Capitolo 1 – “La fragilità in una prospettiva di Sanità Pubblica”

Capitolo 1 – “La fragilità in una prospettiva di Sanità Pubblica”

Gianfranco Damiani, Maria Benedetta Michelazzo, Paola Arcaro, Kadjo Yves Cedric Adja, Alessandra Buja, Maria Pia Fantini

Indice del capitolo

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1.1 Contesto

L’età della popolazione mondiale sta rapidamente aumentando. Secondo le proiezioni del rapporto “World Population Ageing 2020″ del Dipartimento per gli affari economici e sociali delle Nazioni Unite, entro la metà del secolo si avrà un numero di persone over 65 anni superiore al doppio rispetto a quello rilevato nel 2020 (United Nations, 2020). Si prevede, infatti, che la quota di persone anziane nella popolazione globale aumenti dal 9,3% nel 2020 al 16,0% nel 2050. Lo stesso report nel 2019 aveva stimato che gli over 80 sarebbero cresciuti ancora di più, triplicando entro lo stesso periodo (United Nations, 2019). La speranza di vita media a 65 anni sarà aumentata globalmente di 19 anni rispetto ad oggi. Inoltre, anche se le donne vivono oggi 4,8 anni più degli uomini, questo divario di genere dovrebbe ridursi nei prossimi tre decenni.

L’invecchiamento della popolazione potrebbe complessivamente determinare una problematica di sostenibilità per il sistema economico, con ripercussioni anche sull’assistenza sanitaria. Secondo l’“Aging Report 2021” della Commissione Europea, l’invecchiamento della popolazione può rappresentare un rischio per la sostenibilità del finanziamento dell’assistenza sanitaria in due modi (European Commission, 2021). In primo luogo, in molti Stati membri dell’Unione Europea (UE), l’assistenza sanitaria pubblica è in gran parte finanziata dai contributi di previdenza sociale della popolazione attiva. In futuro, molte meno persone contribuiranno a finanziare l’assistenza sanitaria pubblica. L’indice di dipendenza degli anziani è previsto, infatti, in forte aumento nel lungo periodo, con meno di due persone in età lavorativa per ogni persona over 65 entro il 2070; questo, nonostante l’aumento di partecipazione al mercato del lavoro previsto per donne e over 55 (European Commission, 2021). In secondo luogo, se l’aumento della longevità non si accompagnerà a un miglioramento dello stato di salute, aumenterà la domanda di servizi per un periodo più lungo della vita. Secondo le ultime rilevazioni Eurostat del 2020, nell’UE la percentuale di anni di vita vissuti in buona salute rappresenta, rispettivamente, il 76,7% e l’81,4% dell’aspettativa di vita per le donne e per gli uomini (Eurostat, 2021). Questo significa che il resto dell’aspettativa di vita è caratterizzato da una cattiva salute: patologie croniche e disabilità che, se non ben compensate e prese in carico, possono determinare un aumento della domanda di servizi sanitari. L’aumento stimato dei costi complessivi legati all’invecchiamento riguarderà, infatti, soprattutto il settore dell’assistenza sanitaria e della long-term care. All’interno della categoria delle persone con una o più condizioni croniche, è possibile, inoltre, identificare un sottogruppo di cronici complessi che, seppure numericamente esiguo, è responsabile di una larga maggioranza delle spese relative all’assistenza sanitaria (ad esempio, il 5% delle persone assistite negli USA assorbe circa il 50% delle risorse (Long, 2017)). Tali spese derivano, nella maggior parte dei casi, dagli elevati costi di ospedalizzazioni ripetute e prolungate, causate dalla presenza in varia combinazione di multiple patologie croniche e situazioni di non-autosufficienza di vario grado, gestite in maniera non ottimale (Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, 2019).

Ad aggravare ulteriormente la spesa sanitaria, cresciuta molto più velocemente di quanto suggerito dai cambiamenti nella struttura demografica, nella morbilità e nel reddito, contribuisce anche lo sviluppo di nuove tecnologie. Diversi autori attribuiscono, infatti, al cambiamento tecnologico dal 27% fino al 75% della crescita della spesa sanitaria nei paesi industrializzati. La valutazione costo-efficacia delle nuove tecnologie è, in questo senso, una strategia determinante (Sorenson, 2013; European Commission, 2021).

Lo scenario che si delinea da quanto detto finora è, quindi, quello di una popolazione che progressivamente invecchia, caratterizzandosi per un aumento delle patologie croniche e degli anni di vita trascorsi in cattiva salute. Parallelamente, è atteso un aumento della spesa sanitaria dovuto alla crescita dell’indice di dipendenza degli anziani, alla maggiore domanda di assistenza sanitaria e alla crescita delle tecnologie.

Infine, l’infezione da SARS-CoV-2, diffusasi rapidamente tra la popolazione in tutto il mondo, ha impattato enormemente sulla capacità dei vari sistemi sanitari di affrontare e gestire le malattie non trasmissibili. In particolare, la pandemia ha determinato, da un lato, un aumento del rischio di complicanze e mortalità nelle persone con cronicità affette da COVID-19 (Geng, 2021; Alyammahi, 2020), dall’altro, una ridotta disponibilità di risorse per il funzionamento dei servizi legati alla prevenzione, cura, riabilitazione e palliazione delle condizioni croniche, perché impegnate nel fare fronte ai bisogni di salute collegati alla diffusione dell’infezione (World Health Organisation, 2020).

La tragica esperienza del COVID-19 ha portato, quindi, i sistemi sanitari a ridefinirsi e rimodellarsi nel breve periodo, cercando nuove logiche di flessibilità che riuscissero a far fronte nell’immediato alle necessità emergenti. Al contempo, ha fatto maturare la consapevolezza di dover rendere stabili e strutturali questi cambiamenti, al fine di consentire una gestione pronta ed efficace di eventuali future pandemie.

Solo sistemi sanitari che valorizzino tutte le loro componenti (sanità pubblica, assistenza primaria, assistenza ospedaliera), dando a ciascuna lo spazio che gli è proprio, potranno vincere le sfide che i nuovi scenari epidemiologici impongono. In particolare, quando si affrontano problematiche di natura cronico-degenerativa, è cruciale il ruolo del territorio, inteso come il luogo dove le persone vivono e dove dovrebbero trovare risposta alla maggior parte dei loro problemi di salute. Per rafforzare il ruolo del territorio, sanità pubblica e assistenza primaria devono lavorare efficacemente insieme. Storicamente, i due settori presentano forti affinità, collaborazioni, ma anche sovrapposizioni, a seconda del contesto in cui ci si trova (Pratt, 2017).

Per definizione, la sanità pubblica, intesa come “l’arte e la scienza di prevenire le malattie, prolungare la vita e promuovere la salute attraverso lo sforzo organizzato della società”, mira a fornire condizioni in cui le persone possano mantenere la salute, migliorarla o prevenirne il deterioramento (Acheson, 1988). La sanità pubblica si concentra sull’intero spettro della salute e del benessere, non solo su azioni di prevenzione o gestione di particolari malattie, attraverso, ad esempio, l’implementazione di programmi educativi, raccomandando politiche di salute, amministrando i servizi sanitari e conducendo analisi valutative e ricerche.

L’assistenza primaria è il primo livello di contatto e presa in carico da parte del sistema sanitario. Al suo interno si possono distinguere una componente prettamente erogativa (primary care) e una componente sistemica (primary health care). Oggi, la primary care può essere definita come “il primo livello di assistenza professionale in Europa, dove le persone presentano i loro problemi di salute e dove la maggior parte delle esigenze sanitarie curative e preventive della popolazione sono soddisfatte” (World Health Organisation, 2015). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce, invece, la primary health care: “Un approccio alla salute dell’intera società che mira a massimizzare il livello e la distribuzione della salute e del benessere attraverso tre componenti: (a) cure primarie e funzioni di salute pubblica come nucleo dei servizi sanitari integrati; (b) politiche e azioni multisettoriali; e (c) persone e comunità responsabilizzate” (World Health Organisation & UNICEF, 2020).

L’integrazione tra assistenza primaria e sanità pubblica è ritenuta una delle chiavi per affrontare l’invecchiamento della popolazione e il diffondersi delle malattie croniche non trasmissibili [World Health Organization 2020-1]. L’attività integrata di sanità pubblica e assistenza primaria dovrebbe fondarsi sulla valutazione del bisogno di salute di popolazione; tale attività permette la suddivisione della popolazione nelle due macrocategorie dei “soggetti sani o apparentemente sani” e dei “soggetti con una o più condizioni croniche” ulteriormente classificabili per età, livello di autosufficienza e stadio evolutivo della patologia. Entrambe queste categorie possono essere destinatarie di interventi di presa in carico on plan, che si differenziano in attività principalmente di promozione della salute e medicina preventiva per la popolazione dei soggetti sani o apparentemente tali (ad esempio, campagne di vaccinazione, screening oncologici di comprovata efficacia) e in attività di prevenzione, cura e assistenza per persone con condizioni croniche. La proattività è un elemento essenziale di questo quadro: indica la capacità del sistema di andare incontro alle persone e ai loro bisogni di salute, prima ancora che questi vengano espressi.

Quanto descritto finora è, dunque, il contesto generale nel quale si colloca il tema della fragilità. Ci si chiederà perché si è deciso di parlare del contesto, prima ancora di definire il tema stesso della fragilità. Il motivo è che l’obiettivo di questo capitolo è rispondere a queste domande: perché la sanità pubblica deve interessarsi di fragilità? Quale cornice di senso è necessaria perché la sanità pubblica dia un apporto originale in questo campo?

Sono molteplici i motivi per cui la fragilità è un tema di interesse per la sanità pubblica (Cesari, 2016).

Innanzitutto, si tratta di una condizione ad elevata prevalenza nella popolazione, reversibile nelle fasi iniziali (Rodriguez-Mañas, 2015). È, inoltre, una condizione determinata da perdite in diversi domini (fisico, psicologico, cognitivo, sociale, emotivo, spirituale, economico) (Junius-Walker, 2018; Hoogendijk, 2019) e, per questo, la sua genesi è multifattoriale: è causata, infatti, da diversi determinanti della salute, dall’ambiente al contesto sociale, dall’accessibilità ai servizi sanitari alla condizione abitativa. In aggiunta, è un predittore indipendente di importanti esiti negativi legati alla salute delle persone, come disabilità, ospedalizzazione, istituzionalizzazione, morte. Infine, le evidenze emergenti dei legami tra fragilità e malattie che colpiscono anche l’età pediatrica e adolescenziale suggeriscono che questa condizione sia presente anche nella popolazione giovane, sebbene con prevalenza minore (Ribeiro, 2020). Si tratta, quindi, di un tema che, per le sue caratteristiche, può influenzare le scelte di programmazione e le politiche di presa in carico non solo dei singoli individui, ma di un’intera popolazione.

Nei paragrafi seguenti si affrontano i punti salienti relativi al fenomeno e alla sua gestione.

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1.2 Definizione ed epidemiologia del fenomeno

Sebbene non esista ancora una definizione universalmente accettata, si può intendere per fragilità l’aumentato rischio di esiti avversi in soggetti esposti a fattori di stress (Rockwood, 2019). Tale vulnerabilità si fonda su una riduzione multisistemica delle normali funzioni fisiologiche e su una ridotta capacità di ristabilire l’omeostasi (WHO Clinical Consortium on Healthy Ageing, 2017).

Molte delle diverse modifiche fisiopatologiche che portano alla fragilità rimangono tutt’oggi incerte (Hoogendijk, 2019). Alla fine degli anni ’80, Rosenberg coniò il termine sarcopenia per descrivere la perdita di massa magra che si verificava con l’invecchiamento (Rosenberg, 1997). Una delle prime teorie che collega fragilità e sarcopenia risale al 1994, quando Fiatarone e colleghi hanno ipotizzato una connessione tra fragilità e calo della massa muscolare, suggerendo che l’aumento della massa muscolare potesse essere benefico per le persone fragili (Fiatarone, 1994). Tuttavia, sebbene sia stata evidenziata un’associazione tra sarcopenia e fragilità, la fisiopatologia della fragilità sembra essere molto più complessa (Morley, 2013; Fielding, 2011; Cruz-Jentoft, 2010).

Si può fare una considerazione analoga per il rapporto tra fragilità e patologie croniche. Sebbene la presenza di molteplici condizioni croniche sia associata allo sviluppo di fragilità (Palmer, 2018-1; Fried, 2001), quest’ultima non è necessariamente la conseguenza di malattie croniche. Si può, infatti, essere identificati come fragili anche in assenza di cronicità. Inoltre, l’evidenza suggerisce che un trattamento intensivo o eccessivo delle malattie croniche può aumentare i risultati negativi sulla salute nelle persone fragili (Palmer, 2018-2; Palmer, 2016).

Come verrà successivamente approfondito nel Capitolo 9, vari gruppi di lavoro hanno proposto paradigmi diversi per la definizione e la rilevazione della fragilità.

Fried e colleghi, rifacendosi a un paradigma essenzialmente biomedico, hanno identificato il fenotipo della fragilità (si parla, infatti, di “modello fenotipico”). Tale fenotipo è definito sulla base della presenza di tre o più componenti fisiche tra le seguenti: affaticamento, ridotta attività fisica, diminuzione della forza muscolare, lentezza nel cammino e perdita involontaria di peso (≥ 5% nell’anno precedente). Nel caso in cui siano presenti uno o due criteri tra i cinque menzionati, Fried e colleghi introducono, invece, il concetto di pre-fragilità per determinare un quadro clinico intermedio (Fried, 2001).

Nel secondo modello, elaborato da Rockwood e Mitnitski, gli autori hanno individuato una serie di item utili per costruire il “Frailty Index” (Indice di Fragilità): essi comprendono segni, sintomi e test anormali che, a loro giudizio, possono caratterizzare la fragilità (Rockwood, 2007). Il numero complessivo di disturbi presenti in una persona viene diviso per il totale degli item esplorati: più deficit sono presenti, maggiore è la probabilità che l’individuo sia fragile (Rockwood, 2002). Tuttavia, nel calcolo dell’indice di fragilità, non tutti i deficit devono essere necessariamente considerati; è possibile, bensì, fare riferimento anche solo ad un sottogruppo che includa almeno 30 variabili (Cesari, 2014; Searle, 2008).

Infine, nel paradigma bio-psico-sociale, Gobbens e colleghi definiscono la fragilità come “uno stato dinamico che colpisce un individuo che sperimenta perdite in uno o più domini funzionali (fisico, psichico, sociale), causate dall’influenza di più variabili che aumentano il rischio di risultati avversi per la salute” (Gobbens, 2010).

Questa definizione evidenzia come, oltre la dimensione biomedica, lo sviluppo della fragilità rifletta molteplici fattori che contribuiscono alla vulnerabilità sociale (Azzopardi, 2016): i determinanti sociali di salute, come lavoro, educazione, relazioni familiari ed amicali, condizione abitativa, abitudini alimentari e ambiente di vita, possono, infatti, diminuire la capacità intrinseca ed estrinseca di un individuo, rendendolo fragile (Adja, 2020). Inoltre, la capacità di gestire la fragilità da parte dell’individuo e della sua rete sociale influenza una vasta gamma di outcome, come l’istituzionalizzazione e la morte, in modo maggiore rispetto alle compromesse condizioni cliniche dell’individuo e alle ridotte capacità di svolgere le normali attività quotidiane (O’Caoimh, 2016).

La fragilità, benché tendenzialmente connessa all’invecchiamento (Onder, 2018), di cui, peraltro, non rappresenta una conseguenza inevitabile, è una condizione che può riguardare ogni fascia di età (Hanlon, 2018; Pérez-Zepeda, 2021; Lurz, 2018; Panchangam, 2020). L’età evolutiva, in particolare, presenta molte similitudini con l’età geriatrica: fattori ambientali, come lo stato socioeconomico, condizionano la qualità dell’alimentazione, delle condizioni abitative, dell’accesso ai servizi sanitari e di altre variabili che influenzano la sopravvivenza. Altri aspetti comuni riguardano l’ambito clinico-assistenziale: dipendenza, limitazione funzionale, ridotta omeostasi, ridotta capacità di esprimere i propri problemi e maggiore suscettibilità agli stress fisici ed ambientali o a deprivazioni socioeconomiche. La valutazione clinica, infine, richiede per entrambe le fasce di età l’interpretazione di sintomi aspecifici per formulare una diagnosi, la necessità di raccogliere un’anamnesi collaterale, coinvolgendo i membri della famiglia, i caregiver o i tutori (Damiani, 2021).

Altri autori hanno anche portato alla determinazione concettuale e operativa della fragilità cognitiva (Panza, 2015; Solfrizzi, 2019). Secondo un documento di consenso dell’International Academy of Nutrition and Aging, la fragilità cognitiva è uno stato che richiede la presenza di pre-fragilità o fragilità fisica (secondo il Frailty Phenotype), insieme a un lieve deterioramento cognitivo (Mild Cognitive Impairment – MCI), diagnosticato con il Clinical Dementia Rating (CDR) (punteggio 0,5) (Kelaiditi, 2013).

La mancanza di una definizione universalmente condivisa rende difficoltosa la valutazione della prevalenza di questa condizione. La comparazione e la metanalisi dei vari studi sono rischiose, proprio per il fatto che spesso la condizione di fragilità viene misurata con l’ausilio di diverse scale. Ciò nonostante, esistono varie stime della sua prevalenza: risulta più alta nelle donne ed in alcuni gruppi etnici (ispanici ed afroamericani); inoltre, è spesso associata alla presenza di condizioni socioeconomiche sfavorevoli (Cesari, 2016).

Secondo quanto riportato in letteratura scientifica internazionale, tra gli anziani (≥65 anni) che vivono in condizioni di indipendenza nella comunità, la prevalenza di questa condizione oscilla tra il 5% e il 23% (O’Caoimh, 2018), a seconda della definizione a cui si fa riferimento e della popolazione investigata. Tale percentuale risulta più alta nei contesti clinici (Rodriguez-Mañas, 2015), raggiungendo anche l’85% tra i residenti nelle residenze sanitarie assistenziali (Theou, 2016). I pochi studi ambientati in paesi a basso e medio reddito (principalmente America Centrale e del Sud) suggeriscono una prevalenza potenzialmente più alta tra gli anziani di quelle regioni (Aguilar-Navarro, 2012; Alvarado, 2008; Llibre Jde, 2014).

Sebbene non si abbia ancora una definizione universalmente accettata, il valore predittivo della fragilità per esiti negativi è confermato in studi che hanno indagato setting, popolazioni e impiegato strumenti di valutazione diversi (Clegg, 2013). La fragilità si associa, infatti, ad un aumento di sequele negative (Eeles, 2012; Ensrud, 2008; Bandeen-Roche, 2006), come cadute e riduzione dell’autosufficienza (Fried, 2001; Fried, 2004), depressione (Soysal, 2017), fratture (Ensrud, 2007), ospedalizzazione (Milte, 2015), necessità di interventi di lungo assistenza (Fried, 2004), riduzione dei livelli di qualità della vita (Onder, 2018; Fitten, 2015; Rizzoli, 2013), aspettativa di vita limitata (Cardona-Morrell, 2017), morte prematura (Bandinelli, 2010; Buckinx, 2015), delirio e deterioramento cognitivo (Rockwood, 2005).

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1.3 Come intercettare la fragilità

La rilevazione della fragilità può avvenire concettualmente a due livelli: quello del singolo individuo e quello di popolazione. A livello individuale, l’identificazione precoce della condizione di fragilità o pre-fragilità è importante sia per la possibilità di invertire il processo di fragilizzazione, sia per un migliore inquadramento prognostico, conseguente alla messa in atto di interventi appropriati. A livello di popolazione, la stratificazione del rischio di fragilità consente alla governance di sistema di programmare strategie e interventi calibrati per sottogruppi di popolazione individuati, pianificando, al contempo, le risorse necessarie. I due livelli, così come sottolineato anche nel Capitolo 2, risultano sinergicamente connessi e interdipendenti. Secondo l’approccio di Population Health Management (Felt‐Lisk, 2011) e di Population Medicine (Lewis, 2014), per perseguire efficacia ed efficienza, i servizi sanitari devono, infatti, in modo prioritario gestire e garantire la salute dell’intera popolazione, non solo di coloro che richiedono attivamente assistenza (Hibbard, 2017). Solo da questa prospettiva di Sanità Pubblica può conseguire una risposta mirata anche ai bisogni del singolo, attraverso un percorso assistenziale personalizzato sia in termini di prevenzione che di cura, nel rispetto dei principi di equità, centralità della persona e contenimento dei costi.

L’importanza di una stratificazione del rischio è stata ribadita anche da Agenas nel documento “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Sistema Sanitario Nazionale” (Agenas, 2021). In questo documento vengono identificati sei livelli di rischio sulla base di specifici bisogni socioassistenziali che, in ordine crescente, includono:

  • persone in salute;
  • persone con assenza di cronicità/fragilità che utilizzano sporadicamente i servizi;
  • persone con cronicità e/o fragilità e/o disabilità iniziale prevalentemente mono-patologica, perdurante nel tempo e buona tenuta dei determinanti sociali;
  • persone con cronicità/fragilità/disabilità, con patologie multiple complesse, con o senza determinanti sociali deficitari;
  • persone con multimorbilità, limitazioni funzionali, con determinanti sociali deficitari perduranti nel tempo e bisogni assistenziali prevalenti e continuativi di tipo domiciliare, ospedaliero, semi-residenziale o residenziale;
  • persone con patologia evolutiva in fase avanzata, con bisogni sanitari prevalentemente palliativi.

Per ogni livello sono indicate le azioni da intraprendere che vanno dalla promozione della salute, fino alle azioni di presa in carico semplici (Progetto di Salute semplice) e complesse (Progetto di Salute complesso).

Nonostante varie società scientifiche (Royal College of Physicians, 2012; Rolland, 2011; Turner, 2014) raccomandino uno screening mirato per la fragilità, non vi sono evidenze né alcun consenso definitivo sul fatto che debba essere implementato di routine in setting diversi al di sopra di una certa età (Morley, 2013; Rodríguez-Laso, 2018; Ambagtsheer, 2019), o su quali domini dovrebbero essere indagati (Soong, 2016). A ogni modo, come verrà dettagliato nei Capitoli 8 e 9, esistono diversi strumenti per rilevare la fragilità, applicati a livello di singolo individuo o a livello di popolazione attraverso l’utilizzo di dati amministrativi.

Gli strumenti esistenti presentano nel complesso un forte valore predittivo per gli esiti negativi (Theou, 2013), ma l’accordo tra loro è piuttosto modesto. Pertanto, in questo momento, la scelta dello strumento più appropriato dovrebbe basarsi sullo scopo della valutazione, sull’esito per il quale la definizione è stata originariamente valutata, sulla validità dello strumento, sulla popolazione studiata e sul contesto in cui la valutazione sarà condotta (Cesari, 2016). Ad esempio, esistono già numerose esperienze di screening della fragilità attraverso strumenti appositamente costruiti o ripensati per essere applicati in contesti clinici specifici (Lee, 2020).

Un’attenzione particolare va rivolta alla valutazione di sensibilità, specificità e valore predittivo dei vari strumenti in specifici contesti, visto che l’esito dello screening comporta, poi, l’ammissione o l’esclusione da determinate azioni di prevenzione o cura (Santos-Eggimann, 2016). In questo senso, una distinzione importante è da farsi tra strumenti di screening e di diagnosi: si tratta, infatti, di due livelli consecutivi di indagine, per cui è utile adottare strumenti con sensibilità, specificità e valore predittivo differenti, privilegiando la sensibilità nella fase di screening e la specificità nella fase diagnostica (Gilardi, 2018).

Per quanto riguarda lo screening tramite dati amministrativi, diversi modelli di stratificazione del rischio sono già utilizzati nell’ambito del population management, ma non riguardano specificamente il tema della fragilità (Girwar, 2021).

Esistono anche alcune esperienze specifiche sullo screening della fragilità a livello di popolazione. Ad esempio, il sistema sanitario inglese ha avviato un programma di identificazione sistematica della fragilità nei soggetti over 65 attraverso l’utilizzo dell’“Electronic Frailty Index”: tale indice utilizza dati amministrativi per calcolare automaticamente un punteggio correlato alla presenza di vari gradi di fragilità (NHS England, 2017).

In Italia, sono stati sperimentati almeno due indicatori ricavati da dati amministrativi che si sono rivelati capaci di predire esiti di salute negativi, identificando, quindi, una fascia di popolazione che può essere destinataria di interventi volti alla mitigazione o risoluzione della condizione di fragilità (Silan, 2020; Silan, 2019). Sempre in Italia, la Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie (SIMG), in collaborazione con Italia Longeva e con il Karolinska Institutet di Stoccolma, ha recentemente intrapreso un progetto volto alla creazione di un indice della fragilità (l’Health-Search Frailty Index; HS-FI) destinato all’integrazione nel principale software utilizzato dai medici di Medicina Generale (MMG) italiani (Vetrano, 2020). Questo indice si basa su un algoritmo informatico già validato che, analizzando la combinazione di 25 deficit predefiniti (presenza di malattie croniche, limitazioni funzionali, assunzione di specifiche terapie farmacologiche, indicatori di potenziale vulnerabilità sociale, ecc.), permette al MMG di valutare la fragilità dei suoi assistiti e predire il rischio di sviluppare eventi avversi, quali ospedalizzazione, cadute, demenza, disabilità e decesso.

Qualunque sia lo strumento scelto, è essenziale che la fase di individuazione della fragilità possa essere seguita dalla realizzazione di interventi mirati per ridurne l’impatto [Lee 2020].

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1.4 Quali interventi e quali attori

L’OMS definisce “intervento sanitario” ogni “atto eseguito per, con o per conto di una persona o popolazione il cui scopo è quello di valutare, migliorare, mantenere, promuovere o modificare la salute, il funzionamento o le condizioni di salute” (World Health Organization, 2020-2). Ogni intervento può, quindi, avere come destinatari singoli individui o intere popolazioni, e può collocarsi a vario livello nel percorso di vita e di salute di una persona/popolazione.

Se consideriamo gli interventi che hanno lo scopo di prevenire o correggere la fragilità, si ritrovano in letteratura varie tipologie che hanno dimostrato una certa efficacia; tra queste, l’esercizio fisico, interventi nutrizionali (ad esempio, supporto calorico e proteico), revisione terapeutica anche con la finalità di ridurre la polifarmacoterapia, training cognitivo e interventi multicomponenti (Walston, 2018; Apóstolo, 2018).

Nell’ambito degli interventi cosiddetti multicomponenti si ritrovano sia interventi composti da varie tipologie tra quelle sopra citate (in particolare, attività fisica e interventi nutrizionali), ma sempre con una base clinica e rivolti a un numero limitato di soggetti (Jyväkorpi, 2021; Dedeyne, 2017), sia esperienze che hanno come target intere comunità (Seino, 2021).

Alcuni autori parlano, ad esempio, di interventi multifattoriali riferendosi a quegli interventi costruiti sulla persona, sulla base di un profilo di rischio individuale, e di interventi multicomponenti, quando la stessa combinazione di azioni è “somministrata” a una pluralità di soggetti, senza valutazione individuale (Hopewell, 2018). Al di là della tipologia specifica utilizzata, in un’ottica di sanità pubblica interessa definire alcuni principi di metodo, utili per un approccio di ampio respiro alla problematica della fragilità.

Un primo aspetto riguarda la consapevolezza che il modo più efficace per ridurre il carico di una situazione è mettere in atto azioni, quando le condizioni di rischio possono ancora essere reversibili (Cesari, 2016). Nello specifico, bisogna tenere presente che interventi preventivi della fragilità non possono essere ristretti solo a persone anziane: l’approccio deve essere life-course (Gustafsson, 2009). Ad esempio, intervenire sin dalla giovane età con strategie di promozione della salute che includono avere una rete sociale soddisfacente, coltivare i propri hobby, vivere la spiritualità (Kirby, 2004), svolgere attività fisica e adottare sani stili dietetici, come ad esempio la dieta mediterranea (Panza, 2015), può contribuire a prevenire o ritardare l’insorgenza non soltanto della fragilità cognitiva (Solfrizzi, 2017), ma anche della sarcopenia e della fragilità fisica (Ntanasi, 2018). Questi interventi andrebbero proposti in chiave proattiva e non solo come risposta on demand.

Nonostante siano ancora poche le esperienze relative a interventi multicomponenti indirizzati alla fragilità, alcuni autori concordano sull’opportunità di avere un’attenzione verso i determinanti più ampi di salute (Cesari, 2016), soprattutto nelle popolazioni più fragili. A livello europeo, sono stati finanziati numerosi progetti concernenti interventi di ampio respiro sulla fragilità (Liotta, 2018). Si vedano, ad esempio, i risultati incoraggianti del programma “Viva gli Anziani!” della comunità di Sant’Egidio (Comunità di Sant’Egidio, 2015). Senza dubbio, sono necessari approfondimenti sull’efficacia di questi interventi sul lungo termine, ma si tratta di un settore in crescente sviluppo (interventi multicomponenti sono già impiegati nella gestione di altre condizioni cliniche, quali l’obesità infantile (Colquitt, 2016), il consumo di frutta e verdura nei bambini (Hodder, 2020), il consumo di alcol nei giovani (Foxcroft, 2011)). Questo comporta da un lato la pianificazione di interventi organici e inseriti in una programmazione con una prospettiva di lungo periodo; dall’altro, il coinvolgimento di attori secondo una logica di interdisciplinarità, interprofessionalità e intersettorialità.

Il tema delle azioni multicomponenti ci permette di ricollegarci al secondo aspetto centrale nella programmazione di interventi rivolti alla fragilità (cui seguirà un focus di approfondimento nei Capitoli 4 e 8), ossia: quali attori per realizzare questi interventi. C’è sicuramente un gruppo di attori che potremmo definire “professionali”: personale sanitario e del servizio sociale, amministratori locali, responsabili di enti e privati coinvolti nell’erogazione di prestazioni, ecc. Un’azione efficace da parte di attori appartenenti a varie professioni prevede che essi siano adeguatamente formati, sia sulla tematica specifica che sulla modalità di lavoro multiprofessionale. In questo senso, una formazione multidisciplinare, multiprofessionale e multisettoriale fin dai corsi di laurea è più efficace nel creare una mentalità collaborativa, specialmente se accompagnata dalla giusta cornice legale (si pensi alle modalità di rimborso di prestazioni che vedono coinvolti diversi professionisti, che possono costituire un ostacolo alla messa in atto di azioni multiprofessionali) (Morano, 2019). A tal proposito, è disponibile un numero crescente di programmi formativi riguardanti la fragilità e destinati agli operatori sanitari (Windhaber, 2018), che si basano su metodologie di apprendimento interprofessionale (Roller-Wirnsberger, 2020). Ad esempio, in Irlanda, è stato implementato con successo il National Frailty Education Program, che mira a educare sui concetti chiave della fragilità un’ampia gamma di professionisti sanitari operante in tutti i contesti (Lang, 2018).

Come verrà esplicitato nei Capitoli 6 e 7, oltre ai professionisti, c’è senza dubbio anche il gruppo delle persone assistite, dei loro caregiver e della comunità nella quale risiedono: avviare dinamiche di empowerment ed engagement personale e comunitario può favorire una migliore costruzione e adesione agli interventi che vengono condivisi nel piano assistenziale (Chen, 2009).

L’engagement, nell’ambito clinico-assistenziale della cronicità, è un concetto sistemico che identifica e qualifica le possibili modalità di relazione che una persona, con una domanda di salute/prevenzione, assistenza e/o cura, può intrattenere con la sua condizione clinica, il suo caregiver informale (in particolare la famiglia), il professionista sanitario e il team assistenziale nel suo complesso, il contesto organizzativo, il sistema socio-sanitario e il sistema sociale allargato, durante il proprio percorso clinico-assistenziale (Graffigna, 2017). Rappresenta uno strumento trasversale per un’assistenza sanitaria efficace e sostenibile: la ricerca mostra, infatti, come il coinvolgimento attivo dei malati nel processo di cura abbia un impatto positivo su outcome clinici, comportamenti preventivi e costi sanitari (Kinney, 2015; Hibbard, 2013; Greene, 2012).

È necessario, tuttavia, evitare un approccio semplicistico che riduca l’engagement ad una questione individuale, da confinare nell’ambito di un percorso clinico-assistenziale. Bisogna, invece, sviluppare soluzioni sistemiche che favoriscano e supportino l’engagement a molteplici livelli: individuale, interpersonale, organizzativo, socio-comunitario e politico/istituzionale. In particolare:

  • a livello di governance di sistema, attraverso l’adozione di logiche e strumenti di implementazione e valutazione delle policy, capaci di rendere protagonisti assistiti, caregiver e comunità negli interventi sanitari di lunga durata;
  • a livello di produzione dei servizi, attraverso la costruzione di processi e di team assistenziali inclusivi di persone assistite, caregiver e comunità “proattivi” nelle traiettorie di salute, facilitando la predisposizione degli attori e implementando l’assessment.

Si giunge, quindi, al concetto di co-produzione di salute, che sottende ovviamente quello di engagement: un processo che prevede una pluralità di protagonisti nell’offerta di servizi pubblici, in cui accanto allo stato, con i suoi enti pubblici locali, è riconosciuto un ruolo attivo anche ai cittadini e alla comunità di riferimento, in qualsiasi fase del ciclo di produzione (Brandsen, 2016; Nabatchi, 2017).

Il processo di co-produzione include, infatti, molteplici livelli e attività in cui il Terzo Settore può essere coinvolto: dalla co-commissione dei servizi, che comprende la co-pianificazione delle politiche sociali e sanitarie (si pensi alla partecipazione deliberativa), la co-prioritizzazione (i budget partecipativi) e il co-finanziamento (alcune forme di fundraising), al co-design di servizi, alla co-erogazione dei servizi, infine, alla co-valutazione (ad esempio, rating realizzati dagli utenti) (Loeffler, 2013). Da questo costrutto teorico, nasce, quindi, un modello in cui la pianificazione, la gestione e la valutazione dei servizi diventano il risultato di un processo collaborativo, in cui il cittadino, da semplice fruitore passivo, diventa co-produttore (Loeffler, 2018), qualificandosi come risorsa per il sistema e alimentando, in tal modo, il proprio senso di appartenenza ad esso.

Anche se mancano valutazioni sistematiche (Fusco, 2020), diversi studi hanno dimostrato un impatto positivo della co-produzione in ambito sanitario su specifiche dimensioni, quali efficienza degli interventi [Spanò 2018], outcome [Brown 2020], accessibilità ai servizi (Eriksson, 2019), compliance (Mende, 2017), soddisfazione della persona assistita e qualità di vita (Sweeney, 2015; Pham, 2019).

Del resto, per un sistema complesso e adattivo quale quello sanitario, la cui sostenibilità a lungo termine è compromessa dall’evoluzione demografica, dall’innovazione tecnologica, dalla differenziazione e modificazione qualitativa dei bisogni, la co-produzione rappresenta un imperativo per affrontare sfide attuali e future (Voorberg, 2015; Bataladen, 2016).

In linea con quanto esplicitato nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR, 2021) e nella bozza del documento “Modelli e standard per lo sviluppo dell’Assistenza Territoriale nel Sistema Sanitario Nazionale” di Agenas (Agenas, 2021), la Casa della Comunità verrà auspicabilmente a configurarsi come un sotto-sistema aperto dell’Assistenza Primaria che agirà con identità logistica per un network integrato di servizi, volto alla realizzazione di progettualità macro (programmi comunitari) e micro (piani assistenza individuali), con il protagonismo dei diversi stakeholder comunitari. Ne consegue che le future Case della Comunità (approfonditamente descritte nel Capitolo 5, cui si rimanda) rappresenteranno il luogo elettivo in cui sviluppare e realizzare progettualità indirizzate alla fragilità per la contemporanea presa in carico di individui, comunità, spazio ecologico e sociale, attraverso un approccio multidimensionale e trans-disciplinare che non si esaurirà all’interno del perimetro della sua struttura fisica, ma coinvolgerà in maniera interdipendente altri ambiti dell’Assistenza Primaria, inclusi i vari stakeholder comunitari (popolazione, scuola, impresa, etc.).

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1.5 Il ruolo dell’igienista

Quanto illustrato finora è un processo complesso che richiede nuove modalità di lavoro e nuove forme di coordinamento tra diversi attori, professionali ma non solo. Riteniamo che la figura degli igienisti (medici di sanità pubblica) possa dare in questo senso un apporto importante. Infatti, grazie alle competenze in vari ambiti e alla visione ampia sulla popolazione e sulle dinamiche di generazione di salute, essi possono apportare uno sguardo complessivo complementare a quello degli altri attori più specializzati.

Il ruolo del medico igienista si esplicita in diverse modalità, su diversi livelli. Da un lato, abbiamo il livello di governance di sistema, intesa come l’insieme dei meccanismi decisionali che il livello di responsabilità geopolitica, per le condizioni di salute della popolazione residente in un’area definita, attua per garantire la tutela della salute sia dell’intera comunità sia del singolo individuo (Damiani, 2017), rispondendo alla domanda: quali servizi di “valore” per le popolazioni, a fronte di quali bisogni. Essa si realizza attraverso attività di programmazione, finanziamento e verifica di processi sanitari ed esiti di salute. A questo livello, lo sguardo del medico igienista può consentire di caratterizzare, in termini di tutela della salute di popolazione, le politiche e i programmi di intervento in una determinata area geopolitica.

Dall’altro lato, il livello della governance di produzione si caratterizza, invece, per meccanismi di decision making all’interno della rete di offerta dei servizi, costituita da erogatori pubblici e/o privati che forniscono servizi ai cittadini utilizzatori, nel rispetto di criteri di qualità, appropriatezza, sicurezza per l’assistito ed economicità. A questo livello, il medico igienista può apportare diverse competenze relative all’attuazione operativa dei programmi di prevenzione rivolti alle comunità; all’armonizzazione dell’organizzazione di pratiche clinico-assistenziali autodeterminate da attori diversi, ad esempio, audit, documentazione sanitaria e sistemi di indicatori, gestione delle relazioni comuni con organismi tecnici; alle istanze di prevenzione su gruppi (assistiti, visitatori, operatori sanitari), quali controllo del rischio clinico e attività di medicina preventiva.

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1.6 Come valutare le azioni

Numerosi sono gli indicatori utilizzati per valutare l’efficacia di interventi rivolti alla fragilità. Si va da indicatori riguardanti aspetti clinici, alla qualità della vita, all’utilizzo di servizi sanitari (ad es. ricoveri non programmati, durata del ricovero, ricoveri ripetuti, accessi in pronto soccorso, etc.), ai costi (Centre for Reviews and Dissemination, 2017). Per citare un esempio, in Toscana le ospedalizzazioni evitabili sono state utilizzate per valutare la performance di programmi di long-term care (Arandelovic, 2018).

Tuttavia, permangono varie criticità nel processo di valutazione.

Un primo elemento riguarda la temporalità tra l’erogazione degli interventi e la loro valutazione. Infatti, gli effetti degli interventi potrebbero non vedersi nel breve termine: i risparmi in termini di costi potrebbero essere indiretti (ridotta disabilità) e difficili da valutare, considerando il breve intervallo di tempo dopo cui viene valutato l’intervento negli studi (Cesari, 2016).

L’ottica del Population Medicine, ossia la progettazione, l’erogazione, il coordinamento e il pagamento di servizi sanitari di alta qualità per gestire il Triple Aim (migliorare l’esperienza della persona assistita; ridurre i costi pro-capite dell’assistenza sanitaria; migliorare la salute delle popolazioni in generale) per una popolazione, utilizzando le migliori risorse a disposizione all’interno del sistema sanitario (Lewis, 2014), ci fornisce su questo tema un modello concettuale. Un approccio che ha lo scopo di migliorare la salute di un gruppo definito di persone e di impegnarsi per una distribuzione più equa degli esiti di salute nel gruppo. Applicare quest’ottica alla valutazione della fragilità significa nel concreto riuscire a stratificare la popolazione sulla base di dati amministrativi, erogare interventi in funzione dei bisogni della popolazione e valutarne gli esiti nel tempo, ad esempio annualmente.

In mancanza di uno strumento di screening per la fragilità utilizzato a livello di popolazione, un aiuto viene dalle già citate esperienze di stratificazione del rischio, come, ad esempio, l’applicazione degli Adjusted Clinical Group (ACG) nella Regione Veneto (Corti, 2018).

Concludendo il tema della valutazione delle azioni di prevenzione e contrasto alla fragilità, l’attenzione andrebbe posta anche al tema della fragilità pediatrica, che sta trovando progressivo riconoscimento.

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1.7 Conclusioni

Lo scopo del presente capitolo è di delineare una cornice concettuale attraverso la quale leggere la fragilità in un’ottica di sanità pubblica.

Abbiamo descritto, innanzitutto, il contesto epidemiologico nel quale questo lavoro si colloca: un contesto di progressivo invecchiamento della popolazione, con aumento delle patologie croniche e degli anni di vita trascorsi in cattiva salute. Il conseguente maggiore ricorso ai servizi sanitari, unitamente all’innovazione tecnologica, sta contribuendo in modo considerevole all’incremento della spesa sanitaria, con gravi ripercussioni sulla sostenibilità futura dei sistemi sanitari.

Abbiamo, poi, definito la fragilità come una condizione di maggiore vulnerabilità a fattori di stress e riassunto i principali modelli storicamente impiegati per descrivere il fenomeno e la sua eziologia. In sintesi, la fragilità è una sindrome complessa e multidimensionale influenzata anche dai determinanti sociali e ambientali di salute. Può interessare una fascia importante della popolazione, ma può essere reversibile. Anche nella popolazione pediatrica si può parlare di fragilità.

La caratterizzazione del bisogno di salute dei fragili non necessita di una definizione univoca che si adatti a tutti i contesti sanitari e sociali, bensì di una condivisione tra tutti i professionisti sui modi per definire e riconoscere la fragilità secondo un approccio multidimensionale. All’atto pratico, l’intercettazione della fragilità può realizzarsi attraverso dati amministrativi e/o clinici o strumenti, quali questionari rivolti a singoli individui.

Le azioni di contrasto alla fragilità possono indirizzarsi ai singoli individui o a interi gruppi di popolazione e possono distinguersi concettualmente in azioni monocomponente e multicomponente. All’interno di quest’ultimo gruppo si collocano anche le azioni multisettoriali, che secondo gli autori costituiscono uno strumento privilegiato. Inoltre, l’offerta di servizi di assistenza primaria rivolta alla fragilità si rafforza nella sinergia con gli interventi di sanità pubblica, secondo una prospettiva di primary health care community-oriented.

Nella pianificazione e coordinamento degli interventi, i professionisti di sanità pubblica possono dare un apporto peculiare e complementare rispetto agli altri specialisti. La sanità pubblica offre, a livello di politiche, programmi e interventi su individui e popolazioni fragili, attività di formazione qualificante e integrata per i professionisti, gli assistiti e i loro caregiver in una prospettiva life-course. In particolare, è essenziale entrare in un’ottica di formazione multidisciplinare e multisettoriale che può favorire il lavoro in équipe, e multilivello, coinvolgendo direttori, dirigenti, professionisti e operatori in programmi comuni per la governance della complessità.

L’engagement degli assistiti, dei caregiver e della comunità rappresenta un elemento chiave per favorire l’aumento di risorse necessarie ad affrontare le condizioni di fragilità e la riduzione delle complicanze legate al suo sviluppo in una prospettiva di prevenzione partecipata.

La valutazione delle azioni rivolte alla fragilità dovrebbe costruirsi su una prospettiva di Population Medicine/Population Health Management, capace di seguire lo stato di salute della popolazione nel tempo. Ulteriori ricerche sono necessarie in questo ambito.

In conclusione di questo capitolo, benché i principali elementi concettuali relativi alla fragilità siano stati definiti, vogliamo considerare alcuni spunti di riflessione derivanti dal periodo storico corrente, ma validi anche per il tema di questo libro. Ci riferiamo, ovviamente, alle sfide che la pandemia da SARS-CoV-2 ha posto e accelerato: l’attenzione ai livelli di salute della popolazione e non solo del singolo; l’integrazione tra diversi livelli di assistenza; la necessità di avere nuove forme di organizzazione flessibili, con capacità adattativa nel breve periodo; il lavoro in équipe e l’importanza dell’educazione interprofessionale; l’utilizzo delle nuove tecnologie sanitarie digitali.

Si vede come il momento presente non faccia altro che confermare la direzione nella quale il sistema sanitario deve aspirare a muoversi.

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Acronimi

  • ACG: Adjusted Clinical Group
  • AGENAS: Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali
  • CDR: Clinical Dementia rating
  • HS-FI: Health-Search Frailty Index
  • MCI: Mild Cognitive Impairment
  • MMG: Medici di Medicina Generale
  • OMS: Organizzazione Mondiale della Sanità
  • PNRR: Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
  • SIMG: Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie
  • UE: Unione Europea

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