa della Comunità (CdC).

Il Distretto Socio-Sanitario rappresenta la struttura organizzativa in cui:

–        si integrano le risorse sanitarie con quelle socio-sanitarie e socio-assistenziali (pooling delle risorse); partendo dal profilo di comunità integrato dove si enucleano risorse e bisogni;

–        si definisce la programmazione socio-sanitaria e socio-assistenziale integrata grazie alla concertazione tra i rappresentanti degli Enti Locali e il direttore del Distretto, sentiti gli stakeholder rilevanti del territorio compresa la CdC;

–        si allocano le risorse umane, infrastrutturali ed economico-finanziarie alle CdC;

–        si definiscono gli obiettivi attesi dai servizi delle CdC.

 

All’interno della programmazione del Distretto la CdC, quale luogo di progettualità con e per la comunità di riferimento, svolge cinque funzioni principali:

–        è il luogo dove la comunità, in tutte le sue espressioni e con l’ausilio dei professionisti, interpreta il quadro dei bisogni, definendo il proprio progetto di salute, le priorità di azione e i correlati servizi;

–        è il luogo dove professioni integrate tra loro dialogano con la comunità e gli utenti per riprogettare i servizi in funzione dei bisogni della comunità, attraverso il lavoro interprofessionale e multidisciplinare;

–        è il luogo dove le risorse pubbliche, tipicamente organizzate per silos disciplinari o settoriali, vengono aggregate e ricomposte in funzione dei bisogni della comunità, superando segmentazioni e vincoli contabili, attraverso lo strumento del budget di comunità;

–        è il luogo di integrazione delle risorse informali e formali della comunità che vengono aggregate alle risorse formale dei servizi sanitari e sociali e delle Istituzioni;

–        è il luogo dove la comunità ricompone il quadro dei bisogni locali sommando le informazioni dei sistemi informativi istituzionali con le informazioni provenienti dalle antenne e dalle reti sociali.

 

 

Piano strategico di Community Building (CB)

Il piano strategico del lavoro di comunità definisce l’insieme delle azioni di coinvolgimento delle reti di comunità che si intende attuare nell’arco di 3-5 anni nei diversi territori dell’area vasta considerata (perimetro di un ambito sociale o di una AUSL). Il piano strategico del lavoro di comunità rappresenta uno strumento di “agenda setting” istituzionale, in modo che l’analisi e la definizione delle priorità sociali determini la proattiva valorizzazione delle risorse della comunità in modo organico, in risposta a letture sistematiche su dove le risorse del welfare tradizionale risultano insufficienti o strutturalmente inefficaci o parzialmente efficaci. In altri termini, il piano strategico del lavoro di comunità può risultare utile per mantenere prioritarie le azioni di rete innovative, le quali rappresentano una innovazione disruptive e di rottura delle traiettorie storiche delle istituzioni pubbliche, rispetto le quali è utile disporre di un piano di azioni e obiettivi per comprendere il livello dei successi/insuccessi attuativi raggiunti e il posizionamento dell’istituzioni rispetto alle fisiologiche resistenze al cambiamento che si incontrano in processi sfidanti come quelli del lavoro di comunità.

Il livello istituzionale e geografico del piano strategico del lavoro di comunità può riguardare un singolo Distretto-Ambito Sociale, oppure il territorio di una intera AUSL a seconda delle dimensioni, delle istituzioni e delle tradizioni locali.

Il trade off più significativo che il piano strategico deve risolvere è se le iniziative e le progettualità previste vengano replicate in parallelo e similmente in tutti i territori, oppure se esiste una scelta di concentrarsi, negli stadi iniziali, su un ristretto numero di territori, oppure se sperimentare forme e target diversi in ogni singolo territorio, per coinvolgere tutti ma in modo complementare l’uno all’altro. Le ragioni di questo trade off sono le limitate energie istituzionali disponibili per progetti che indubbiamente sono finanziariamente poco costosi, ma estremamente sfidanti sul piano delle relazioni istituzionali, della comunicazione pubblica, del superamento di logiche burocratiche, dell’ingaggio diffuso degli stakeholder e delle reti sociali informali.

Un possibile indice logico del piano strategico di CB è il seguente:

  • 1) Il target di popolazione obiettivo dell’iniziativa di comunità, per il quale occorre specificare in quanti e quali territori si intende replicare l’iniziativa;
  • 2) la motivazione per cui si sceglie l’approccio di comunità e i corrispondenti obiettivi quantitativi;
  • 3) le reti strumento/risorsa che si intende attivare le reti da supportare ovvero i cittadini appartenente al target di cui si intende promuovere la connessione e partecipazione;
  • 4) Le risorse per ogni iniziativa in ogni territorio in termini di personale, spazi, contributi finanziari, supporti digitali, processi formativi e partecipativi che si intende mettere a disposizione, compatibilmente con la sostenibilità generale dei soggetti istituzionali;
  • 5) la governance;
  • 6) la sequenza e il cronoprogramma con cui si avviano durante la vigenza del piano strategico le diverse iniziative, a secondo che si privilegiano logiche sequenziali o parallele, innovazioni singole o a grappoli.

In questo modo il piano strategico del lavoro di comunità raggruppa tutte le iniziative da attivare, valorizzare o sviluppare in un periodo di 3/5 anni, nei diversi territori, definendo le risorse per essi disponibili e gli obiettivi attesi. La sua costruzione è un’occasione privilegiata di allineamento delle premesse collettive dentro e le istituzioni pubbliche e nella comunità, di discussione collettiva di criticità e opportunità e di condivisione di un nuovo framework di welfare comunitario, integrato e partecipativo. L’organicità del piano strategico ci permette, successivamente alla sua adozione, di suddividerlo per le responsabilità attuative tra i singoli territori o ad unità organizzative centrali che hanno compiti e funzioni verticali che tagliano trasversalmente tutti i territori. Il piano strategico può contenere utilmente anche una scheda per singola iniziativa di CB programmata, che può operare come mandato per lo specifico responsabile di progetto o project manager del cambiamento. Quest’ultimo passaggio definisce il piano di change management da attuare.

La chiara identificazione della vocazione delle singole Case della Comunità, l’identificazione delle reti sociali esistenti o da attivare da coinvolgere, la precisa attivazione di logiche e strumenti manageriali di programmazione, gestione e monitoraggio rappresentano i passaggi logici per una azione generativa e trasformativa dei servizi sociali e sanitari che davvero intenda attivare le risorse di comunità in profondità generando valore per tutta gli stakeholder e rafforzando il senso e i valori della società.

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Acronimi

  • ASP: Azienda sanitaria Provinciale
  • AUSL: Azienda Unità Sanitaria Locale
  • CB: Community Building
  • CdC: Casa della Comunità
  • ITC: Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione
  • PA: Pubblica Amministrazione

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