Capitolo 4 – Il ruolo delle Cure primarie, del Dipartimento di Prevenzione e del Distretto Socio-Sanitario per la prevenzione delle fragilità e per la loro gestione in rete
Mara Morini, Elisa Gabrielli, Fausto Francia, Paolo Da Col
Indice del capitolo
- 4.1 Premessa
- 4.2 Il Distretto socio – sanitario e la vocazione all’integrazione
- 4.3 Il Dipartimento di Prevenzione
- 4.4 Le Case della Comunità come driver d’innovazione dell’aggregazione professionale e dei servizi integrati multidisciplinari
- 4.5 Lo sviluppo della telemedicina a sostegno della fragilità
- 4.6 Un esempio di sistema integrato tra Dipartimenti Cure Primarie e Sanità Pubblica finalizzato ad individuare precocemente i rischi di fragilità nella popolazione
- 4.7 Conclusioni
- Acronimi
- Bibliografia
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Premessa
La fragilità si presenta come una condizione complessa, multidimensionale, fortemente influenzata da determinanti della salute socio-economici, culturali ed ambientali. E seppur sviluppatasi come concetto principalmente nell’area geriatrica, in quanto fortemente influenzata dalla transizione epidemiologica che vede l’Italia tra i paesi più longevi d’Europa, con una popolazione anziana in aumento e con un’alta percentuale di anni vissuti non in buona salute, ha recentemente interessato anche i pediatri per la sua presenza in tale fascia d’età, senza escludere anche i giovani adulti.
La fragilità si presenta con caratteristiche diverse nelle diverse età della vita, da un punto di vista biologico, ma non da un punto di vista assistenziale e di bisogni di salute, motivo per il quale non se ne differenziano eccessivamente le modalità di presa in carico e gestione. Si tratta di una condizione che determina una riduzione multisistemica delle normali funzioni fisiologiche e porta ad una maggiore vulnerabilità ad eventi stressogeni con ridotta capacità di ristabilire l’omeostasi, soprattutto quando le riserve dell’organismo sono ridotte, come nel grande anziano (WHO, 2016). Quindi ne derivano limitazioni funzionali, scarsa capacità di esprimere il proprio disagio e forte rischio di evolvere verso la disabilità e la non autosufficienza. E’ un problema importante e prioritario per la sanità pubblica e per i sistemi sanitari, perché la mancata inversione di questa deriva, dovuta all’intensificarsi della complessità assistenziale per l’aumentata gravità dei casi, il numero di anni vissuti con disabilità che ne aumentano la probabilità di non autosufficienza, aggravata da un indebolimento della rete familiare di sostegno per i nuovi stili di vita, determinano un sempre maggiore impegno per il Servizio Sanitario in termini di risorse impegnate.
Da queste considerazioni nasce la necessità di esplorare nuove possibilità di approccio alla fragilità, che vedano impegnate le varie aree della sanità pubblica insieme alle risorse della società. Un cambio di paradigma che privilegi l’anticipazione del problema, la sua identificazione precoce, una valutazione multiprofessionale e multidimensionale e l’inserimento in percorsi assistenziali sempre più specifici ed appropriati per la persona ed il suo contesto, seguiti da un monitoraggio periodico e costante nel tempo in grado di modificarne al bisogno il percorso. Occorre inoltre una formazione ed informazione della persona, della famiglia e/o dei caregiver sul decorso e la cura, tali da aumentarne consapevolezza, engagement e compliance. Questo è un approccio tipico dell’assistenza primaria che agisce per problemi di salute e non per patologie, che necessita di coordinamento nelle azioni ed interventi di un team di professionisti che si confronta e condivide un percorso assistenziale. In questi percorsi si incontrano e si incrociano i saperi, in quanto vi è necessità di competenze cliniche, psicologiche, sociali e di promuovere interventi di prevenzione e promozione di buoni stili di vita, nella consapevolezza di accompagnare la persona lungo il decorso della sua vita. Un approccio non solo clinico e/o specifico di una disciplina, bensì complesso per la necessità di interdisciplinarità ed intersettorialità capace di comporre e far coesistere due elementi: quello di un singolo paziente e quello di popolazione. Nella pratica gestionale ed organizzativa questo comporta integrare le strategie del sistema delle cure primarie con quello della prevenzione: l’organizzazione dei distretti con quella dei dipartimenti di prevenzione e cure primarie. A questi ultimi è deputata la stratificazione del rischio di fragilità della popolazione di riferimento aziendale e/o distrettuale, che consente agli addetti alla pianificazione di elaborare programmi di intervento di promozione della salute e prevenzione delle fragilità “calibrati sui sottogruppi di popolazione individuati” e di definire l’allocazione di risorse secondo l’approccio del Population Health Management. Ai Distretti è affidata l’identificazione precoce della condizione di fragilità del singolo, condizione importante per rallentarne il decorso, invertirlo quando possibile agendo in modo personalizzato per aumentarne l’adesione al percorso assistenziale individuato (compliance terapeutica e di percorso).
Questo capitolo affronta il tema della fragilità in termini organizzativi e più specificatamente spiega se e come
- i modelli organizzativi attuali della sanità territoriale possono farsi carico della fragilità secondo un approccio sistemico;
- quali innovazioni è necessario introdurre per migliorarne l’identificazione e la gestione.
Sarà illustrata un’esperienza concreta di integrazione tra sistema dell’assistenza primaria e sanità pubblica secondo la prospettiva della primary health care community oriented (Blackwell, 2000; Walter, 2004 ).
Il Distretto socio – sanitario e la vocazione all’integrazione
Il Distretto è un protagonista fondamentale nella realizzazione dell’integrazione di servizi e professionisti, sostenuto da una base normativa che nel D.lgs. 229/99 ne declina le responsabilità fondamentali. Il Distretto è l’articolazione organizzativa portante del processo aggregativo, connotato prioritariamente come erogatore di servizi, con particolare attenzione alle cure primarie: assistenza ambulatoriale generalista con forme associative di medicina generale; assistenza ambulatoriale specialistica; assistenza domiciliare; assistenza consultoriale; assistenza residenziale con cure intermedie; assistenza semiresidenziale. È la macrostruttura organizzativa dell’Azienda Sanitaria, e quindi della Regione, deputata all’analisi dei bisogni di salute del territorio di riferimento, capace di tradurre in programmazione le risposte necessarie a tali necessità, monitorarne l’andamento e valutarne i risultati. Le funzioni del Distretto sono di produzione, governo, committenza, programmazione e garanzia nei riguardi dei cittadini, in grado di integrare la produzione propria di servizi con quella dei dipartimenti territoriali (prevenzione, cure primarie e salute mentale) oltre che ospedalieri, dei servizi sociali, del privato accreditato, dell’associazionismo e volontariato in una logica che si fonda sul Health Needs Assessment, ovvero sulla conoscenza di bisogni, da cui tutto deve partire.
Purtroppo ai circa 600 Distretti del nostro Paese vengono attribuite impostazioni ed azioni molto diverse nelle varie regioni e addirittura con differenze intraregionali e ad oggi sono pochi i distretti che seguono questa impostazione di alto profilo (ripetiamo: pur sancita da una legge nazionale), in quanto le Regioni e le Aziende Sanitarie Locali (ASL) sono in molto casi restie ad attribuire loro queste funzioni, o – ancora più rilevante – poco attente a corrispondere i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) distrettuali.
Nonostante ciò, va rilevato che nelle realtà in cui si è rispettato il volere del Legislatore, il Distretto rappresenta il luogo di regia degli interventi, del dialogo tra gli operatori, dell’integrazione delle risorse sociali e sanitarie, del coordinamento dei ruoli e della ricerca dei migliori setting assistenziali, del confronto e della partecipazione dei membri della comunità locale. Il luogo in cui si può realizzare l’approccio organizzativo, gestionale ed operativo che assicura ad una pluralità di soggetti di confrontarsi, progettare ed agire insieme verso obiettivi condivisi. Si tratta di uno sforzo innanzitutto culturale, volto a superare la frammentazione e l’autoreferenzialità, per abbracciare la forza coesiva del team professionale. La strada che possono percorrere i vari protagonisti deputati all’individuazione e gestione delle persone fragili per affrontare con successo questa grande sfida, aperta del Servizio Sanitario Nazionale. Infatti, l’integrazione ha la necessità di vedere applicati strumenti organizzativi, strutturali e culturali per essere realizzata e questi sono già presenti, sperimentati e validati in alcune realtà territoriali e attualmente in gran parte ripresi nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che manifesta formalmente la volontà di diffonderli in tutto il territorio nazionale (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, 2021). Sono lì ritenuti strumenti fondamentali per coniugare la Primary care con la Public Health:
- la costruzione di un Punto Unico di Accesso (PUA) – Punto di Coordinamento dell’Assistenza Primaria (PCAP);
- la Centrale Operativa Territoriale (COT), che con diversa terminologia, ma simile finalità, dovrà dare un forte supporto alla comunicazione fra i diversi servizi (Ospedale-Territorio, fra i dipartimenti territoriali, con i servizi sociali, ecc.), snodi fondamentali della rete da coordinare tra loro, nelle parti di prevenzione e assistenza;
- la realizzazione di un adeguato supporto informatico per la raccolta e trasmissione-condivisione della documentazione sanitaria degli assistiti fra servizi e professionisti;
- la composizione di piattaforme di dialogo per tutti i protagonisti del percorso di cura della persona, compresi pazienti e famiglie;
- la definizione di adeguate tecnologie per il monitoraggio a distanza dei pazienti (telemedicina, telemonitoraggio a domicilio, …);
- l’acquisizione di programmi informatizzati per l’analisi dei dati e la produzione di report, per il monitoraggio delle situazioni (indicatori di qualità) e per agevolare la comunicazione tra gli operatori coinvolti (ad esempio, il profilo di rischio ed il profilo di cura attivi in Emilia-Romagna);
- la formazione degli operatori, generale e specifica (anche per l’utilizzo di nuove tecnologie e strumenti informatici);
- la realizzazione di Percorsi Diagnostico Terapeutico Assistenziali (PDTA) e di Prevenzione PPDTA;
- l’uso dei Piani Assistenziali Individualizzati (PAI), dei Piani Riabilitativi Individuali (PRI) e dei budget di salute;
- la stesura di un piano strategico di welfare d’iniziativa e di valorizzazione delle reti di comunità;
- la definizione di strategie e meccanismi attuativi per porre in equilibrio cure formali (istituzionali) ed informali (oggi in moltissimi casi prevalenti, con famiglie schiacciate dal carico di cura);
- la definizione chiara di ruoli e responsabilità degli operatori coinvolti;
- la consapevolezza dei luoghi dell’assistenza territoriale, con priorità al domicilio;
- la realizzazione delle Case della Comunità, degli Ospedali di Comunità, degli hospice;
- la realizzazione di percorsi formativi interprofessionali per favorire il lavoro in team, la conoscenza delle soft skills e la suddivisione dei compiti di ogni professionista nel team;
- l’estensione del concetto di prevenzione attraverso l’approccio One Health e la promozione dell’Urban health da parte di tutti gli operatori.
Strumenti, metodi, approcci che se messi in campo possono affrontare la fragilità in quanto espressione di complessità. Poiché, come ci ricorda il filosofo della complessità Edgar Morin, la complessità riguarda l’empirico, l’incertezza, l’impossibilità di essere sicuri su tutto, di formulare una legge, di concepire un ordine assoluto (Morin, 2017).
Serve una visione adattiva, olistica, non riduzionistica, né particolaristica; considerare ogni azione come una parte del tutto per affrontare la complessità. Nelle crescenti situazioni dinamiche e turbolente è indispensabile facilitare la circolazione delle informazioni, alimentare canali, organizzare connessioni, evitare di “voler tenere tutto sotto controllo”, bensì saper costruire una struttura flessibile, aperta all’innovazione, lontana dall’equilibrio (Mitchell Waldrop, 1996). Pertanto, le situazioni complesse quali la fragilità possono essere affrontate solo con gli strumenti ed i modelli strategici della complessità. Questa sinteticamente la sfida che le cure primarie e la prevenzione devono affrontare e vincere insieme in un luogo ben definito, il Distretto.
Il Dipartimento di Prevenzione
Il Dipartimento di Prevenzione (DP) assicura con proprie strutture, oppure con supporto metodologico ad altre articolazioni delle Aziende Sanitarie, l’assolvimento delle attività previste dai LEA: profilassi delle malattie infettive e parassitarie; tutela della collettività e dei singoli dai rischi connessi con gli ambienti di vita, anche con riferimento agli effetti sanitari degli inquinanti ambientali; tutela della collettività e dei singoli dai rischi infortunistici e sanitari connessi con gli ambienti di lavoro; sanità pubblica veterinaria; tutela igienico-sanitaria degli alimenti; sorveglianza e prevenzione nutrizionale; attività di prevenzione rivolte alla persona (screening e vaccinazioni); tutela della salute sportiva.
L’attività di prevenzione è deputata ad azioni rivolte ad evitare il manifestarsi di noxae patogene o a rallentarne la comparsa conclamata; includono attività che hanno respiro più marcatamente collettivo inquadrando la tutela della salute in strategie poste in essere dalle strutture del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) quali i DP.
Tuttavia, la prevenzione, prima ancora di essere il frutto di un’operatività individuale o collettiva, è un atteggiamento mentale che deve guidare la ricerca della tutela della salute. Quindi non si può ridurre ad un atto sanitario, ma si estrinseca attraverso un continuum che segue il percorso di vita della persona nelle sue diverse fasi. I DP, che hanno costituito in questi anni lo strumento principale del servizio sanitario per le specifiche attività di prevenzione, devono oggi confrontarsi con i cambiamenti in atto, che vedono la salute dell’uomo non più limitata negli stretti confini biomedici, ma situata nell’ambito del contesto sociale e ambientale ove la popolazione vive e lavora. In tale ottica, il termine “prevenzione” può apparire in qualche modo riduttivo per una organizzazione che ha il compito non solo di prevenire la malattia, ma di promuovere, proteggere e migliorare la salute e il benessere, attraverso interventi che trascendono i confini del settore sanitario vanno a coinvolgere l’intera società civile. Infatti nella gestione delle cronicità è fondamentale un’azione che, a seconda dei casi, è di prevenzione primaria, secondaria o terziaria; comunque di prevenzione.
Una moderna definizione della mission dell’assistenza sanitaria collettiva potrebbe dunque affermare che il DP assicura l’assistenza sanitaria collettiva, con lo scopo di tutelare, promuovere e migliorare il benessere dei cittadini e la qualità dell’esistenza; di prevenire le malattie connesse ai rischi negli ambienti di vita e di lavoro; di garantire la sicurezza alimentare, la sanità ed il benessere animale.
Per fare ciò occorre mettere in campo funzioni di analisi, promozione, orientamento, assistenza e vigilanza sull’insieme dei problemi di salute della popolazione e su tutti i determinanti di salute, individuando i rischi caratterizzati da maggior diffusione e gravità e percezione, ricercando in tali ambiti il miglioramento continuo della qualità degli interventi e costruendo e/o partecipando alleanze ed integrazioni con tutti i soggetti coinvolti.
L’obiettivo degli interventi deve necessariamente essere rivolto alla soluzione di problemi di salute che prefigurano la costruzione di percorsi di prevenzione articolati in contributi da parte di professionisti di varie discipline e servizi.
Il Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) 2014-2018 ha previsto che i DP assumano all’interno delle ASL un ruolo, costruendo e sviluppando una rete di collegamenti fra stakeholders (istituzionali e non) che, in senso bidirezionale, connetta il territorio al governo regionale e nazionale.
Nel PNP 2020-2025 viene delineata anche per il DP l’integrazione dei servizi socio-sanitari e del Dipartimento di Cure Primarie (DCP).
Il DP ha, quindi, un ruolo determinante a livello locale ed è chiamato a operare intensamente al fine di diffondere e facilitare l’adozione di stili di vita sani, ambienti di vita e di lavoro che favoriscano la salute nello spirito di contrasto alle fragilità e alle disuguaglianze. In particolare, poiché la fragilità è una sindrome multidimensionale fortemente influenzata dai determinanti sociali ed ambientali è determinante il ruolo dei DP per diffondere strumenti di screening e di valutazione che indagano i diversi domini e consentono un’identificazione precoce di questa condizione, fondamentale per sostenere i pazienti a recuperare funzionalità e prevenire e /o rallentare gli esiti negativi associati a questa condizione.
Un ruolo fondamentale dei DP nel contrasto alla fragilità consiste nel contribuire a conoscere i bisogni di salute di un territorio di riferimento, Azienda Sanitaria Locale o ancor meglio Distretto, attraverso la stratificazione della popolazione per individuare le fasce di popolazione a rischio di fragilità, graduarne l’intensità e attuare programmi ed interventi rivolti alla collettività coerenti.
A tal proposito va sottolineato che il bisogno di salute dei fragili non necessita di una definizione univoca che si adatti a tutti i contesti sanitari e sociali, ma soprattutto di un approccio condiviso tra tutti i professionisti sui modi per riconoscerla secondo il paradigma della multidimensionalità. E’ importante in una prospettiva di costruzione sociale della salute e di contrasto alla fragilità agire sia direttamente ma soprattutto costruendo una rete di cooperazione con gli altri dipartimenti, con operatori sanitari esterni all’azienda e con enti e istituzioni di altri settori: comuni, scuole, associazioni e società sportive, imprenditori, etc. Uno strumento utile per un simile approccio è stato realizzato, in determinati contesti, nelle Case della Salute (CdS) aut similia, sedi interprofessionali e interdisciplinari che favoriscono il confronto e la cooperazione dei servizi e dove la prossimità ai luoghi di vita delle persone aumenta la capacità di raggiungere i più fragili. Talora però una disponibilità logistica quali-quantitativa adeguata non è coincisa con una innovazione organizzativa coerente e il modello CdS è rimasto inapplicato. Nuove prospettive si stanno aprendo con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che manifesta formalmente la volontà di diffondere in tutto il territorio nazionale le Case della Comunità (CdC), affiancate dagli Ospedali di Comunità (OdC), le Centrali Operative Territoriali (COT), i nuovi potenzianti servizi di cure domiciliari.
Le Case della Comunità come driver d’innovazione dell’aggregazione professionale e dei servizi integrati multidisciplinari
Le esperienze raccolte negli ultimi anni sulle CdS (Turco, 2007) sono molteplici. Recenti rigorose analisi mostrano che i successi sono stati inferiori alle attese e che in termini di bilancio costi-benefici sembrano prevalere maggiormente i primi rispetto ai secondi.
In vista di queste nuove strutture fortemente volute dal PNRR occorre quindi ripensare a come rimodularne la funzione ed ancor prima gli obiettivi. Ad esempio, sembra opportuno allentare l’attenzione verso la possibilità che queste possano ridurre i codici bianchi e verdi dei Pronto Soccorso. Dovranno prevalere le iniziative a favore della condizione di fragilità, ovvero potenziando la continuità dei follow-up, la proattività per il controllo delle malattie di lungo termine ad alto impatto sociale. È ineludibile sciogliere il nodo delle dotazioni del personale che vi opererà; indispensabile arricchirle di tecnologie e sistemi informatizzati. Tutto va tarato in funzione del lavoro in team multiprofessionali e multidisciplinari, del formare squadre coese e competenti, al fine di realizzare davvero quel salto di qualità da tutti atteso ed auspicato, ancorché poco agito, di una sanità territoriale altamente affidabile ed apprezzabile. Inoltre, va valorizzato il concetto che oltre ad un nuovo lavoro di cura ambulatoriale dovrà svilupparsi anche una nuova modalità di cure domiciliari e residenziali, che potranno giovarsi di molti maggiori apporti dei Medici in Medicina Generale (MMG) e dei medici specialisti, affiancati da tutte le altre professionalità non mediche che danno senso e concretezza alla Primary Health Care (PHC).
Il PNRR, attraverso la Missione 6 Componente 1 denominata “Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale” prevede 2 miliardi di euro stanziati per le Case della Comunità (CdC) (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, 2021) scommettendo molto su di esse. La CdC, secondo il modello proposto, dovrebbe avere un’organizzazione capillare su tutto il territorio, una struttura fisica in cui opera un’équipe multiprofessionale (MMG, Pediatri di Libera Scelta, specialisti ambulatoriali, infermieri di famiglia e comunità, assistenti sociali ed altri professionisti della salute) ed essere il punto di riferimento continuativo per la popolazione per garantire la presa in carico; sono stati inoltre definiti gli standard minimi dei servizi che devono essere erogati dalla CdC ed il bacino di utenza afferente, nonché il modello organizzativo del personale presente (Agenas, 2021). Risulta però necessario introdurre un cambiamento culturale dei protagonisti, favorito e sorretto da una precisa formazione, dal benchmarching con i luoghi più avanzati, dal change management ed infine –ma in realtà primo requisito– chiarire che la CdC è il luogo della prossimità di cura, che acquisisce la conoscenza delle necessità di un ambito territoriale e le risorse (istituzionali e non) lì presenti (Barsanti, 2017).
Occorre convergenza unanime sul problema prioritario delle disuguaglianze di salute, dei diritti negati, valutati in una prospettiva di salute e di esiti nella gestione della fragilità e della long-term care. Ciò richiede un ripensamento complessivo dell’offerta che approdi allo sviluppo diffuso di logiche di co-production, con protagonisti i pazienti e le loro reti familiari e amicali e più in generale l’intera comunità.
Le comunità locali sono coinvolte nel piano territoriale della prevenzione o, meglio ancora, nella stesura di un piano strategico di welfare d’iniziativa e di valorizzazione delle reti di comunità, che definisca fasi, tempi e modi di azione di vasto respiro, non episodici, con pluralità di componenti pubblici e non, coordinate da una cabina di regia di cui facciano parte anche i servizi comunali e le rappresentanze più significative della società civile (Longo, 2021). La maggior parte degli interventi saranno assicurati dalle associazioni di volontariato e di promozione sociale (attività ricreative, culturali, musicali, canore, sportive, attività fisica assistita, ballo, …) che costituiranno una risorsa fondamentale nelle reti che si andranno a costruire (Morando, 2017).
Con questo approccio la CdC può essere il driver del cambiamento:
- promuovendone la realizzazione diffusa in tutte le regioni, per configurare la congiunzione tra individual care e community care in un’ottica di promozione e tutela della salute;
- rafforzando la presenza di strumenti di condivisione informatica della documentazione sanitaria degli assistiti, non solo fra MMG, ma anche con Medici di Continuità Assistenziale (MCA), specialisti, infermieri, con tutti i caregiver ed attori dell’assistenza e, verticalmente, con le strutture di degenza;
- costruendo i data base con le informazioni riguardanti le condizioni di salute globali e socio-economiche della popolazione di riferimento (30.000-60.000 abitanti) e promuovendo in tali strutture la logica del population health management, operando in stretta collaborazione con i professionisti del DP e dell’eventuale osservatorio epidemiologico aziendale. In questo modo si può stratificare la popolazione sulla base delle necessità e intensità di cura aumentando l’efficacia ed efficienza degli interventi fra tutti i protagonisti;
- attivando screening per individuare i soggetti fragili fra coloro che accedono alla CdC e si rivolgono agli ambulatori infermieristici o dei MMG o dei PLS;
- attivando piattaforme di dialogo per favorire la comunicazione tra MMG-PLS-Infermieri-Specialisti e professionisti della CdC, anche con il paziente, la sua famiglia o il caregiver e gli altri attori di cura;
- rendendo uniformi le tipologie di servizi erogabili e i conseguenti impegni di personale e risorse tecnologiche necessarie; a tal proposito vanno definiti gli standard strutturali (spazi, risorse umane, tecnologie, ed altro ancora) ed organizzativi da dedicare per ciascuna tipologia di CdC.
È irrinunciabile affermare in modo definitivo il ruolo del Distretto Socio-Sanitario, chiarendone le funzioni: valutare i bisogni, promuovere la salute, intervenire proattivamente; integrare i servizi in senso verticale (Ospedale) e orizzontale fra i Dipartimenti territoriali, in primis delle cure primarie e della prevenzione, per garantire l’identificazione precoce delle fragilità e la presa in carico e la continuità delle cure. Il Distretto deve essere individuato come struttura organizzativa che ha la responsabilità della regia complessiva dell’attività territoriale e di garanzia nei riguardi dei suoi cittadini. Esso si identifica come il punto nevralgico di questa “nuova” organizzazione, il luogo del coordinamento generale degli interventi, motore di integrazione e di dialogo, confronto costante degli operatori, per integrare risorse, ruoli e setting assistenziali. Quanto descritto potrà realizzarsi solo attraverso una formazione specifica dei professionisti riguardo ai percorsi clinici ed alla appresa capacità degli operatori a dialogare tra essi in modo costruttivo, a risolvere il conflitto e sintetizzare divergenti opinioni, a fare squadra ed orientarsi verso un traguardo comune, che in questo caso è l’individuazione e la gestione della fragilità.
Lo sviluppo della telemedicina a sostegno della fragilità
La pandemia Covid-19 ha avuto un impatto, soprattutto in alcune fasi, devastante per il nostro sistema sanitario nazionale e ha messo in evidenza tutte le debolezze organizzative ed i ritardi dell’innovazione. Un modo diffuso per contrastare la mancanza di intervento, dovuto all’isolamento forzato dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2, è stato quello di attivare forme di comunicazione a distanza tra i professionisti della salute e la comunità. A questo scopo sono stati utilizzati i classici mezzi comunicativi informali quali il telefono, i sistemi di messaggistica e di teleconferenza, sistemi che non hanno i requisiti richiesti dalla legge europea sulla privacy e, più in generale, non rispondono a criteri di sicurezza. Si è agito sull’onda dell’emergenza cercando di potenziare suddetti strumenti, implementando la sperimentazione della telemedicina, la teleconsulenza, la televisita ed altre soluzioni tecnologiche e digitali. La pandemia, in ambito di innovazione, ha determinato un notevole impulso all’evoluzione della telemedicina in Italia, richiedendo alle aziende sanitarie di rimodulare rapidamente le modalità di erogazione dei servizi mediante l’adozione di modelli di cura e assistenziali in grado di seguire a distanza non solo i pazienti Covid, ma anche per assicurare l’accesso alle cure a tutte le altre persone, in particolare fragili, cronici, soggetti a trattamenti di lungo periodo. Questa spinta “positiva” ha portato, a fine 2020, alla attivazione di oltre duecento progetti avviati dalle singole aziende sanitarie sul territorio nazionale (Fonte Altems – Università Cattolica del Sacro Cuore), di cui oltre il 70% finalizzati alla cura ed all’assistenza di pazienti non-Covid (oncologia, neurologia, cardiologia, diabetologia), attraverso l’erogazione di televisite, monitoraggio delle condizioni di salute, e la collaborazione fra professionisti sanitari mediante teleconsulti e teleconferenze. A fine 2021, la Conferenza Stato Regioni ha approvato il documento del Ministero della Salute “Indicazioni per l’erogazione delle prestazioni in telemedicina”, andando a normare quanto si era sviluppato con modalità autonome e volontaristiche da parte delle regioni e aziende sanitarie. Un importante traguardo che ci costringe a pensare, nella prospettiva futura, ad un cambio di paradigma. Lo sviluppo della telemedicina non può essere disgiunto dallo sviluppo della medicina digitale; infatti, il contatto con la persona e chi l’assiste, si sviluppa attraverso un costante aggiornamento della sua condizione, che ha necessità di essere trasmesso su una piattaforma di medicina digitale, essere interattivo, costantemente aggiornato, così da permettere, ad esempio, di supportare a distanza gli adattamenti delle terapie farmacologiche e delle diagnosi, ponendo sostanzialmente la persona al centro dell’intervento. Per realizzare tutto questo risulta necessario costruire una piattaforma digitale, dove questi strumenti si articolano in un ambiente integrato, accessibile sia al paziente, sia al caregiver/familiare, sia ai professionisti. Tale sistema si rivela particolarmente utile nelle situazioni di cronicità e/o di fragilità, poichè sostiene la medicina personalizzata che prende in carico la persona e non solo la sua cronicità. Per la riuscita di questo modello, che si può dimostrare fulcro e sostegno nelle Case della Comunità, è necessario superare la frammentarietà della prestazione; infatti il modello si mostra fluido, costituito da una serie di interventi difficilmente scomponibili in prestazioni tariffatili. È una presa in carico globale che ben si adatta ad un budget di processo (PDTA/PAI) all’interno di requisiti e regole di appropriatezza. Dal punto di vista tecnologico, pone il problema della adeguatezza degli strumenti, delle tecnologie, della rete perché questi elementi, se non adeguati possono alimentare disequità di interventi e, conseguentemente, dei diritti dei cittadini alla salute. Inoltre risulta di fondamentale importanza che gli strumenti utilizzati rispondano ai requisiti di legge sulla privacy, elemento al momento ancora non superato. Dall’analisi complessiva di vantaggi e rischi nella diffusione della telemedicina e della medicina digitale, in particolare nell’ambito della conoscenza, monitoraggio, presa in carico complessivo delle fragilità e di tutte le condizioni di complessità, che affliggono il nostro sistema, non si può che concludere con un forte favore a tale implementazione e diffusione, in particolare, se armonizzata con i modelli organizzativi, che favoriscono l’aggregazione dei professionisti della salute e che vedono la comunità come risorsa nell’assistenza. Operare in rete, in team professionali, in stretta comunicazione con le reti formali ed informali del contesto territoriale rappresenta un approccio di sistema, in grado di alimentare sinergie in ambito di riconoscimento, prevenzione e cura delle fragilità.
Un esempio di sistema integrato tra Dipartimenti Cure Primarie e Sanità Pubblica finalizzato ad individuare precocemente i rischi di fragilità nella popolazione
Allo scopo di individuare precocemente nell’intera popolazione del territorio di afferenza, l’AUSL di Bologna ha realizzato un apposito progetto che di seguito si espone, ritenendo tale esperienza significativa di un positivo approccio integrato tra Sanità Pubblica e Cure Primarie.
Metodi
Il DP dell’AUSL di Bologna ha redatto una banca dati dei Fragili (Figura 1) da flussi amministrativi di Anagrafe Sanitaria, SDO (Schede di dimissione ospedaliera), Esenzioni Ticket per patologia, AFT (Assistenza Farmaceutica territoriale), FED (Farmaceutica ad erogazione diretta), Pronto Soccorso, ASA (Assistenza Specialistica Ambulatoriale), AD (Assistenza Domiciliare), SMAC (Assegni di cura), DSM (Dipartimento di salute mentale), Registro di Mortalità, Indice di deprivazione su base regionale, GARSIA (Gestione Accesso Rete Socio-sanitaria Integrata Automatizzata), Dati di natura economica (reddito familiare dichiarato solo per Comune di Bologna), Anagrafe comunale (stato civile, titolo di studio, composizione famiglia).
Figura 1 Stratificazione della popolazione >=65aa residente AUSL BO con fragilità sanitaria (01/01/2014)
Con un Accordo Locale con la Medicina generale (2014), il DCP ha proceduto all’attribuzione dei pazienti fragili, individuati dal modello elaborato dal DP che prevede 5 livelli di fragilità, ai rispettivi MMG e ai singoli Nuclei delle Cure Primarie. La scheda che ciascun MMG compila per singolo paziente, comprende cinque items:
- Indice di Comorbidità di Charlson (CCI): 19 possibili patologie con punteggio associato che valutavano il singolo rischio di mortalità all’anno successivo, dove la somma dei punteggi forniva l’indice;
- percezione del dolore;
- elementi di criticità;
- supporto sociale;
- valutazione autosufficienza.
La metodologia utilizzata era il combined method.
Figura 2 Scheda Fragili Accordo Locale MMG 2014
La banca dati fragili del DP si arricchisce di informazioni cliniche ricavate dalla “scheda fragili” compilata dai MMG aderenti al progetto. Nello specifico, sono stati presi in considerazione i livelli di fragilità da 20 a 100 e sono stati attribuiti a ciascun MMG massimo 35 pazienti fragili. Per quei medici che risultano avere un numero di pazienti fragili inferiore o uguale a 35 la lista è stata composta semplicemente attribuendo tali pazienti al rispettivo MMG. Per i medici che hanno un numero di pazienti fragili superiore a 35 la lista è stata composta tramite un campionamento in grado di ricalcare il più possibile la distribuzione dei livelli di fragilità che si riscontrano nella popolazione (il numero di soggetti in ciascun livello decresce al crescere della fragilità).
L’incrocio del database dei pazienti fragili (DP) e la lista dei MMG ha rilevato che alcuni MMG non hanno nessun soggetto fragile in carico. Una volta elaborata la scheda definitiva, è stata predisposta una maschera di input dati in Access e per facilitare la raccolta dati si si è pensato di inserire la maschera Access all’interno del sistema SOLE (accessibile ai MMG, il sistema SOLE è infatti la rete che collega i MMG e PLS con le strutture sanitarie ed ospedaliere della Regione Emilia-Romagna). Il progetto, della durata di 6 mesi, prevede di utilizzare l’elenco dei pazienti catalogati come potenzialmente fragili come un radar per: confermarne lo stato di fragilità, in caso di positività, verificare se sono presi in carico ed in quale forma, far conoscere ai MMG i pazienti a loro “sconosciuti” che necessitano di cura ed assistenza. I MMG ed i dirigenti del DCP hanno provveduto ad una ricognizione dei pazienti più fragili, ovvero le categorie 4 e 5, e, con criterio discrezionale, considerato solo coloro con score al di sopra di 70. Tra questi si sono individuati pazienti:
- in assistenza domiciliare integrata e programmata del MMG;
- in assistenza domiciliare infermieristica (ad esempio semplice prelievo);
- non in assistenza domiciliare; in questi casi è attivata una medicina d’iniziativa, infatti dopo un confronto con il MMG del paziente fragile non assistito per conoscere le reali problematicità, viene definito un piano assistenziale congiunto con l’attivazione dei servizi.
Dopo una prima sperimentazione il progetto sarebbe stato esteso anche ai pazienti con score tra 50 e 70 dove era possibile pensare una vera e propria medicina di iniziativa con interventi mirati di educazione sanitaria, auto cura, ecc. Questo strumento si è dimostrato molto utile per individuare i fragili e verificare se il dato “amministrativo” coincide con quello clinico in possesso dei MMG. Su questi stessi pazienti intraprendere azioni di medicina di iniziativa in accordo con il MMG.
Risultati
Il campione era determinato tramite una selezione operata da ciascun MMG a partire da una lista di 35 assistiti assegnati, equamente distribuiti rispetto all’Indice di Fragilità (sviluppato dall’UOC Epidemiologia Promozione Salute e Comunicazione del Rischio del DP dell’AUSL di Bologna). Le schede compilate dai MMG sono state 7878, di cui 6988 erano le schede di assistiti di età maggiore di 65 anni, pari a circa il 3% della popolazione di riferimento. L’età media del campione 84 anni, con una maggiore percentuale di donne.
L’età si è dimostrata il fattore più influente nel determinare una condizione di fragilità e dall’analisi dei dati sulla distribuzione delle patologie si evince che le patologie cardiovascolari, in linea con la letteratura, avevano una maggiore prevalenza, seguite dalle patologie tumorali, dal diabete e dalle malattie renali. Interessante, infine il dato relativo ai disturbi cognitivi: quasi un soggetto su quattro ne era affetto. Le importanti informazioni ottenute dai MMG e le successive elaborazioni statistiche svolte, si inseriscono nell’ambito della sorveglianza della popolazione ed offrono un valido ausilio alla presa in carico dei pazienti attraverso la migliore assistenza individualizzata. L’età resta il principale fattore di rischio, rendendo maggiormente vulnerabile proprio la classe di età dei soggetti considerati nel questionario, ma risultano predittivi: caduta nell’ultimo anno, perdita di peso nell’ultimo anno, demenza e problemi di memoria, difficoltà e camminare per 400 metri. Concludendo, a partire dai risultati ottenuti, si può pensare di indagare pochi quesiti per definire predittivamente una condizione di fragilità.
Conclusioni
È necessario generare il senso della urgenza per la “presa in carico” proattiva della fragilità “andando verso chi non arriva”. Occorre cercare di agire congiuntamente a favore delle fasce di popolazione fragile portando screening e altre forme di prevenzione; prevenire il deterioramento di incipienti condizioni di “fragilità”, ritardare l’evoluzione di patologie croniche, riconoscere gli stati di disagio psichico (il COVID-19 ha fatto aumentare enormemente le condizioni di ansia e depressione reattive), di deprivazione, di isolamento che possono influire pesantemente sulla salute delle persone. “Andare verso chi non arriva” significa dare valore alla cura delle fragilità: valore sociale, etico, economico, ecologico.
Anche in questo caso la risposta contempla percorsi fatti di interventi che si sommano e si integrano e che appartengono a responsabilità diverse: servizio sanitario e socio-sanitario, servizi sociali, associazionismo e volontariato. Il team degli operatori, che deve agire produttivamente e prendere in carico precocemente la persona con fragilità, riguarda interventi di medicina d’iniziativa e comprende prioritariamente il personale dei Distretti, dei Dipartimenti di Prevenzione, e soprattutto il MMG, l’infermiere (di famiglia e di comunità), l’assistente sociale e le altre figure di prima linea, secondo le specifiche necessità. Il luogo di organizzazione in cui strutturare questi percorsi è il Distretto. Sono utili le tecnologie e-care, il telemonitoraggio a domicilio, il self help praticato mediante applicativi. Indispensabile è il collegamento di queste tecnologie con i dispositivi informatici del MMG (cartella sanitaria informatizzata). Inoltre vanno realizzate piattaforme informatiche di dialogo fra i professionisti interessati, persona-famiglia-caregiver. La gestione della fragilità ha bisogno di un approccio globale alla persona, non solo clinico, ma anche di una risposta complessiva ai bisogni sociali, psicologici, di solitudine, di isolamento che si possono generare. Pertanto, è indispensabile all’interno del Distretto un confronto ed una collaborazione tra cure primarie e DP, partendo da tutti gli interventi di promozione alla salute e prevenzione che possono essere messi in campo. Il DP attraverso l’analisi degli ambienti di vita e di lavoro contribuisce ad alimentare il profilo di salute della popolazione e all’individuazione di aree o situazioni di rischio. La CdC e l’applicazione di tutti gli strumenti di integrazione individuati possono realizzare quel sistema di relazioni, conoscenza e fiducia tra i protagonisti del sistema salute e le persone, in grado di individuare precocemente i soggetti fragili, farsi carico delle loro necessità accompagnandoli con interventi coordinati e graduati secondo un approccio di intensità di cura.
Acronimi
- AD: Assistenza Domiciliare
- AFT: Assistenza Farmaceutica territoriale
- ASA: Assistenza Specialistica Ambulatoriale
- ASL: Azienda Sanitaria Locale
- AUSL: Azienda Universitaria Sanitaria Locale
- CCI: Indice di Comorbidità di Charlson
- CdC: Casa della Comunità
- CdS: Casa della Salute
- COT: Centrale Operativa Territoriale
- DCP: Dipartimento di Cure Primarie
- DP: Dipartimento di Prevenzione
- DSM: Dipartimento della Salute Mentale
- FED: Farmaceutica ad Erogazione Diretta
- LEA: Livelli Essenziali di Assistenza
- MCA: Medici di Continuità Assistenziale
- MMG: Medici di Medicina Generale
- OdC: Ospedali di Comunità
- PAI: Programma di Assistenza Individuale
- PDTA: Percorsi Diagnostico Terapeutico Assistenziali
- PHC: Primary Health Care
- PLS: Pediatri di Libera Scelta
- PNP: Piano Nazionale della Prevenzione
- PNRR: Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
- PPDTA: Percorsi Preventivo Diagnostico Terapeutico Assistenziali
- PRI: Piani Riabilitativi Individuali
- PUA: Punti Unici di Accesso
- SDO: Schede di Dimissione Ospedaliera
- SSN: Servizio Sanitario Nazionale
Bibliografia
AGENAS. (2021). DM 71: Modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza nel territorio. 16° edizione del Forum Risk Management in Sanità.
Barsanti, Bonciani. (2017). Il Quaderno delle Case della Salute.
Blackwell, Colmenar. (2000). Community Building: From Local Wisdom to Public Policy. Public Health Reports, (113), pag.167-173.
Longo, Barsanti. (2021). Comunity Building: logiche e strumenti di management. Comunità, reti sociali e salute. Università Bocconi, MES Sant’Anna, Egea.
Mitchell Waldrop M. (1996). La complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos. Instar libri, 2ª edizione.
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Morin E, Anselomo A, Gembillo G. (Eds) (2017). La sfida della complessità. GaiaMente.
Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. (2021).
Turco L. (2007). Incontro nazionale “La Casa della Salute: un progetto del Ministero della Salute”. Roma.
Walter. (2004). Community Building Practice In M. Minkler (ed.), Community Organizing and Community Building for Health (2nd ed.) New Brunswick, N. J. Rutgers University Press.
WHO Clinical Consortium on Healthy Ageing Topic focus: frailty and intrinsic capacity. (2016) Report of consortium meeting 1–2 December 2016 in Geneva, Switzerland.
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