Capitolo 5 – L’evoluzione verso le Case della Comunità

Capitolo 5 – L’evoluzione verso le Case della Comunità

Fosco Foglietta, Fernanda Bastiani

Indice del capitolo

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Premessa

Delle Case della Comunità (CdC) molto si parla e si scrive come uno degli obiettivi più rilevanti –accanto alla implementazione massiccia della assistenza domiciliare– a cui affidare lo svecchiamento e la ri-qualificazione del Sistema Sanitario e Sociosanitario italiano, nel prossimo futuro, alla luce di quanto è accaduto durante la emergenza pandemica.

Ingenti risorse sono state previste nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) allo scopo di finanziare migliaia di CdC sul territorio dell’intero Paese. E già sono iniziate valutazioni perplesse in merito alla quantità di personale (articolato per svariate figure professionali) necessario ad assicurare gli organici corrispondentemente indispensabili. Una prospettiva organica di realizzazione è stata recentemente elaborata -all’interno del documento “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza territoriale nel Sistema Sanitario Nazionale” – dall’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AGENAS). L’abbrivio è rappresentato dalla seguente definizione: “La CdC è il luogo fisico di prossimità e di facile individuazione dove la comunità può accedere per poter entrare in contatto con il sistema di assistenza sanitaria e sociosanitaria. La CdC promuove un modello organizzativo di approccio integrato e multidisciplinare attraverso equipe territoriali. Costituisce la sede privilegiata per la progettazione e l’erogazione di interventi sanitari e di integrazione sociale”.

Seguono, poi, standard dimensionali, obiettivi, forme di coordinamento in rete (a diversi livelli), funzioni, servizi e responsabilità.

Pare utile, in questa sede, fornirne una sintetica illustrazione allo scopo di meglio comprendere quale sia l’architettura progettuale pensata per dar gambe alla concretizzazione di un modello nazionale di CdC.

Peraltro, è doveroso chiedersi –in questa sede elaborativa– in quali termini il modello di CdC (prospettato dai documenti progettuali e perfezionato alla luce della esperienza maturata in alcune regioni) in rapporto alle precedenti Case della Salute impatti con i bisogni espressi dalle persone fragili.

È, pertanto, indispensabile definire preliminarmente che cosa caratterizzi la dimensione della fragilità.

Nella sua definizione più ricorrente, questa è intesa come una maggiore vulnerabilità dell’individuo agli stress, in tal senso, una situazione complessa, associata a numerose condizioni (vedasi quanto riportato nei precedenti capitoli) predisponenti ad esiti negativi. In virtù di questa sua specificità, la fragilità possiede connotati peculiari che la diversificano dalla disabilità e dalla comorbilità con le quali, tuttavia, presenta talune sovrapposizioni.

È importante sottolineare come alcuni tra i metodi di misura proposti attualmente non si limitino a considerare lo stato funzionale, ma prendano in considerazione anche il profilo psico-emozionale, la capacità di interazione sociale, gli indici più o meno complessi di comorbilità, le performance cognitive, l’uso di farmaci e lo stato nutrizionale. Pertanto, andando oltre il modello strettamente biologico, consideriamo fragile quel paziente che, a causa del proprio stato patologico, del contesto familiare in cui vive, delle condizioni psico-sociali e relazionali che lo coinvolgono, degli stili di vita che pratica e delle residue autonomie, può degenerare –più o meno rapidamente– verso la non autosufficienza. In ragione di ciò il paziente fragile necessita di essere supportato attraverso un insieme di interventi a valenza preventiva, clinico-terapeutica e assistenziale sociosanitaria, che devono essere integrati e predisposti all’interno di una prospettiva, unitaria e condivisa, di presa in carico da parte sia dei servizi sanitari e sociali pubblici, sia delle risorse familiari e/o comunitarie di prossimità (disponibili sul territorio di riferimento).

Ovviamente, gli elementi connotativi sopra indicati si trovano aggregati in misura predominante all’interno di quelle fasce di età che corrispondono con la popolazione anziana ultrasessantacinquenne. Una quota di popolazione –particolarmente colpita da patologie cronicizzanti– che (dati ISTAT 2015) consuma il 72% di tutte le visite mediche, il 76% dei ricoveri ospedalieri, l’88% delle prescrizioni farmacologiche e il 96% delle assistenze domiciliari. Quota, in Italia, straordinariamente numerosa, essendo il nostro Paese fra i più longevi del mondo. Si consideri che il rapporto percentuale fra persone con oltre 65 anni e persone ricomprese tra i 20 e i 64 anni è, in Italia –al 2020– del 39,7% a fronte di una media UE del 35,1%.

Date queste premesse, la CdC appare come una modulazione organizzativa dell’offerta assistenziale particolarmente idonea nel far fronte ai bisogni prevalentemente espressi dalle persone fragili. A partire da una precisa affermazione del Documento AGENAS: La CdC è peculiarmente vocata a prendersi carico delle cronicità e fragilità attraverso l’adozione diffusa della medicina di iniziativa.

Inoltre, il presidio sanitario e sociosanitario rappresentato dalla CdC si inserisce al centro di una pluralità di reti assistenziali (fra servizi territoriali e tra questi e l’ospedale) che puntano ad assicurare il massimo di prossimità. Ciò di cui hanno, per l’appunto, estrema necessità le persone anziane con scarsa mobilità e difficoltà di relazione. Condizioni, queste, che si associano sia alla compresenza di più patologie e/o stati di sofferenza psico-fisica, sia alla più o meno incipiente perdita di alcune autonomie. Stati di bisogno che postulano prese in carico integrate sociosanitarie, lungo assistenze domiciliari, una elevata facilità di accesso ai servizi di cui si necessita, una organizzazione degli interventi che risulti unitaria, coinvolgendo servizi complementari e professionisti di varia caratterizzazione specialistica. Tutto ciò è garantibile (deve esserlo!) dalla e (per alcuni aspetti) nella CdC, a partire dal Punto Unico di Accesso (PUA) e dalla attivazione dei percorsi integrati di”continuità assistenziale”, per terminare con l’attivazione delle Unità Specialistiche di Continuità Assistenziale (USCA) –pensate per sopperire alla cronica carenza di visite domiciliari non più garantite dai Medici di Medicina Generale (MMG)- e con la ricerca di modalità collaborative con il volontariato di prossimità finalizzate a generare forme di assistenza che non richiedono specifiche competenze professionali.

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Il documento AGENAS

Il documento –prima di procedere ad una articolata illustrazione delle principali caratteristiche della C.d.C– esplicita immediatamente tre aspetti (evidentemente ritenuti fondamentali) che ne devono connotare l’identità:

  • Gli standard di riferimento per quanto attiene la loro diffusione in rapporto ai bacini di utenza: “Si prevedono 1 CdC Hub per ogni Distretto e almeno 3 CdC Spoke (1 ogni 30/35.000abitanti nelle aree metropolitane; 1 ogni 20/25.000 abitanti nelle aree urbane e sub-urbane; 1 ogni 10/15.000 abitanti nelle aree interne e rurali) per favorire la capillarità dei servizi e maggiore equità di accesso”.
  • La evoluzione che esse rappresentano rispetto a quelle aggregazioni (Aggregazioni Funzionali Territoriali – AFT e Unità Complesse di Cure Primarie – UCCP) dei servizi delle Cure Primarie che il Decreto Balduzzi (n.158/2012) poneva come traguardo ri-elaborativo delle Medicine di Gruppo (MdG) dei MMG e dei Pediatri di Libera Scelta (PLS). Aggregazioni da prevedersi all’interno delle Case della Salute oppure a queste collegate funzionalmente per i territori disagiati e a minore densità abitativa.
  • La presenza, in ogni CdC, di 1 “infermiere di comunità” ogni 2000/2500 abitanti.
  • L’accessibilità assicurata h.12 e, ove possibile, h.24 (a seguito dell’integrazione con il servizio di Continuità Assistenziale).

Obiettivi e modello

Gli obiettivi indicati dal documento AGENAS si identificano, con alcuni, fondamentali, criteri di funzionamento della CdC; così, ad esempio per:

  • l’accesso unitario e integrato all’assistenza sanitaria, sociosanitaria e socio assistenziale;
  • la prevenzione e la promozione della salute (attraverso il coordinamento con il Dipartimento di Prevenzione);
  • la presa in carico della cronicità e fragilità secondo il paradigma della medicina di iniziativa;
  • la valutazione del bisogno (filtro) e l’orientamento successivo verso la risposta assistenziale più appropriata;
  • l’attivazione di percorsi multidisciplinari (continuità assistenziale) che prevedono la integrazione fra servizi sanitari ospedalieri e territoriali e tra servizi sanitari e sociali;
  • la partecipazione della comunità locale, delle associazioni di volontariato, dei pazienti e dei caregiver.

Obiettivi che –l’abbiamo già sottolineato– vengono incontro al bisogno di tutela complessiva, di presa in carico polidisciplinare e di assistenza multimodale espresso dalle persone fragili (in particolare anziane e non autonome).

I principi di base che orientano lo sviluppo delle CdC sono, peraltro: l’equità di accesso e di presa in carico; la qualità della assistenza declinata nelle varie dimensioni della appropriatezza, sicurezza, coordinamento/continuità, efficienza.

Infine, per garantire la capillarità e il massimo di prossimità delle prestazioni erogate si prevede la costituzione di una rete di assistenza territoriale sulla base del modello Hub and Spoke.

Sia nella versione Hub che in quella Spoke le CdC costituiscono l’accesso unitario fisico, per la comunità di riferimento, ai servizi di assistenza primaria e di integrazione sociosanitaria.

La modulazione di tali servizi varia, ovviamente, in termini di quantità e di diversità tipologica a seconda della appartenenza della CdC alla fattispecie Hub o a quella Spoke.

La prima di esse garantisce (anche mediante il ricorso alla telemedicina) un nutrito insieme di servizi (vedi Tabella 1).

Tabella 1: I servizi di una CdC Hub

Equipe multi professionali (MMG, PLS, Servizio di Continuità Assistenziale, specialisti ambulatoriali, infermieri e altre figure sanitarie e sociosanitarie)

Presenza medica h 24 – 7 giorni su 7 – anche attraverso l’integrazione con la Continuità Assistenziale

Presenza infermieristica h 12 -7 giorni su 7

Punto Unico di Accesso (PUA) sanitario e sociale

Punto prelievi

Programmi di screening

Servizi diagnostici finalizzati al monitoraggio della cronicità (ecografo, elettrocardiografo, retinografo, spirometro, …) anche attraverso strumenti di telemedicina

Servizi ambulatoriali specialistici per le patologie ad elevata prevalenza (cardiologo, pneumologo, diabetologo, …)

Servizi infermieristici, sia in termini di prevenzione collettiva e promozione della salute pubblica inclusa l’attività dell’infermiere di famiglia e comunità, sia di continuità di assistenza sanitaria, per la gestione integrata delle patologie croniche

Sistema integrato di prenotazione collegato al Centro Unico di Prenotazione (CUP) aziendale

Servizio di assistenza domiciliare di base

Partecipazione della comunità e valorizzazione della co-produzione attraverso le associazioni di cittadini e di volontariato

La dimensione Spoke si caratterizza sia per una minore ricchezza dell’offerta sia, però, anche per essere -in quanto maggiormente capillarizzata sul territorio- la sede privilegiata per sviluppare una forte collaborazione (valorizzando la co-progettazione) con le associazioni del volontariato di prossimità.

Allo scopo di rendere più tempestiva la realizzazione delle CdC tutte le strutture fisiche territoriali -afferma il documento AGENAS- devono rientrare nella progettazione della nuova geografia dei servizi e delle strutture territoriali e, quindi, delle CdC.

Con ciò si intende promuovere, giustamente, una vasta azione di ristrutturazione, ri-conversione, ri-orientamento di tutto ciò che può essere oggetto di una diversa configurazione spaziale e funzionale.

La specificazione concreta della numerosità delle tipologie delle CdC da attivare spetta, poi, inevitabilmente, alle singole autonomie regionali e locali.

 

Il coordinamento delle “Case della Comunità” con i servizi territoriali

Recita il documento AGENAS: Le CdC sono un nodo centrale della rete dei sevizi territoriali sotto la direzione del Distretto. La loro centralità è data:

  • sul lato del governo della domanda, dalle funzioni di medicina di iniziativa, di presa in carico, di accesso unitario, di filtro e di indirizzo dei pazienti;
  • sul lato dell’offerta, dal lavoro multi professionale, dall’integrazione tra unità di offerta afferenti a materie e discipline diverse, dal coordinamento tra sociale e sanitario;
  • sul lato della governance, dal coinvolgimento attivo della comunità e dei pazienti.

La CdC, proprio per il suo ruolo centrale nella rete dei servizi territoriali, adotta meccanismi di coordinamento a rete in quattro direzioni:

  • rete intra-CdC: costituita dalla messa in rete dei professionisti che svolgono la loro attività, sia nelle forme associative che hanno sede fisica all’interno delle CdC, sia con quelle che vi sono funzionalmente collegate;
  • rete inter-CdC: costituita dalla messa in rete tra CdC hub e CdC spoke, sia al fine di contemperare le esigenze di capillarità erogativa e di prossimità con la necessità di raggiungere una massa critica per alcuni servizi a maggiore intensità specialistica e tecnologica, sia per poter rispondere in modo flessibile ai diversi contesti geografici e di densità abitativa e a differenti gradienti di presenza attiva dei MMG nelle strutture ambulatoriali delle CdC;
  • rete territoriale: la CdC è messa in rete con gli altri setting assistenziali territoriali, quali assistenza domiciliare, ospedali di comunità, hospice e rete delle cure palliative, RSA e altre forme di strutture intermedie e servizi;
  • rete territoriale integrata: la CdC è in rete con l’attività ospedaliera anche grazie all’ausilio di piattaforme informatiche. Questo può avvenire nella doppia direzione di invio di pazienti selezionati dalla CdC, per fasi di processi assistenziali e stadi di patologia che richiedono prestazioni ospedaliere ambulatoriali specialistiche, ma anche di presenza di medici ospedalieri presso la CdC. Tale forma di integrazione e coordinamento ha una maggiore valenza soprattutto in merito alla gestione comune dei malati cronici più complessi e ad alto grado di instabilità, che sono soggetti a frequenti ricoveri.

Il Coordinamento fra queste, quattro articolazioni di Rete è assicurato da uno specifico servizio: la Centrale Operativa Territoriale (COT). Peraltro il responsabile organizzativo di ogni CdC è un direttore di Distretto”.

In conclusione, il documento esplicita le cinque macro-funzioni, principali che qualificano l’operatività delle CdC (Tabella 2).

Tabella 2: Le macro funzioni che qualificano la CdC

La CdC è:

il luogo dove la comunità, in tutte le sue espressioni e con l’ausilio dei professionisti, interpreta il quadro dei bisogni, definendo il proprio progetto di salute, le priorità di azione e i correlati servizi

il luogo dove professioni integrate fra loro dialogano con la comunità e gli utenti per riprogettare i servizi in funzione dei bisogni di comunità, attraverso il lavoro interprofessionale e polidisciplinare

è il luogo dove le risorse pubbliche, tipicamente organizzate per silos disciplinari o settoriali, vengono aggregate e ricomposte in funzione dei bisogni della comunità, superando segmentazioni e vincoli contabili, attraverso lo strumento del budget di comunità

è il luogo di integrazione delle risorse della comunità che vengono aggregate alle risorse formali dei servizi sanitari e sociali

è il luogo dove la comunità ricompone il quadro dei bisogni locali sommando le informazioni dei sistemi informativi istituzionali con le informazioni provenienti dalle reti sociali”

Ci si consenta una osservazione: è palese come il soggetto protagonista delle sopra elencate funzioni sia la Comunità. Entità evocativa, ma assolutamente astratta, romanticamente considerata come una sorta di demiurgo capace di assicurare qualità, efficacia, efficienza e appropriatezza alle attività che la CdC (per l’appunto) deve svolgere. Occorre pertanto integrare questa visione con una robusta dose di soluzioni organizzative, gestionali e operative.

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“Missione 6” del PNRR

La CdC rientra nella prima delle due componenti che connotano la Missione 6 (Salute) ovvero, la costruzione di reti di prossimità, strutture intermedie e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale.

In questa prospettiva, la CdC è destinata a diventare lo strumento attraverso cui coordinare tutti i servizi offerti (in particolare ai malati cronici.). La CdC è una struttura fisica in cui opera un team multidisciplinare di MMG, PLS, medici specialisti, infermieri di comunità, altri professionisti della salute e può ospitare anche assistenti sociali (che gentile concessione !!). La CdC è finalizzata a costituire il punto di riferimento continuativo per la popolazione, anche attraverso una infrastruttura informatica, un punto prelievi, la strumentazione polispecialistica e deve garantire la promozione, la prevenzione della salute e la presa in carico della comunità di riferimento. Fra i servizi di pertinenza è previsto, in particolare, il PUA.

Le indicazioni formulate dal PNRR sono, ovviamente, assai meno puntuali e tecnico-organizzative di quelle espresse dal Documento AGENAS e si collocano, infatti, all’interno di una visione pianificatoria strategica di amplissimo respiro, primariamente destinata a far comprendere quale sia l’impegno finanziario sotteso a ciascun investimento. Con un limite evidente: si tratta di spesa in conto capitale a cui si correlano standard quantitativi di ordine strutturale. Così, per le CdC, si prevede un costo complessivo di 2 miliardi di Euro finalizzato alla edificazione di 1.288 CdC (potendosi utilizzare, sia strutture già esistenti, sia nuovi edifici).

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Il posizionamento della Casa della Comunità nel contesto storico- fattuale già esistente

È probabilmente noto ai più, ma pare non del tutto, inutile ricordare come la elaborazione AGENAS sopra sunteggiata non sia una visione del tutto nuova, assolutamente originale, di una prospettiva di ri-ingegnerizzazione delle Cure Primarie che guarda al futuro per allestirvi una inedita tipologia di servizi scaturita dalla creatività progettuale degli esperti dell’Agenzia.

Al contrario, la CdC si innesta su di un percorso normativo e sperimentale di consolidamento di modelli organizzativi, gestionali e operativi assai simili –abbondantemente radicati in non poche Regioni che hanno assunto, in genere, la denominazione di “Case della Salute”.

Ricordiamone, brevemente, la storia

Si inizia a parlare di Case della Salute (CdS) in epoche remote: nel 1972 –ancora lontani dalla riforma del Servizio Sanitario Nazionale (legge 833/1978)- con un articolo del Prof. Maccararo (per Medicina Democratica) nel dibattito culturale pre-riforma, il tema di una medicina a dimensione comunitaria, non solo curativa, già tracciava una ipotesi di sviluppo alternativo.

Non se ne fece nulla, fino al 2002, quando la Regione Toscana decise di riprenderlo in considerazione, sperimentando un modello che esaltava, certamente, uno sforzo aggregativo dei servizi sanitari territoriali, ma soprattutto la prospettiva di farli convivere, integrandoli, con i servizi sociali comunali e con le risorse disponibili presenti nelle Comunità locali.

Poi, nel “Piano sanitario nazionale 2003/2005” si rafforza l’impegno dell’intero Sistema Sanitario nel voler dare maggiore consistenza ai servizi territoriali, sanitari e sociali, prestando particolare attenzione al come rendere sempre più protagonisti delle “Cure Primarie” i MMG e i PLS.

Infine, il Decreto Balduzzi (Dl 158/2012) che, accanto alle AFT si propone la attivazione delle UCCP chiamate ad erogare prestazioni assistenziali tramite il coordinamento e la integrazione di professionisti delle Cure Primarie e del sociale a rilevanza sanitaria tenuto conto delle peculiarità delle “aree territoriali” (metropolitane, oppure con popolazione sparsa). Le UCCP, recita ancora il Decreto, rappresentano una sorta di “poliambulatori dotati di strumentazione di base, aperti al pubblico per tutto l’arco della giornata, che operano in coordinamento e in collegamento telematico con le strutture ospedaliere”. Una visione, onestamente riduttiva, sia perché riferita a strutture destinate ad accogliere solo i professionisti delle Cure Primarie (tralasciando tutti quelli appartenenti alle sedi decentrate dei grandi dipartimenti aziendali, Prevenzione e Salute mentale) sia perché stretti in una versione aggiornata dei poliambulatori specialistici di Distretto; appena, appena arricchiti dalla presenza di operatori sociali e da collegamenti telematici con la struttura ospedaliera.

E però, nei dieci anni che vanno dal 2002 al 2012, alcune Regioni hanno deciso autonomamente di dar corso alla istituzione di CdS più fedelmente ispirate all’originario assetto sperimentale della Regione Toscana.

Nasce, così, un orientamento, culturale e organizzativo, che è teso al consolidamento di una visione assai simile (direi, quasi coincidente) a ciò che, attualmente viene riproposto dalla CdC.

Ad esempio, un carattere distintivo come la integrazione professionale multidisciplinare, sostanziata nella creazione di equipe composte da operatori sanitari, sociosanitari e sociali, è identicamente presente, sia nelle esperienze già consolidate della CdS, sia nella prospettiva di realizzazione della CdC. Inoltre la connotazione comunitaria di quest’ultima (il luogo fisico […] dove la comunità può accedere) configura il superamento di un approccio assistenziale esclusivamente rivolto a singoli pazienti, abbisognevoli di cure, per introdurre, invece, la dimensione di una assistenza rivolta a bisogni di salute collettivi e alla tutela del benessere comunitario attraverso lo sviluppo di ampli progetti di prevenzione primaria. Inoltre, la Comunità può divenire protagonista non solo passiva (oggetto di interventi dedicati) ma anche attiva profondendo, all’interno della CdC, mediante le risorse della società civile (prevalentemente incarnate nell’associazionismo volontario) una disponibilità operativa capace di ampliare l’offerta assistenziale di prossimità in quei contesti dove le sole risorse pubbliche non sono sufficienti od appropriate.

Tutto ciò è già implicitamente contenuto nel concetto di salute -e non di cura e assistenza- che qualifica, per l’appunto, la CdS, ed è esplicitamente riscontrabile nelle modalità concrete di funzionamento evidenziate dalle realtà già da tempo attive.

Dunque, ci si consenta di operare una “crasi” semantica denominando la struttura erogativa qui considerata come: “Casa della Salute/Comunità”.

In buona sostanza, alla luce delle esperienze maturate durante i processi costitutivi delle CdSsi può affermare che, se prima del loro avvento, il cittadino che presentava un problema di salute trovava, separatamente: il MMG; il PLS; i medici di continuità assistenziale; il poliambulatorio specialistico; l’ospedale; i consultori, i Sert; i servizi di salute mentale e di prevenzione nelle loro articolazioni periferiche; i servizi sociali comunali. Dopo l’attivazione della “Casa” il cittadino può far riferimento, in soluzione unitaria, ad una struttura che assicuri molto di ciò di cui ha bisogno, realizzando un sistema integrato che si riprende cura della persona, in termini olistici, attraverso: l’accoglienza interprofessionale sociosanitaria; la collaborazione e l’integrazione fra i professionisti; la condivisione dei percorsi assistenziali; l’autonomia e la responsabilità professionale; la valorizzazione delle competenze; la valutazione congiunta dei risultati; la tempestività delle risposte; l’appropriatezza e la essenzialità delle forme assistenziali erogate e/o proposte; il ruolo, innovativo e fondamentale, del personale infermieristico; la cooperazione sinergica con le risorse del volontariato; …

In tal modo si punta a superare radicalmente: la dispersione territoriale delle sedi; la frammentarietà dell’offerta; l’assenza di una organizzazione che sviluppi una logica di rete; la ridotta disponibilità oraria; l’isolamento dei professionisti; il ping-pong del cittadino fra servizi, sportelli e singoli operatori, alla ricerca di una qualche risposta.

Dunque, la sintesi del paradigma organizzativo e operativo che qualifica in termini di particolare innovazione la proposta assistenziale insita nella Casa della Salute/Comunità si sostanzia nei termini illustrati nella Tabella 3.

Tabella 3: il paradigma operativo della Casa della Salute/Comunità

Accoglienza e orientamento verso i servizi sanitari, sociosanitari e socio assistenziali più appropriati

Assistenza sanitaria, di base e specialistica, per far fronte a problemi ambulatoriali urgenti

Completamento dei principali percorsi diagnostici e terapeutici che non richiedono il ricorso al ricovero ospedaliero

Presa in carico e gestione delle patologie croniche mediante un approccio integrato interprofessionale e polispecialistico

Implementazione della medicina di iniziativa

Attivazione, attorno ai casi più diffusi e complessi di lunga assistenza, di modalità di intervento che coinvolgono sia le risorse familiari che quelle rintracciabili nel contesto comunitario di riferimento

Di questa impostazione daremo, peraltro, uno spaccato puntuale facendo riferimento alla concreta esperienza maturata nella realtà della Azienda Sanitaria Locale (ASL) di Parma, con particolare attenzione alla riorganizzazione della medicina di base, allo sviluppo delle CdS (nel contesto emiliano-romagnolo, certamente, ma con peculiare riferimento alla originalità parmense) ad iniziative di acculturazione e di formazione per i cittadini e i professionisti, alla integrazione con alcuni servizi territoriali extra-Casa della Salute e con l’ospedale.

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L’implementazione organica e sistemica della rete dei servizi territoriali di Cure Primarie

Dalle esperienze maturate sulla base delle modalità di funzionamento delle CdS già operanti e, in particolare, delle criticità rilevate nel rapporto fra i pazienti domiciliarizzati e i MMG durante la tragica emergenza COVID, emerge con forza la necessità di allargare l’orizzonte di una visione progettuale che non contempli soltanto l’implementazione dell’offerta assistenziale assicurabile dalle “Case della Salute/Comunità”, ma proponga anche una nuova, più ampia e organica prospettiva di integrazione fra queste ultime e le forme più elementari di aggregazione dei MMG: le “Medicine di Gruppo”.

Durante lo tsunami pandemico è stato, infatti, denunciato con enfatica angoscia lo scollamento dei MMG dalla restante configurazione organizzativa dei servizi, sia territoriali che ospedalieri.

Assai spesso, non per una diretta responsabilità degli stessi medici, bensì come conseguenza di una insufficiente attenzione che la governance distrettuale dedica alle forme di una loro, prima, integrazione all’interno delle dinamiche assistenziali (sanitarie e sociosanitarie).

Da questa, palmare, evidenza occorre, dunque, partire per ipotizzare –nel mentre ci si attrezza per ridisegnare il futuro- una incisiva ridefinizione del peso specifico del ruolo dei MMG all’interno della organizzazione delle Cure Primarie, perseguendo una duplice finalità:

  • renderli davvero i principali punti di riferimento di ogni cittadino dalla culla alla bara, aggiungendo alle tradizionali funzioni (da medico curante) anche quelle che attivano prese in carico precoci, assicurando interventi di prevenzione e promozione della salute, da un lato, e intensificano la quantità e la qualità del loro apporto all’interno dei percorsi di lungo-assistenza, dall’altro;
  • collocare il MMG (nelle sue forme associative) al centro dello sviluppo della rete dei servizi territoriali, divenendo esso stesso l’artefice di una linea di innovazione tipologica che può rappresentare uno dei più originali punti di ricaduta della esperienza pandemica.

Dati questi presupposti, i MMG –variamente aggregati- devono essere incardinati in termini più organici all’interno della organizzazione distrettuale, attraverso modalità che li coinvolgano: nella definizione dei contenuti della Programmazione delle attività territoriali; nella lettura epidemiologica del territorio; nella valutazione comparata dei livelli di appropriatezza clinica; nella realizzazione delle linee di sviluppo delle attività di prevenzione primaria; nella estensione del loro ruolo all’interno dei processi di integrazione professionale (sempre di più assicurati da una interoperabilità informatica)ecc.

L’esperienza nella Regione Emilia-Romagna e nell’ASL di Parma

Dagli anni ’90 nel nostro Paese e anche in altri paesi europei (ad esempio Regno Unito e Spagna) ha avuto luogo una lenta ma inesorabile rivoluzione nel setting professionale dei MMG. Era iniziato infatti, seppur con tempi, modalità e intensità differenti, un processo spontaneo di “adattamento creativo al cambiamento” (Giorgio Monti, 2008) come ragionevole risposta ai mutamenti della società civile e in particolare di quella anziana, in netta crescita, avviata verso un percorso di maggior aspettativa di vita, ma in condizioni di crescente fragilità. L’evoluzione scientifica, digitale e tecnologica della medicina mettendo a disposizione nuovi strumenti di diagnosi e cura aveva spalancato nel frattempo nuovi inesplorati orizzonti. Ciò che fino ad allora si faceva non era più sufficiente a garantire cure eque e proporzionali. In Emilia Romagna le prime forme associative fra MMG sono sorte nel 1993-1994 a Cesena e Rimini come Medicina di Gruppo (MdG) poi nel 1995 a Reggio Emilia in forma cooperativa, successivamente a Parma e in altre provincie. Il cambiamento che ha coinvolto, nell’attività professionale dei MMG, sia l’aspetto organizzativo che quello formativo, ha ispirato una medicina di iniziativa volta all’affronto della complessità dei problemi e delle cure secondo un modello ritenuto efficace e proveniente da oltreoceano (Chronic Care Model).

Nel contempo si andava delineando una nuova strategia politico-sanitaria nel contesto, prima regionale e, poi, aziendale, con lo scopo di cogliere il valore e volgere a sistema le innovative e spontanee aggregazioni fra MMG con la creazione dei Nuclei di Cure Primarie prime aggregazioni funzionali ufficiali nell’ambito dei Distretti. In qualche caso (laddove presenti spazi adeguati) le MdG venivano ospitate all’interno delle strutture ambulatoriali aziendali di Cure Primarie già esistenti. Iniziava così una vera e propria coabitazione non solo fra MMG ma anche e soprattutto fra tutti gli attori delle Cure Primarie: specialisti ambulatoriali, infermieri, tecnici, servizi socio-sanitari, servizi di prevenzione e cura, personale amministrativo. Già allora la letteratura di oltreoceano individuava la coabitazione di medici in strutture sanitarie come catalizzatore di intesa e integrazione. Cosi in Emilia – Romagna quando la DGR 291 del 1.4. 2010 Linee guida sulle Case della Salute stabiliva che cosa fossero e dovessero diventare questi luoghi di aggregazione strutturale e organizzativa fra tutti gli attori delle Cure Primarie, in molte provincie della regione esse erano già una realtà in embrione, pronta al battesimo ufficiale.

Dal 2010, in particolare, gli obiettivi richiesti alla Medicina Generale dalla ASL sono stati:

  • contribuire alla realizzazione della programmazione delle CdS;
  • confermare l’unicità del proprio ruolo clinico e di integratore delle Cure Primarie;
  • promuovere la condivisione di percorsi assistenziali strutturati anche tra medicina del territorio e medicina ospedaliera;
  • perseguire il corretto utilizzo delle risorse disponibili;
  • consolidare le relazioni attraverso l’informatizzazione orizzontale e verticale;
  • partecipare alle iniziative di prevenzione ed educazione alla salute.

Si può ragionevolmente sostenere che i tempi siano, dunque, maturi per trasformare le MdG in un vero e proprio, nuovo “servizio di Cure Primarie”.

A premessa, occorre sottolineare come si stia facendo primariamente riferimento a MdG di piccole e medie dimensioni (composta da un numero di medici oscillante fra le 5/6 e 8/9 unità). Quelle di maggiori dimensioni (dalle 10/11 unità alle 19/20 unità) devono, infatti, trovare collocazione all’interno delle “Case della salute/comunità”.

La qual cosa evidenzia come la presente riflessione sia finalizzata a comprendere, innanzi tutto, come le MdG che non trovano posizionamento all’interno delle “Case” e che mantengano una loro unicità ed autonomia -in prevalenza, nelle zone meno densamente popolate e più periferiche del Paese- possano divenire una componente, organicamente integrata, nell’ambito delle soluzioni reticolari già ipotizzate dal documento AGENAS.

Ciò presuppone, in via preliminare, di preconizzare quale possa (debba) essere la modulazione degli interventi che vada ad arricchire l’offerta assistenziale complessiva della MdG.

Si ipotizza un up-grade proponibile per le MdG, nei termini seguenti:

  • Le condizioni di accesso – per 6 giorni la settimana- sono assicurate da una apertura del servizio pari a 12 ore diurne pro-die;
  • Nella rimanente parte della giornata e durante il week-end intervengono, poi, i medici di Continuità Assistenziale. È quanto mai opportuno che questi trovino collocazione all’interno degli stessi locali della MdG, usufruendo delle loro infrastrutture di supporto –soprattutto informatiche- e rendendo plasticamente visibile ai cittadini la unitarietà integrata fra le due, diverse, modalità, diurna e notturna, di prima risposta al bisogno. Concentrazione e continuità devono, peraltro, favorire una più stretta condivisione delle problematiche rilevate, a partire dal passaggio digitalizzato delle informazioni;
  • La vera area di espansione dell’offerta si realizza, però, promuovendo un significativo innesto di altre figure professionali dedicate alla erogazione di un insieme di prestazioni, ampio e multifunzione, volto ad intercettare primariamente un ventaglio assai più articolato di bisogni. Ovviamente, un simile cambiamento non può che essere adeguatamente programmato, divenire oggetto di indirizzi formalizzati, entrare nel novero dei costi da budgetizzare, costituire una componente del sistema informativo e, attraverso di questo, venire monitorato e valutato in termini di risultati ottenuti.

Tutto ciò deve essere assicurato dal soggetto organizzativo a cui compete la progettazione e gestione delle Cure Primarie quali componenti essenziali dei servizi di territorio: ovvero il Distretto e/o – secondo il modello regionale– il “Dipartimento delle Cure Primarie”.

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Le condizioni strutturali, organizzative e operative che supportano la nascita e il funzionamento delle nuove Medicine di Gruppo

Cerchiamo di indicare sinteticamente, per punti, quali siano i processi costitutivi e i contenuti dell’offerta assistenziale che qualificano questa new-entry che si articola in più contesti operativi e si avvale di figure professionali di diversa estrazione allo scopo di erogare un ventaglio più ampio di prestazioni.

Ad esempio:

  1. Un insieme di attività amministrative supportate da idonei applicativi software in rete con il sistema informatico/digitale della Azienda Sanitaria Locale. Si tratta, in particolare, di:
  • prescrizioni farmaceutiche on-line (quando non vi provveda direttamente il medico) oppure consegna delle ricette cartacee;
  • prenotazione visite (compresi gli accertamenti diagnostici) fungendo da postazione in rete con l’applicativo Centro Unico di Prenotazione – CUP (al riguardo, questa prestazione –raramente eseguita- verrebbe ad esserlo nei termini in cui, da tempo, la effettuano le farmacie dei servizi);
  • funzione di segreteria per la gestione degli appuntamenti relativi a tutti i vecchi e nuovi servizi presenti nella MdG;
  • recall telefonico (o telematico) per i pazienti inseriti all’interno dei percorsi di continuità assistenziale di cui i MMG sono titolari;
  • svolgimento di pratiche amministrative che attengono al funzionamento della MdG (a partire dal rapporto con fornitori di beni e servizi);
  1. Un set di prestazioni infermieristiche, da quelle programmate e periodiche (in quanto previste in ambito di continuità assistenziale) a quelle collegate a piccole emergenze, oppure ad esigenze stagionali (ad esempio iniezioni prescritte con riferimento a patologie tipicamente invernali):
  • medicazioni ricorrenti (per periodi più o meno lunghi);
  • somministrazione di farmaci che richiedono l’uso di device di una certa complessità;
  • esecuzione di triage osservazionali (nelle MdG di medie dimensioni) per brevi periodi di tempo, allorquando i sintomi denunciati dal paziente non siano di immediata interpretazione;
  • monitoraggio dello stato di salute di pazienti segnalati come fragili (con periodicità fissa o solo in alcuni periodi dell’anno – ad esempio durante i caldi mesi estivi).
  1. L’attivazione di prese in carico per pazienti di cui si siano riscontrate peculiari, evidenti necessità. Se, fino ad ora, pressoché ovunque, i medici del gruppo (affiancati, semmai, dalla segreteria) orientavano i pazienti (e i loro familiari) a recarsi presso uno specialista, oppure a richiedere un ricovero ospedaliero, oppure a recarsi presso i servizi e/o gli sportelli da cui dipende l’attivazione di una Assistenza Domiciliare Integrata, nella prospettiva di innovazione che stiamo prospettando, la MdG -per il tramite di figure infermieristiche e sociali- si fa carico di tali incombenze realizzando un rapporto diretto –da servizio a servizio- e ponendo il paziente all’interno di una dimensione organizzativamente e operativamente protetta. Con ciò la MdG diviene un punto unico di accesso. Inoltre, gli operatori sociali fisicamente ubicati nei locali delle MdG divengono il punto di collegamento primario con le eventuali risorse del volontariato di prossimità. Ciò allo scopo di stabilire forme organiche di collaborazione utili, sia per ampliare o migliorare alcuni setting assistenziali (soprattutto riferibili alla assistenza domiciliare di persone fragili) sia per incentivare azioni collettive finalizzate alla promozione di attività di prevenzione primaria.
  2. L’esecuzione di accertamenti diagnostico-strumentali (analitici e per immagini). Si possono prospettare diverse modulazioni in rapporto alle dimensioni –piccole o medie- della MdG. Ad esempio:
  • Per quanto concerne le analisi cliniche si può ipotizzare una dotazione del tipo point of care (in uso presso i pronto soccorso) oppure, una modalità strutturata di collaborazione (invio dei pazienti, ritorno della refertazione) con farmacie dei servizi (in particolar modo, in contesti in cui la sede della MdG è adiacente ad una farmacia attrezzata allo scopo).
  • Per quanto riguarda le diverse fattispecie delle telediagnostiche (telecardiologia e telesperometria, innanzitutto) le opzioni sono sostanzialmente le medesime: dotazioni strumentali, presenti nella sede della MdG collegate con i centri specialistici di refertazione; oppure, ricorso ad una farmacia dei servizi, attrezzata e contigua (con cui stipulare convenzione). Anch’esso, ovviamente, supportata da centri specialistici per la lettura da remoto.
  • È, peraltro, ipotizzabile che medicine di medie dimensioni vengano dotate anche di ecografi, abilitati alla esecuzione di un pool di accertamenti preliminarmente stabiliti in sede programmatoria e fruibili su prenotazione.
  1. Il miglioramento dell’annoso problema delle visite a domicilio, sempre meno garantite dai MMG. Durante la pandemia, per impossibilità, carenza di direttive, mancanza di volontà o dichiarata contrarietà, un numero consistente di MMG non ha eseguito visite al domicilio dei propri pazienti (affetti o meno da COVID). La soluzione contingente che è stata adottata in pressoché tutte le Regioni (sulla base di una decretazione governativa) ha assunto i caratteri delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA); ovvero, nuclei di giovani medici (molti ancora in formazione) e infermieri a cui è stato assegnato il compito di contrastare l’esplodere o l’aggravamento dei casi COVID, con ciò evitando il più possibile il ricorso al ricovero ospedaliero. Questo approccio ha ottenuto, in genere, un notevole successo, dimostrando ancora una volta l’efficacia di un appropriato e tempestivo intervento di natura territoriale e rappresentando un buon esempio di come si possa prospettare un modo meno tradizionalmente ossificato di fare medicina generale. Superata l’emergenza pandemica, le USCA potrebbero, quindi, mantenere un ruolo di affiancamento ad una, o più, MdG, allo scopo di sostituire i MMG in esse operanti nell’incombenza di fornire risposta tempestiva alle richieste di visita domiciliare espresse dai loro pazienti (in particolare, se fragili e stabilmente domiciliarizzati). In tal modo, strutturando le modalità di una tale collaborazione -che integra e non sostituisce l’impegno olistico e la responsabilità complessiva del MMG nei confronti dei propri assistiti- si otterrebbe un duplice risultato positivo: da un lato, viene ad essere finalmente superata quella endemica rarefazione delle visite domiciliari che molto disagio crea nei pazienti e tanto affollamento (veicolo di propagazione infettiva) provoca nelle sale d’attesa delle MdG; dall’altro, il binomio MMG/USCA, può rappresentare una modalità, integrata e complementare, per fornire una risposta più completa e soddisfacente ai bisogni di assistenza senza far perdere al medico titolare del rapporto fiduciario la visione costantemente aggiornata dello stato di salute dei propri pazienti.
  2. La risposta immediata a piccole emergenze che si configurano come codici bianchi. La compresenza, nelle 12 ore diurne, di più medici e unità infermieristiche -supportati da una diagnostica strumentale semplice ma essenziale– consente di affrontare problemi di modesta entità improvvisamente comparsi nelle condizioni di salute di qualche assistito. Dalla osservazione breve della evoluzione dei sintomi, all’apposizione di punti di sutura, alla effettuazione di elettrocardiogrammi in modalità “tele”, alla somministrazione di farmaci per via endovenosa, si configura un set di prestazioni che le MdG possono erogare fungendo da filtro allo scopo di impedire accessi inappropriati presso i Pronto Soccorso ospedalieri.

Dalle considerazioni appena formulate si deduce una prima, necessaria, variazione al documento AGENAS, lì, ove, enuncia il “Coordinamento strutturale a Rete” della CdC contemplandone quattro direzioni:

  • fra i professionisti interni alla CdC;
  • fra questa e altri setting assistenziali di territorio;
  • fra CdC e servizi ospedalieri;
  • nella Rete Hub and Spoke fra le CdC appartenenti a diversi livelli di complessità.

Ora, pare opportuno approfondire questa, ultima, fattispecie alla luce, sia della estensione delle relazioni di Rete anche alle MdG (intese come le pietre miliari della riorganizzazione delle Cure Primarie) sia di una articolazione delle Case della Salute/Comunità, in strutture di piccole, medie e grandi dimensioni. In questa prospettiva si individuano, pertanto, cinque livelli di complessità.

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Le Case della Salute / Comunità

Ne proponiamo una esemplificazione che richiama, in parte, quanto già indicato poc’anzi in merito allo sviluppo delle MdG e, in parte, fa riferimento ad esperienze già consolidate di CdS regionali.

  • Dunque, il primo livello coincide con le MdG di piccole dimensioni (5/6 MMG) re-ingegnerizzate in un vero e proprio, nuovo, servizio di Cure Primarie. L’assistenza medico generica h 12 e l’infermieristica elementare; alcune diagnostiche di base (per il tramite della telemedicina); il PUA; il supporto di segreteria; la attivazione di percorsi di assistenza sanitaria e sociale (con particolare riferimento alle domiciliarità); l’implementazione delle visite a domicilio tramite le USCA.
  • Il secondo livello, comprende le MdG di medie dimensioni (7/10 MMG) nelle quali l’offerta si può arricchire di una osservazione breve infermieristica, di diagnostiche ecografiche, dell’apporto dell’infermiere di comunità.
  • Il terzo livello consiste nella offerta delle Case della Salute/Comunità di medie dimensioni (10/12 MMG). Alle prestazioni già elencate con riferimento alla MdG si possono aggiungere, in linea di massima: la presenza ostetrico-consultoriale; l’attività ambulatoriale specialistica (con un numero relativamente limitato di specialità di larga fruizione: cardiologia, pneumologia, oculistica, dermatologica, otorino, …), il segretariato sociale di base, il coordinamento infermieristico ADI.
  • Il quarto livello (Case della salute/Comunità di medie dimensioni, fino a 16 MMG) ricomprende, oltre ai servizi sopraelencati, anche: l’arricchimento del set delle prestazioni specialistiche (neurologia, gastroenterologia, …) il consultorio familiare, la pediatria di comunità, un punto di attivazione di percorsi assistenziali sociosanitari integrati (abbinato a un segretariato sociale di maggiore complessità) l’attività delle Unità di Valutazione Multidimensionale”, le vaccinazioni e le attività di screening più diffuse (eseguite dalle articolazioni periferiche del Dipartimento di Prevenzione). La popolazione di riferimento si attesta attorno alle 20/25.000 unità.
  • Il quinto livello coincide con le Case della salute/Comunità di grandi dimensioni. Queste rappresentano l’Hub della Rete inter–case e vi trovano collocazione MdG composte da circa 17/25 MMG. Il livello della “offerta” si alza in modo decisivo allo scopo di fornire il massimo di risposte assistenziali non ospedaliere alla popolazione di riferimento (dalle 30.000 alle 50.000 unità). Vi troviamo lo sportello unico CUP, il servizio infermieristico domiciliare, l’ambulatorio infermieristico (prevalentemente per le persone anziane) una offerta medico specialistica ancora più nutrita (oncologia, endocrinologia, ortopedia, chirurgia generale, …), diagnostiche radiologiche di base, un segretariato sociale complesso (che cura anche i rapporti con le associazioni di volontariato), i punti informativi e l’Ufficio Relazioni col Pubblico, l’ufficio attivazione Fascicolo Sanitario Elettronico (ove già disponibile), l’assistenza protesica, il servizio diabetologico, l’ambulatorio cure palliative, il polo odontoiatrico, la prestazione di emergenza/urgenza (nelle realtà periferiche). A queste prestazioni che appartengono a servizi territoriali di pertinenza distrettuale, altre se ne possono aggiungere, erogate dalle articolazioni decentrate del Dipartimento di Prevenzione e di Salute mentale. Si tratta, delle attività vaccinali e di screening (ulteriori, rispetto a quelle già effettuabili nel livello di media complessità: ad esempio, tutte le vaccinazioni non obbligatorie; lo screening del colon retto, …) e di quelle ambulatoriali relative ai Centri di Salute Mentale e ai Servizi per le dipendenze patologiche.

L’esperienza nella Regione Emilia-Romagna e nell’ASL di Parma

Nella empiria organizzativa ed operativa delle CdS dell’ASL di Parma troviamo, peraltro, la conferma, sul campo, delle indicazioni testé formulate. Riscontriamo, infatti, come l’elemento centrale del modello emiliano-romagnolo è rappresentato dalla ricerca del miglioramento dellassistenza, da perseguire attraverso lintegrazione tra professionisti dellarea sanitaria e dellarea sociale con l’obiettivo di garantire la continuità assistenziale e prossimità delle cure. Le Case della Salute favoriscono una migliore presa in carico degli utenti offrendo risposte certe ai bisogni di salute dei cittadini, con particolare riferimento alla gestione di patologie croniche. In ogni Casa della Salute opera, infatti, un team interdisciplinare in grado di fornire prestazioni cliniche di qualità e una vasta gamma di interventi specialistici, preventivi e di promozione della salute. Questi i principi organizzativi delle CdS:

  • facilità di accesso alle cure (tempestività della risposta, facilità di comunicazione con i professionisti, …);
  • coinvolgimento del paziente nelle scelte e nella gestione delle cure;
  • coordinamento delle cure (tra i diversi professionisti);
  • continuità dell’assistenza (tra differenti livelli organizzativi);

La gestione dei pazienti anziani, fragili, con una o più patologie croniche e con carico assistenziale elevato avviene attraverso la loro presa in carico negli ambulatori delle cronicità e nella Assistenza Domiciliare Integrata che prevede, a seconda del livello, le Equipe Territoriali che operano in team coordinati dal MMG. Vi sono ambulatori dedicati a Diabete Mellito, Scompenso Cardiaco, BPCO, Cure Palliative, gravi patologie neurologiche (SLA) e psichiatriche (Progetto Leggieri) nei quali lo specialista ambulatoriale di riferimento e il MMG collaborano nella gestione dei percorsi specifici di cura delineati a livello regionale. La presa in carico e il monitoraggio della quasi totalità dei pazienti in Terapia Anticoagulante Orale avviene sul territorio negli ambulatori dei MMG o direttamente a domicilio in accordo con il Centro Emostasi ospedaliero.

Quando l’assistenza a pazienti fragili anziani e pluripatologici e a pazienti con patologie oncologiche croniche con un elevato carico assistenziale non può essere erogata a causa di condizioni cliniche complesse, o di un contesto sociale/familiare inadeguato (ad esempio assenza del caregiver) inadeguato, esiste per il MMG la possibilità di avvalersi dell’attivazione della degenza in strutture di cure intermedie ad alta intensità di assistenza infermieristica (h24). Allo stesso modo i pazienti in dimissione ospedaliera per risoluzione del fatto acuto, ma ancora non autosufficienti, possono essere accettati in cure intermedie per una riabilitazione di un periodo non superiore ai 30 gg. In questo caso attraverso l’Unità di Valutazione Geriatrica che integra il proprio intervento con l’ospedale per decidere tempi e modi della dimissione, si attiva una procedura di Dimissione difficile, o protetta che garantisce da subito cure e presidi adeguati.

In ragione di ciò, si integrano con le Cure domiciliari, sia gli hospice che offrono un’alta e qualificata assistenza infermieristica, sia gli ospedali di comunità (spesso contigui alle Case della Salute).

In questi ultimi i posti letto sono a direzione infermieristica (responsabile della gestione). Il MMG è invece il responsabile clinico-terapeutico del paziente ricoverato. Sono eleggibili:

  • Pazienti anziani affetti da patologie acute o croniche riacutizzate, che per disagio sociale o scarso supporto familiare, non possono essere curati al domicilio, ma possano giovarsi, a giudizio clinico del Curante, di degenza alternativa al ricovero ospedaliero;
  • Pazienti sottoposti a chirurgia ortopedica e bisognosi di trattamento riabilitativo (Protesizzazione d’anca o di ginocchio, sintesi per frattura del femore o del bacino);
  • Pazienti internistici, non neurologici, con necessità di riabilitazione o di riattivazione motoria, per consentire il rientro al domicilio dopo ricovero in reparto per acuti;
  • Pazienti terminali non disponibili a ricovero presso Hospice.

Per quanto attiene, invece, all’integrazione con l’assistenza ospedaliera, nell’ASL di Parma si è inaugurata, sperimentalmente, la presenza delle Unità Mobili Multidisciplinari. Questo servizio, di recente attivazione, presenta un particolare interesse, poiché anticipa (in tempi non sospetti, peraltro) con un livello di specializzazione professionale decisamente superiore, ciò che –durante la pandemia– ha dato sostanza alla esperienza delle USCA. Le Unità Mobili Multidisciplinari rappresentano, infatti, nella modalità pilota del modello Parma, una sorta di estroflessione della assistenza ospedaliera; una sua delocalizzazione mobile, che con 4 auto e 4 equipaggi (composti da infermiere, geriatra, pneumologo, infettivologo, …), si reca al domicilio di pazienti abbisognevoli di una assistenza complessa. Tale modello fa già scuola ed è oggetto di pubblicazioni scientifiche. Oltre 600 sono stati gli accessi domiciliari e 1500 le procedure diagnostiche nel 2019. Numeri analoghi nel 2020 in aggiunta a oltre 2000 prestazioni Covid. Si contano, inoltre, 75 accessi in Case Residenze Anziani. Visite al domicilio con strumenti per emogasanalisi, spirometria, ECG, eventuale prelievo per esami e tampone molecolare, ecografia torace, addome, ecocardio. Gli interventi si effettuano su segnalazione dei MMG e le terapie vengono con questi condivise. Molti i vantaggi: evitare l’ospedalizzazione e nel contempo erogare direttamente al domicilio e in modo tempestivo accertamenti strumentali, visite specialistiche e terapie. Infine, per le situazioni più critiche e complesse, fornire la possibilità di accesso diretto in reparto per accertamenti e ricoveri urgenti, con bypass del Pronto Soccorso.

Infine, tornando ad una proposta modellistica fortemente caratterizzata dalle dinamiche della integrazione interdisciplinare e multi professionale, possiamo proporre (per le Case della Salute / Comunità Hub di grandi dimensioni) l’attivazione di alcune Aree:

  • l’area della prevenzione e promozione della salute (gruppi di educazione alla salute; progetti di Comunità su sana alimentazione, attività motoria, fumo, alcool; prevenzione obesità infantile, campagna “screening” e vaccinazioni, …);
  • l’area del benessere riproduttivo, cure perinatali, infanzia e giovani generazioni (percorso nascita, IVG, sterilità; percorso maltrattamento e abuso sui minori; progetto adolescenza; prevenzione violenza domestica e sessuale; …);
  • l’area della prevenzione e presa in carico della cronicità (gruppi sui corretti stili di vita; lettura del rischio cardiovascolare; Budget di salute; identificazione e presa in carico della popolazione fragile; attività fisica adattata; PDTA condizioni croniche nell’adulto (diabete, scompenso, ipertensione, BPCO); gestione infermieristica pro-attiva delle criticità; formazione caregiver; …);
  • l’area della “non autosufficienza” (disturbi cognitivi e programma demenze, programma SLA; percorsi sociosanitari salute mentale; prevenzione cadute in casa; formazione del Care giver, …).

Questa particolare offerta assistenziale (già praticata in alcune esperienze) rappresenta la cifra più distintiva della originalità delle future Case della Salute/Comunità.

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Gestione e criteri di funzionamento

Il documento AGENAS indica due soggetti organizzativi a cui compete curare la gestione delle CdC: la Centrale Operativa Territoriale (COT) e il responsabile organizzativo di ogni CdC.

Pare opportuno, in questa sede, proporre un qualche approfondimento; innanzitutto nell’intento di comprendere in qual modo i criteri di funzionamento delle “Case della salute/comunità” possano essere progettati e monitorati.

Si propone di istituire, allo scopo, un Board composto dai Responsabili di ogni CdC, dal responsabile della COT e dal Direttore di Distretto. Occorre, infatti, provvedere, ad esempio, alla definizione delle modalità regolative dei rapporti fra la CdC, gli altri servizi territoriali e l’ospedale per quanto riguarda il passaggio dei pazienti (all’interno di percorsi di continuità assistenziale, oppure, in soluzione unitaria ed episodica) attivando un flusso, informativo di andata e ritorno. Vanno, poi, precisate: le funzioni che competono agli Hub nel loro rapporto con le CdC Spoke (per quanto concerne, ad esempio, le refertazioni richieste da tele-diagnostiche o l’attivazione di teleconsulti); le procedure per la presa in carico breve di pazienti che possono essere avviati ai percorsi facilitati che consentono di risolvere, all’interno della CdC, i problemi di salute manifestati; la standardizzazione dei contenuti di un governo clinico e di una prassi assistenziale che assicurino la stessa risposta -da parte dei servizi che qualificano l’offerta- a parità di bisogno, in qualsivoglia CdC si sia rivolto il paziente; la standardizzazione delle procedure di accesso; i criteri attraverso cui rapportarsi con le Amministrazioni Comunali per stipulare accordi e condividere responsabilità; le modalità mediante le quali cercare il coinvolgimento -partecipativo e operativo– dell’associazionismo volontario.

Alla struttura dedicata alla gestione unitaria delle CdC compete, poi, di monitorarne il funzionamento e di effettuare la valutazione dei risultati da esse ottenuti. Valutazione che deve riguardare gli out-put prodotti (in termini quantitativi) nel rispetto delle previsioni progettuali e gli out-come di salute, la qual cosa presuppone la predefinizione di indicatori oggettivi e soggettivi. Infine, la misurazione del rapporto fra i costi sostenuti e i benefici economici riscontrati (a seguito delle modalità assistenziali più appropriate espresse dalle CdC). Anche questo tipo di valutazione richiede la predisposizione di specifici indicatori.

Tutto ciò è possibile solo se:

  • la CdC si inserisce a pieno titolo -come uno dei principali erogatori di servizi territoriali- nelle piattaforme di reti internet che aggregano tutti i fornitori di prestazioni operanti in un dato contesto regionale allo scopo di alimentare i Fascicoli Sanitari Elettronici dei cittadini residenti;
  • La CdC -in quanto nodo di queste reti- possa ricevere, in formato digitale, tutti i dati relativi ai pazienti che accedono ai propri servizi, con ciò consentendo una piena integrazione -organizzativa e professionale- con le altre strutture assistenziali che popolano la offerta complessiva dei sistemi sanitari e sociosanitari regionali. In questa prospettiva il passo immediatamente successivo consiste nel poter ricevere e trasmettere dati anche ai servizi sociali comunali.

Oltre a ciò, è assolutamente necessario che tutti i servizi all’interno di ogni CdC e tutte le CdC compresenti nella Rete che le accoglie (dislocate nei 3 livelli di complessità) siano messi nelle condizioni di essere facilmente dialoganti.

Da questa, prima, conquista, il passo successivo non può che consistere nella interoperabilità con le MdG presenti negli stessi territori di riferimento.

I dati clinico-assistenziali così raccolti nell’ambito di ogni CdC consentono peraltro, da un lato, di effettuare comparazioni fra le performance (out-put e out-come) ottenute da ciascuna di esse; dall’altro -essendo, le CdC centri di responsabilità, titolari di budget, articolati in una pluralità di centri di costo -di incrociare tali dati con i fattori produttivi (personale, beni e servizi) che generano costi e, quindi, di valutare il livello di efficienza produttiva raggiunto da ciascuna di esse.

Il processo costitutivo di una Casa della Comunità

In conclusione, nel delineare il processo costitutivo di una CdC possiamo distinguere quattro, fondamentali, campi di elaborazione progettuale:

  1. Il primo, riguarda la previsione del fabbisogno di risorse umane e strutturali. Una volta stabiliti i contenuti assistenziali dell’offerta e le modalità delle loro erogazioni (attraverso la standardizzazione del governo clinico poc’anzi citato) è, infatti, possibile prevedere le corrispondenti dotazioni, sia di personale (modulate in relazione alle diverse professionalità) che tecnologiche. Inoltre, sulla base della numerosità delle une e delle caratteristiche e consistenza delle altre, nonché in rapporto alla previsione dei percorsi interni e degli spazi da dedicare, tanto ai singoli servizi, quanto al confort dei pazienti, si potrà definire un modello dimensionale di massima per ciascuno dei tre livelli di complessità (da personalizzare progettualmente, è ovvio, in ragione del fatto che le sedi siano edificate ex-novo, oppure conseguono alla ristrutturazione di strutture pre-esistenti).
  2. Il secondo, concerne due aspetti finalizzati a supportare (pur con logiche del tutto diverse) la crescita qualitativa del funzionamento della CdC. Si tratta della acculturazione e formazione del personale -considerato nella sua globalità- rispetto ad alcuni, basilari, principi informatori della mission ad essa attribuita. Si tratta, ad esempio, di sottolineare le essenzialità: del lavoro di equipe, nella versione larga che promuove la integrazione sociosanitaria; del lavoro per obiettivi, valutabili e misurabili; della comunicazione, orientata a sviluppare l’enpowerment del paziente; della ricerca del massimo di appropriatezza (clinica e organizzativa); della conseguente responsabilizzazione sull’uso essenziale delle risorse; della considerazione da dare ai temi della sicurezza e del risk-managment; delle strategicità insita nella promozione di nuove possibilità di presa in carco e di continuità assistenziale entro cui sviluppare una particolare attenzione alla pro-attività. Tutti gli argomenti sopra elencati possono (devono) essere oggetto di iniziative di formazione permanente rivolta a “classi” necessariamente multi professionali.
  3. Il terzo campo elaborativo riguarda la predisposizione di un piano specificamente mirato alla infrastrutturazione informatica di tutte le comunicazioni interne ed esterne alla CdC (nei termini poc’anzi accennati). Se l’architettura generale di tale connettività può essere il frutto di una prospettazione elaborata in sede regionale, la sua applicazione concreta al tessuto informatico preesistente -relativo ai servizi confluiti all’interno della CdC– non può che essere il risultato di una configurazione progettuale puntiforme.
  4. Il quarto campo elaborativo concerne, infine, le forme di cooperazione che la CdC deve instaurare con soggetti terzi, esterni al Sistema Sanitario locale. Essi possono essere sia di ordine istituzionale sia appartenenti al mondo delle risorse espresse dalla Comunità locale. Nel primo caso, si fa riferimento pressoché esclusivo alle Amministrazioni Comunali. Per predisporre puntuali forme di collaborazione occorre che le governance dell’ASL e quelle del/degli Enti Locali coinvolti forniscano ai Direttori di Distretto e ai Responsabili delle CdC e dei servizi comunali interessati un vero e proprio mandato istituzionale nel quale siano indicate le aree di elaborazione progettuale da cui far scaturire percorsi di integrazione sociosanitaria. Così, ad esempio, per quanto riguarda: le modalità dell’accesso alla CdC; la definizione delle condizioni operative del segretariato sociale; i rapporti interprofessionali nella costruzione di percorsi di continuità assistenziale fra la CdC e le strutture residenziali e semiresidenziali per la popolazione anziana e disabile; la elaborazione congiunta del Piano Assistenziale Individuale (PAI) relativo alle persone fragili e/o non autosufficienti. È, infine, indispensabile concentrare il focus dell’attenzione sul come definire le strategie utili per coinvolgere a tutto tondo le risorse del volontariato di prossimità. Attraverso la formula della co-progettazione e della co-programmazione, è possibile elaborare congiuntamente prospettive di gestione condivise di servizi e attività assistenziali che, in una visione organica e sistemica, promuovano quei processi di integrazione, fra risorse professionali e del volontariato, che –passo dopo passo- possono dare visibilità concreta alla creazione del Welfare di Comunità. Nasce, così, una assistenza –formale e informale– comunque centrata unitariamente sulla capacità di capillarizzare quelle svariate forme di sostegno di cui hanno massimamente bisogno le persone fragili.

Per realizzare gli impegni sopra accennati appare, conseguentemente, indispensabile affiancare al responsabile di ogni CdC, altri soggetti, portatori di conoscenze ed esperienze che risultino fondamentali nel definire i contenuti programmatori e progettuali poc’anzi illustrati.

Si può ipotizzare la costituzione di un “Board” composto, innanzitutto, dall’infermiere Case Manager (a cui competerà il monitoraggio della corretta applicazione di tutti i processi di integrazione progettualmente previsti), dai responsabili dei servizi operanti nella CdC e dalle rappresentanze di una serie di professionisti (MMG, infermieri, specialisti territoriali, operatori sociali, …) le cui competenze risultano preziose per puntualizzare tutti i contenuti relativi ad un governo clinico e assistenziale sociosanitario condiviso.

Le competenze tecniche relative agli aspetti concernenti la ristrutturazione dei sistemi informatico/ digitali di supporto, o la elaborazione di modelli dimensionali confortevoli, o la predisposizione di provvedimenti amministrativi di genere vario, oppure la definizione di percorsi formativi mirati, dovranno essere recuperate in ambito aziendale ed essere messe a disposizione -in una logica di temporaneo affiancamento in staff– del Direttore di Distretto e dei responsabili delle “Case della salute/Comunità”.

L’esperienza nell’ASL di Parma

Di tale esigenza si ha concreta testimonianza nella esperienza della ASL di Parma. In questa realtà, infatti, la rivoluzione organizzativa verso le Case della Salute ha fruito anche di supporti clinici e strategici orientati alla qualità delle cure.

Nel 2005 all’ASL è stata offerta la possibilità di avvalersi della collaborazione di Jefferson University of Philadelphia (Prof. Vittorio Maio) che ha sortito l’elaborazione dei profili di nucleo di Cure Primarie. Questi profili trimestrali si avvalgono di indicatori di trattamento malattia (con riferimento alla qualità di: IMA, scompenso, colesterolo, diabete, asma-BPCO; all’utilizzo dei servizi sanitari: assistenza ospedaliera, farmaceutica, specialistica, domiciliare; alla appropriatezza terapeutica nell’anziano; alla aderenza alla terapia; al riconoscimento tempestivo dei pazienti con alto rischio di ospedalizzazione) e hanno offerto a ciascun MMG la possibilità di migliorare la qualità delle cure, di farne oggetto di confronto con colleghi, di misurare gli esiti, di monitorare l’utilizzo delle risorse e il rischio di ospedalizzazione.

Nel 2010 CERISMAS (Università Cattolica del Sacro Cuore Milano) ha organizzato il corso Verso le Case della Salute, da cui trarre una formazione mirata alla definizione di un background comune per i diversi team e alla implementazione della integrazione utilizzando un comune linguaggio interpretativo.

Dal 2017-2018 il Progetto RiskER (Prof. Maio) consente ai MMG, attraverso una stratificazione del rischio elaborata con indicatori (età, sesso, patologie, accertamenti diagnostici, accessi in pronto soccorso, ricoveri), di individuare i pazienti a molto alto, alto e medio rischio di ospedalizzazione per i quali si rende utile l’elaborazione di un Piano Assistenziale Integrato di rischio (condiviso con team e distretto) che contiene valutazione di bisogni e strategie di cura personalizzate.

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Considerazioni conclusive di ordine generale

Dalle considerazioni svolte appare evidente come l’idea, assolutamente semplicistica, di rispondere alle esigenze di potenziamento dei servizi territoriali -emersa durante la pandemia- attraverso la pura e semplice costruzione di un consistente numero di CdC utilizzando i cospicui finanziamenti europei, rappresenti solo una prospettiva propagandistica.

I fondi comunitari sono, certamente, una premessa assai rilevante per poter realizzare cospicui investimenti edilizi e tecnologici -con l’incognita gigantesca rappresentata, peraltro, dal non sapere se esista la corrispondente disponibilità delle risorse finanziarie di spesa corrente indispensabili per acquisire i fattori produttivi (personale, beni e servizi) necessari per consentire il funzionamento della CdC- ma la re-impostazione qualitativa della offerta assistenziale affidata alle Cure Primarie deve contemplare lo sviluppo di processi, organizzativi gestionali e operativi di ben altra complessità. Distinguendo fra:

  • le realtà regionali dove esiste già una consolidata tradizione di CdS e le cui prospettive di crescita passano attraverso la implementazione delle Reti, che (come si è sottolineato poc’anzi) coinvolgono al loro interno non solo le future CdC, ma anche le “MdG” rivisitate.
  • Le realtà regionali che non hanno maturato una precedente esperienza di tal genere (se non per una qualche, puntiforme, strutturazione) e che devono essere aiutate a recuperare il tempo perduto mediante la predisposizione di percorsi attuativi che tengano conto della replicabilità delle migliori realizzazioni già consolidate.

Si tenga ben presente, al riguardo, come un tale approccio non può esaurirsi (la storia della implementazione degli assetti organizzatici insegna) nella mera presentazione del già fatto, ma richiede la predisposizione di una vera e propria metodologia della riproducibilità che indichi con chiarezza i passaggi che sostanziano le fasi del processo costitutivo, le difficoltà da superare a partire dalla osservazione e valutazione delle realtà esistenti, i fattori strategici (umani, strutturali e tecnologici) da considerare e le volontà istituzionali da mettere in campo allo scopo di personalizzare l’approccio progettuale a cui è affidato il compito di modellare le esperienze di riferimento in rapporto al contesto specifico in cui replicarle.

In buona sostanza, il tutto richiede -nell’un caso come nell’altro- un potente sforzo elaborativo, fondato si di una visione strategica espressa dalle istituzioni regionali e locali e alimentato dal concorso di professionalità, culture, punti di vista e competenze rintracciabili sia all’interno del sistema sia al suo esterno, nelle espressioni della società civile di riferimento.

Non si può, dunque, sfuggire da un preliminare, potente impegno programmatorio/progettuale.

Occorre esserne, fin da ora, consapevoli e attrezzarsi allo scopo. Cercasi, quindi, cabine di regia competenti, sapientemente costituite. I tempi non saranno brevi e il percorso, comunque, risulterà complesso.

Le scorciatoie sono pura illusione.

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Acronimi

  • AFT: Aggregazione Funzionale Territoriale
  • AGENAS: Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali
  • BPCO: bronco pneumopatia cronico ostruttiva
  • CdC: Casa della Comunità
  • CdS: Case della Salute
  • COT: Centrale Operativa Territoriale
  • CRA: casa residenza anziani
  • CUP: Centro Unico di Prenotazione
  • IMA: Infarto Miocardico Acuto
  • MMG: Medico di Medicina Generale
  • PDTA: Percorso Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale
  • PLS: Pediatra di Libera Scelta
  • PNRR: Piano nazionale per la ripresa e la resilienza
  • PUA: Punto Unico di Accesso
  • RSA: Residenza sanitaria assistenziale
  • SLA: sclerosi laterale amiotrofica
  • UCCP: Unità Complessa di Cure Primarie
  • UMM: unità mobili multidisciplinari
  • USCA: Unità Specialistica di Continuità Assistenziale

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Normativa di riferimento

Piano sanitario Nazionale 2003/2005

DL n°158 del 2012 (Decreto Balduzzi)

Camera dei Deputati: “documentazione e ricerche – Case della salute ed ospedali di comunità: i presidi delle cure intermedie”

Documento AGENAS. “Modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel S.S.N.”

Missione 6 del PNRR: “investimento 1.1.-CdC e presa in carico della persona”

DRG 291/2010 della Regione Emilia-Romagna:” Linee guida sulle Case della Salute”

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Bibliografia di riferimento

Capitolo 4: L’assistenza territoriale di Mara Morini e Fosco Foglietta, in “Rivoluzione Covid” (a cura di Fosco Foglietta), TABedizioni, 2019, Roma

Capitolo 5: In quale direzione promuovere la integrazione – paragrafo Quattro ambiti strutturali e/o organizzativi in cui si possono concentrare le modalità della integrazione, in “Covid e fragilità” (a cura di Fosco Foglietta) TABedizioni, 2021, Roma

Casa della salute e presidi territoriali di assistenza – lo stato dell’arte, in CREA sanità, 2020, Roma

Le Case della Comunità: cosa prevede il PNRR, in Politiche e governo del welfare, di Franco Pesaresi, 2021

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