Cap. 13 – EDUCARE ALLA SALUTE PER INVECCHIARE IN SALUTE

Capitolo del Manuale per operatori “educare alla Salute e all’Assistenza”

Autori: Marco Trabucchi

Indice

Torna all’indice del manuale

Questo capitolo diversamente dagli altri propone una serie di indicazioni in forma divulgativa, fondate sui risultati della ricerca bio-medica, su come “invecchiare bene”: è materiale utile per tutti gli operatori che potranno a loro volta avvalersene con i propri assistiti, quando ne ravvisassero l’opportunità e, perché no, anche per tutti noi che leggiamo questo manuale che come ogni persona, lentamente ma inesorabilmente, invecchiamo.

(Nota della Redazione)

La non facile impresa di costruire il proprio futuro

Gli anni passano e nessuno è ancora riuscito a bloccarne l’evoluzione. Alcuni centri di ricerca molto avveniristici stanno provando a identificare i “segnapassi” del tempo, ma non sono prospettive che ci interessano oggi. D’altra parte, abbiamo sempre presente quanto affermato da Proust molti anni orsono: “Il tempo non è visibile e per manifestarsi si impossessa dei corpi”.

Il nostro problema non è quello di combattere una battaglia illusoria contro gli anni, ma di fare in modo che i cambiamenti siano il più lenti possibile, evitando comportamenti errati che possono accelerare l’evoluzione già dettata dal tempo. Quindi nessun miracolismo né superficiali tentativi di cancellare gli anni, ma un impegno serio per mantenere il corpo e la mente nella condizione migliore per affrontare gli anni che passano e compatibilmente con l’età: questo deve essere l’obiettivo umanissimo nostro e delle persone che invecchiano intorno a noi, con il supporto di indicazioni tecniche offerte da una medicina attenta e sensibile.

Queste tematiche oggi sono al centro di molti interventi, non sempre lineari dal punto di vista culturale e operativo; è quindi necessario un impegno serio per diffondere tra i cittadini (e quindi anche tra gli operatori che devono consigliarli) indicazioni serene e utili, fondate su prove serie e dettate dal solo desiderio di migliorare la condizione di salute delle persone che invecchiano. Invece purtroppo, spesso, si diffondono modelli di comportamento dettati da pseudoideologie salutiste, da interessi commerciali, da banalità che si diffondo senza controllo nella rete. Si pensi a quante affermazioni sono state fatte attorno al cibo e quante di queste siano assolutamente prive di fondamento e, allo stesso tempo, invece, fonte di ansie, di preoccupazioni, di disagio nel cittadino. La preoccupazione per mangiare in modo corretto toglie ogni soddisfazione per il cibo; basterebbe questo per ritenere assolutamente inutile e dannosa l’attuale insistenza in questo campo per adottare questa o altra dieta.

Anche se di ben diverso livello di serietà, non si può non ricordare come certe indicazioni della letteratura scientifica talvolta portino a conseguenze negative per il benessere delle persone. Si pensi alla recente affermazione per cui la pressione arteriosa massima non deve superare i 130; in conseguenza di questa indicazione, circa la metà dei cittadini degli Stati Uniti deve essere considerata ipertesa. Di fatto la trasposizione dei dati degli studi sperimentali (in particolare lo studio Sprint) alla pratica di tutti i giorni porta a una diffusa medicalizzazione, con conseguenze ovvie non solo sul rischio di effetti negativi (le cadute), ma soprattutto sulla serenità dei cittadini, ansiosamente impegnati nell’abbassare i loro livelli pressori, e quindi diventando farmacodipendenti. Non è questo il modello di prevenzione che potrà assicurare in futuro una vecchiaia serena e in salute. Il modello di perfezione biologica (livelli supercontrollati di glicemia, colesterolemia, pressione, ecc.) non è certamente quello che porterà ad invecchiare bene!

Fortunatamente non è mai troppo tardi per incominciare, perché la struttura dell’individuo segue una linea continua, sulla quale ci si può inserire con atteggiamenti positivi (talvolta anche negativi) in qualsiasi momento. Ovviamente, prima si inizia meglio è, ma anche a ottant’anni si può ottenere qualche risultato se ci si impegna in maniera adeguata.

Non è questa la sede per riassumere in poche righe cosa sia necessario per “Aging well” (invecchiare bene); prima di tutto però è importante dare attenzione a questa dizione, diversa rispetto a quella più diffusa di “healthy aging”. Infatti si deve considerare che si può invecchiare bene anche coesistendo con alcune malattie, che non è stato possibile prevenire nonostante corretti stili di vita. L’obiettivo non è quello teorico di una salute assoluta, ma quello di essere capaci di convivere con una serie di problemi di salute, che però sono controllati, non impediscono il mantenimento dell’autosufficienza e non interferiscono con il benessere psichico.

Per raggiungere questo equilibrio si deve accettare che l’età lasci i suoi segni, cercando di ridurne la capacità di incidere sul corpo e sulla mente. Chi rifiuta di vivere il tempo, ed i suoi segni più o meno visibili, si mette in una condizione di continuo disagio, alla ricerca di equilibri molto spesso irraggiungibili. A questo proposito anche la dizione “successful aging” è ambigua, perché propone un modello competitivo che nulla ha a che vedere con la realtà della fatica di vivere e dei risultati che possono o meno essere raggiunti.

L’uomo contemporaneo vive più a lungo del passato e vive meglio; se la vecchiaia fosse una malattia si tratterebbe di una malattia molto “elastica” e mutevole; è invece più logico pensare che la struttura biologica dell’individuo rappresenta una tavola di fondo, sulla quale agiscono vari aspetti vitali che danno forma alla vita stessa. Il fenotipo umano è quello plasmato dal tempo; è quindi necessario definire le circostanze che inducono atteggiamenti utili a mantenere la salute o il contrario. La vita costruisce il “fenotipo instabile”, la massima espressione dell’umanità, perché almeno parzialmente indipendente dalla rigidità genetica-biologia. Il tempo è costruttore di identità in continuo movimento (interessante e difficile è invece la definizione di ciò che è stabile…); la loro variazione va analizzata con attenzione, perché di estrema importanza rispetto alla forma che la vita assume in età avanzata (Trabucchi M, 2016).

Noi siamo una continua stratificazione di ricordi che si sono inseriti nel tempo. La persona è al centro di un circuito vitale: i sensi, i rapporti con gli altri e con il mondo permettono alla memoria di conservare i messaggi, che poi tornano alla vita, anche se apparentemente erano spariti, quando uno stimolo entra inatteso nel raggio dei sensi. Ovviamente in mezzo avviene una profonda trasformazione dei contenuti che la memoria conserva; interpreta infatti la realtà secondo le proprie regole, costruite sulla lunga storia di ogni individuo; ad esempio, il dolore fisico e psichico esercitano un’influenza non lieve sulla trasformazione dei ricordi nel tempo. Triste sarà il giorno, già da taluni preconizzato, anche se ancora non definito, quando sarà possibileliberarci definitivamente della nostra storia attraverso un farmaco; non solo dei ricordi traumatici, ma di qualsiasi evento spiacevole. Come potrebbe vivere un uomo o una donna solo con ricordi felici? Certamente sarebbe un’umanità povera e alla fine disperata, perché la felicità non ha storia senza il dolore! La memoria si approfondisce nelle cellule e le trasforma attraverso meccanismi complessi, non del tutto noti, che vedono in gioco molti diversi fattori.

A proposito delle interpretazioni sul rapporto tra stili di vita e vita che si plasma sono di grandissimo significato le parole di Farina (2016): “È una precisa presa di distanza da una secolare tradizione, quella che presenta l’identità come sostanza; la visione contemporanea osa invece presentare l’identità come narrazione, storia, relazione. Dall’assoluto al relativo, in cui èpossibile cogliere il passaggio da un soggetto che basta a se stesso ad uno che costruisce la propria identità alla presenza dell’altro: dall’autobiografia alla biografia”. La lezione tomista viene arricchita dal personalismo cristiano, che mette al centro la relazione che rende l’individuo persona. La vita non si costruisce da sola, ma è una realtà in mezzo alle altre e ne subisce l’influenza. Ciò vale anche nelle situazioni più compromesse, come nel caso di chi è affetto da demenza, perché la relazione mediata dai sensi è sempre attiva, sebbene talvolta in modo apparentemente incomprensibile.

L’espressione dei geni, che rappresenta “il punto di partenza” di ogni momento della vita, è regolata dall’ambiente; però non si tratta di una sorta di dualismo, perché i geni nella loro costante evoluzione sono essi stessi “ambiente”. In questa prospettiva non vi è un confine rigido tra fattori che inducono resilienza e fattori di rischio; la vita è un continuum, in un movimento sempre complesso, nel quale agiscono fattori diversi. È quindi logico interpretare i dati, anche provenienti da studi seri, ma ancor più quelli aneddotici, con grande attenzione, per evitare letture semplicistiche che non apportano vantaggi per la vita e il suo divenire.

Si pensi, ad esempio, alle problematiche legate al movimento, che hanno fatto scrivere un famoso articolo sul New York Times (29 aprile 2016): “Better aging through practice, practice, practice. I can’t promise this will prolong your life. But it will improve it!”. Sono intuizioni, che provengono da varie fonti, però manca ancora una descrizione analitica di come fare per trasformare l’invito al movimento in una indicazione completa sul se, il quando, il come… Secondo taluni non sarebbe mai troppo tardi; un’ipotesi affascinante, perché saremmo sempre in grado di esercitare la plasticità di cervello, muscoli,cuore, respiro… Sono interessanti a questo riguardo i dati che collegano la salute al luogo dove si vive, perché l’ambiente urbano ha le potenzialità per concorrere sostanzialmente allo svolgere, tra l’altro, una soddisfacente attività fisica. Ovviamente il rapporto è mediato anche dalle condizioni socioeconomiche della persona, perché nei quartieri più “accoglienti” abitano cittadini più abbienti (come è stato dimostrato in diversi studi, sia in Italia che in altri paesi). È un altro esempio della complessità delle determinanti di salute a tutte le età e di come le risposte semplificatrici non siano realistiche e spesso, quindi, non possano nemmeno rappresentare la base per interventi educativi.

Il processo di invecchiamento risponde ad una regola precisa: lo stile di vita passato e presente determina in buona parte la condizione di salute psicofisica in età avanzata. Quindi dare attenzione alle modalità con le quali ogni donna ed ogni uomo ha trascorso e trascorre il tempo di vita è il punto di partenza per costruire una terza e quarta età in salute.

In premessa si deve ricordare che le scelte che caratterizzano una vita sana non sono mai facili (“Invecchiare è un arte difficile”); infatti il tempo passato è caratterizzato da fattori, quali il lavoro, l’ambiente, le relazioni, gli stili di vita, nei quali si mescolano momenti positivi e momenti negativi, alcuni determinati da scelte volontarie, altri da circostanze immodificabili, condizioni fortunate e sfortunate, ecc. Il tentativo degli studi più avanzati in questo campo è analizzare i singoli aspetti, ben sapendo che interagiscono tra loro in modo complesso, secondo regole che non possono essere predeterminate. Occorre quindi evitare interpretazioni semplicistiche, puntando invece ad una comprensione del singolo individuo e della sua storia attraverso una corretta valutazione multidimensionale (Trabucchi M, 2014).

Torna all’indice del capitolo

Non è facile invecchiare bene

La letteratura scientifica in questi anni ci presenta frequentemente dati che indicano l’esigenza di stili di vita “sani” per prolungare la durata stessa della vita ed evitare la comparsa di malattie fortemente invalidanti, come la demenza. Qualcuno potrebbe essere sorpreso da questa insistenza, interpretabile come il tentativo della medicina di bilanciare i relativi insuccessi in tempi recenti nel campo della grandi malattie croniche (neurodegenerative, cardiovascolari, osteoarticolari). D’altra parte è ben noto che la medicina come insieme di saperi specifici si è attribuita non più del 30% dei meriti per il grande aumento della spettanza di vita verificatosi in questi ultimi decenni; una posizione equilibrata, che lascia spazio alla definizione degli eventi che determinano l’altro 70%! Però, nonostante queste incertezze di fondo, i dati degli studi più recenti sono seri, costruiti in modo corretto sul piano metodologico; contengono quindi messaggi credibili, che ci insegnano molto, mentre è necessario opporsi a visioni che banalizzano le modalità per ben invecchiare. La mancanza di indicazioni assolute non autorizza a legittimare qualsiasi approccio senza prove di efficacia, spesso caratterizzato da interessi commerciali e da superficialità evidenti. Infatti non è facile invecchiare bene; richiede scelte difficili sul piano psicologico e impegnativo su quello pratico della vita di ogni giorno. Chi pensa sia un gioco risolvibile in qualche atto di buona volontà rischia di banalizzarerealtà ancora non chiare e di lasciare spazio a qualsiasi intervento commerciale. Fino a che non sarà chiaro nei centenari quali sono le determinanti genetiche di un invecchiamento “lungo”, non sarà possibile mettere assieme indicazioni credibili, in uno scenario ancora dominato da proposte tra loro contradditorie e spesso chiaramente inconsistenti. Il New York Times del 17 novembre 2017 ha dedicato una pagina intera a discutere il problema della genetica dei supercentenari (110 anni e oltre); le conclusioni sono sempre le stesse: grandi attese, ma ancora poche certezze.

Uno degli aspetti più rilevanti che determinano la struttura della vita in età avanzata è il lavoro. Ci si domanda se e come abbia eventualmente lasciato segni negativi sulla struttura psicofisica di chi invecchia, oppure se abbia allenato la persona ad una continua risposta alle difficoltà. Ovviamente i lavori usuranti hanno esercitato azioni negative sulla struttura fisica e psichica dell’individuo; ma dove si colloca il confine tra una stimolazione positiva ed una dannosa? Non vi sono risposte precostituite né scale di valutazione con precisi cut-off; è la vita che nel suo insieme non può entrare in schemi precostituiti, anche nell’epoca degli algoritmi più avanzati.

L’ambiente povero e inospitale esercita in generale un’influenza negativa sulla salute e sulla durata stessa della vita. Il punto critico è identificare se vi siano meccanismi di resilienza esogeni o endogeni (anche di origine genetica), che permettono all’individuo di gestire positivamente la propria posizione in ambienti “patogeni”, ad ogni età. In questa prospettiva conta molto la quantità e la qualità delle relazioni, perché fungono da tampone rispetto ad un ambiente fisico non agevole (ad esempio, la casa, il quartiere, ecc.). In questa prospettiva la solitudine non ricercata, ma imposta dalle circostanze, è un aspetto negativo, perché l’accompagnamento, la vicinanza, il supporto sono fondamentali per vivere bene e a lungo. La solitudine della donna è mediamente meno drammatica rispetto a quella dell’uomo; quest’ultimo, infatti, quando è solo non riesce a mantenere buoni rapporti sociali (oltre a quelli legati al lavoro non ne ha coltivati molti) ed è privo delle capacità pratiche per sopravvivere decentemente. La donna, invece, ha costruito nel tempo reti relazionali più o meno intense, ma sempre utili nel momento del bisogno; dobbiamo però porci seriamente l’interrogativo di quanto durerà questa differenza sotto la pressione dei cambiamenti del costume.

Gli stili di vita insalubri rappresentano un altro scoglio per una vecchiaia in salute. L’attività fisica e mentale, una corretta alimentazione, il ricorso attento, ma senza dipendenza, dai servizi sanitari sono aspetti diversi di modalità che portano ad una lunga vita. Ovviamente non è mai troppo presto per iniziare, però non è mai nemmeno troppo tardi; anche se è “un’arte difficile” cambiare atteggiamento a 70 anni, è necessario insistere sul criterio che alcuni benefici possono sempre essere raggiunti (Rozzini, 2014).

Recentemente un articolo sulla prestigiosa rivista inglese Lancet ha dimostrato in un gruppo di 15.000 americani, seguiti per 14 anni, una sopravvivenza media superiore di 7 anni in chi non aveva fumato, aveva bevuto alcolici in quantità moderata (meno di 14 drink alla settimana per gli uomini e 7 per le donne) e non era obeso. Oggi la spettanza di vita media negli Stati Uniti è di 78 anni per gli uomini e di 82 per le donne; nel gruppo delle persone attente a non fumare, a bere poco e ad alimentarsi in modo razionale in modo da non ingrassare la vita media passa a 85 anni per gli uomini e a 89 per le donne. Il dato diventa ancora più significativo se letto nella prospettiva di una persona di 50 anni, perché questa guadagnerebbe in media circa 12 anni in più di vita se segue uno stile di vita sano. Una differenza drammatica… ciascuno di noi normalmente combatte per recuperare spazi vitali di qualche ora; queste scelte salutari regalerebbero, invece, un tempo prezioso per fare moltissime cose, che forse avevamo ipotizzato di realizzare, ma che temevamo di non aver il tempo sufficiente per soddisfare! È una differenza drammatica (o entusiasmante, a seconda che se ne voglia leggere il peso rispetto alle responsabilità dell’individuo o il vantaggio in termini assoluti), che nessuna tecnologia medica oggi riesce a garantire! Si deve notare che le tre condizioni hanno un peso diverso dal punto di vista della “fatica” imposta all’individuo; infatti, oggi è relativamente facile astenersi dal fumo, così come evitare un forte consumo di alcol. Diverso è invece il problema dell’obesità, aspetto difficilmente controllabile, anche alla luce dei dati che vedono oggi negli Stati Uniti un progressivo e continuo aumento del numero delle persone largamente in sovrappeso; lo stesso studio indica che in USA le persone tra i 50 e i 60 anni per l’80% hanno fumato o sono obese. Peraltro non vi sono significative differenze di genere in età adulta rispetto al tasso di obesità (Stringhini, 2017).

Come si può constatare dalle righe precedenti, non si tratta di aspetti tra loro separati, perché nel tempo di vita una persona può aver contemporaneamente sperimentato un lavoro pesante, aver vissuto in una ambiente povero e inospitale, da solo, e senza osservare le regole di uno stile di vita salubre. Il punto cruciale è capire come queste circostanze interagiscono con la strutture genetica della persona per produrre le risposte di salute, ma, in particolare, come è possibile intervenire anche in età avanzata per permettere una resilienza dell’individuo che così si sottrae -almeno parzialmente- ad una storia negativa.

Vivere a lungo dipende in buona parte dalle nostre scelte personali. Quando qualche anno fa si era diffuso lo slogan “Invecchiare non è una malattia”, questo si fondava su considerazioni simili, cioè che la persona è più forte della sua struttura genetica (Bianchetti,1987). Certamente le malattie accompagnano la vita in età avanzata, ma non sono il necessario accompagnamento degli anni. Questa certezza, rinforzata dagli studi soprariportati, è importante per convincere anche i più scettici che si può sempre iniziare, anche in età molto avanzata, a cambiare stili di vita. Non è vero che “ormai è troppo tardi” nella vita di ciascuno: tutti devono esserne profondamente convinti. Si tratta di raggiungere un equilibrio tra il ricorso alla medicina, alle tecnologie diagnostiche, ai farmaci, spesso indispensabili per la nostra salute, e la libera, responsabile capacità del singolo di indirizzare la sua vita. Un equilibrio che richiede tempo per costruire convincimenti non sempre facili, da raggiungere con pazienza. L’educazione al ben vivere deve invitare con serenità e determinazione a trovare l’equilibrio necessario tra un rapporto acritico con la medicina (che spesso si trasforma nel tempo in scetticismo) e la fiducia nella propria personale capacità di guidare la vita (anche in questo campo è necessario equilibrio, perché non deve diventare una dipendenza da pratiche esoteriche, da prescrizioni cervellotiche, da personaggi strani).

Torna all’indice del capitolo

Progetti chiari e serenità

Idee chiare e serenità sono due caratteristiche irrinunciabili per vivere bene: idee chiare vuol dire conoscere le regole fondamentali per un comportamento corretto, serenità significa applicare le indicazioni senza angoscia, senza farne una forma di dipendenza.

Un’attività fisica continua, libera dalla pigrizia o dal senso di inutilità; avere interessi di ogni tipo, purché in grado di stimolare l’attività dell’encefalo (quindi non solo culturali o “matematici”, ma soprattutto frutto di relazioni, di conoscenze, di dinamiche anche forti); vivere in un ambiente che crea benessere (purtroppo una condizione che spesso non dipende dal singolo); una famiglia che “tiene” e costruisce un supporto sempre vigile; una rete amicale e di vicinato efficiente; la sicurezza nel luogo di vita; la tranquillità economica; la presenza di servizi adeguati, in grado di intervenire in modo rapido di fronte ad una richiesta di aiuto più o meno esplicita; la possibilità di fare qualche cosa di utile per sé e per gli altri, attraverso un lavoro volontario o remunerato. Sono condizioni, che tra loro variamente associate, permettono un invecchiamento in salute, che non è un’”arte”, ma la continua ricerca di normalità. Troppa retorica è stata costruita intorno a persone che vivono bene in età avanzata come se avessero scoperto qualche segreto nascosto. Ancor peggio è quando si insiste, per ragioni prevalentemente commerciali, sull’adozione di pratiche “antiaging”. Non è una vicenda di farmaci, di pozioni più o meno magiche, come peraltro ci ha insegnato la storia del ventesimo secolo, costellata da effimere scoperte per allungare la vita. “Si invecchia come si è vissuti”, in una condizione di normalità che varia ogni giorno in base agli stimoli ricevuti dalla vita stessa, cioè le relazioni interpersonali e l’interazione con l’ambiente fisico nelle sue più diverse espressioni. È un continuo impegno di adattamento, non facile e che richiede intelligenza, attenzione, curiosità; però, così è la vita, se si vuole evitare che diventi davvero un momento di perdita, di tristezza, di dolore. Il cambiamento deve costruirsi iniziando con la distruzione di alcuni vecchi miti, come quello della salute che andrebbe scemando in modo progressivo e catastrofico. Bisogna invece fondarsi su alcune certezze, dimostrate sia sul piano umano-esperienziale che su quello scientifico. Platone, Michelangelo, Goethe, ma anche molti nostri contemporanei, smentiscono che vi sia una perdita di creatività legata all’età. Verdi ha scritto l’Otello a 74 anni e il Falstaff a 80; così Andrea Camilleri conserva una strabiliante capacità creativa anche oltre i 90 anni. Oggi l’anziano si trova a dover esercitare la sua creatività in un mondo dominato da informazioni senza ordine, da mille stimoli dei quali spesso è impossibile riconoscere l’origine. Anche questa è una nuova sfida per i baby boomer: conservarsi capaci di creare nella propria vita spazi sempre nuovi, districandosi in un flusso continuo di stimoli, difficili da interpretare e ancor più da collocare in una logica che possa essere utilizzata per ben vivere.

L’importanza delle relazioni per la costruzione del sé è stata valorizzata da molti studi; l’identità individuale è al centro di dinamiche complesse con l’ambiente, che diviene oggetto di intervento e soggetto di effetti per la costruzione dell’individuo stesso. Si tratta di dinamiche difficili, equilibri delicati che possono facilmente rompersi sia per la debolezza della persona (quand’anche non compaia una malattia come la depressione che limita la capacità di relazione o l’individuo non abbia adeguatamente caratterizzato la propria struttura personologica) sia per la “durezza” dell’ambiente, non sempre sufficientemente aperto al soggetto che cerca di costruire ponti attorno a sé.

Una considerazione particolare può essere fatta sulla città come luogo per abitare; uomini e donne devono poter vivere in un ambito accogliente, sicuro, con servizi adeguati ed accessibili. Non è sempre così: allora bisogna intervenire non con la presunzione di cambiamenti rapidi e incisivi, ma con la continua proposizione di momenti che mettano al centro l’amicizia, la convivialità, il rapporto sereno! Puntare sulla cortesia e sul vicinato può trasformare la città da luogo alienante, anonimo, confuso, pericoloso, in uno dove è a poco a poco recuperabile la dignità della persona attraverso la ricchezza di rapporti cortesi.

Non vi è dubbio che l’attività fisica esercita una funzione centrale nel mantenimento di una buona salute in età avanzata. Il dato è apparentemente indiscutibile; vi sono però una serie di indicazioni della letteratura secondo le quali nessuno studio controllato sarebbe stato in grado di confermare questa affermazione. È una discrepanza difficile da comprendere che invita ad analizzare criticamente gli studi scientifici, non per adottare un atteggiamento scettico a priori, ma per individuare metodi di studio e ricerca che diano più garanzie rispetto ad altri.

Il British Medical Journal del 22 giugno 2017 ha pubblicato un articolo secondo il quale non vi è un effetto protettivo dell’attività fisica rispetto al declino cognitivo e alla demenza dopo un osservazione durata 28 anni, in una popolazione di oltre 10.000 persone. Il dato è rivoluzionario rispetto a quanto sostenuto da molti altri studi; andrà quindi analizzato con grande attenzione. Non vi è però dubbio che si apre una discussione rilevante, sia sul piano di una revisione metodologica degli studi fino ad ora realizzati, sia su quello del valore clinico del dato, perché l’effetto protettivo dell’attività fisica è stato sempreritenuto indiscutibile. Èuna situazione nella quale sia l’esperienza diretta degli operatori sanitari sia quella dei cittadini prevale sulle indicazioni degli studi controllati: peraltro è una questione delicata, perché affermare il principio della prevalenza dell’esperienza sulla scienza è estremamente pericoloso. È possibile sostenere che gli studi non siano stati in grado di cogliere la complessità del reale e quindi giustificarne la relativa inadeguatezza. Dobbiamo però essere molto attenti! (Althoff, 2017).

Una rivista medica intitolava un articolo: “Gli anziani ricchi e sposati hanno telomeri più lunghi” (Yen Y-C e Lung F-W, 2013); qualcuno potrebbe ritenere azzardato un collegamento così stretto tra la qualità della vita ed un parametro biologicodi riproduzione cellulare… Però è indubbia la correlazione tra un certo stile di vita e le sue ricadute biologiche; ancora una volta si crea un circolo virtuoso, per cui l’interesse per la vita induce ad una vita attiva (ricca in termini di relazioni e di stimoli), la quale a sua volta produce modificazioni della struttura biologica, le quali a cascata stanno alla base di una vita sempre più piena e significativa. Vi sono, ad esempio, studi interessanti sul rapporto tra la curiosità, l’interesse e modificazioni biologiche che avvengono nel cervello; in questo ambito si collocano anche gli studi sulla solitudine, che portano arisultati non sempre chiari, ma che permettono interessanti elaborazioni. Infatti se si considera la solitudine imposta, non desiderata, essa è causa di un appesantimento della vita e di un’ulteriore riduzione delle dinamiche di relazione. Ciò porta frequentemente ad una condizione di salute deteriorata e ad un accorciamento della vita stessa; numerosi studi hanno analizzato questa relazione che sembra mediata dall’aumento dei fattori che regolano l’infiammazione e gli ormoni dello stress. Diversa è, invece, la sorte di chi accetta la solitudine come evento della vita e si attrezza per gestire da solo il tempo e i relativi problemi che possono comparire: è mediamente caratterizzato da una migliore condizione di salute e da una sopravvivenza prolungata. Questi eventi testimoniano direttamente come una stessa condizione apparente possa essere vissuta in modo diverso in base al coinvolgimento con le realtà esterne, e come la vita premi un atteggiamento invece di un altro. La scelta individuale conta di più dei fattori oggettivi: un fenomeno che ha valenze di rilievo in molte fasi della vita. Ciò vale anche per le differenze di genere, perché la donna ha modalità di relazione peculiari, che variano negli anni. Conosciamo bene, infatti, la capacità della donna anziana di vivere in equilibrio l’età avanzata anche da sola, ritrovando propri motivi di senso; è, però, necessario analizzare il fenomeno alla luce dei forti cambiamenti del costume che avverranno nei prossimi anni e che potrebbero modificare profondamente queste dinamiche.

Nella costruzione del futuro la memoria ha un ruolo centrale; infatti il presente e il futuro sono espressioni del passato, mediato da fattori genetici, psicologici, ambientali, relazionali. Senza il ricordo saremmo senza passato, senza memoria saremmo senza futuro. Memoria e ricordi costruiscono la profondità dell’io; cosa saremmo quindi se fosse preclusa la possibilità di ricordare? Lo smemorato è una persona? A questa domanda dai risvolti filosofici si potrebbe dare una risposta indiretta, affermando che il corpo è custode implicito del passato, anche se il cervello non esprime più la capacità di ricordare ciò che è avvenuto.

La memoria va difesa attraverso l’impegno della persona a costruire contenuti di interesse, che possano essere depositati nel cervello e poi recuperati nel tempo. In alcuni casi le malattie impediscono alla memoria di espletare il suo ruolo centrale; le diverse forme di demenza rappresentano un esempio particolarmente grave (lo studio delle funzioni cognitive e delle modalità per preservarle riveste quindi un’importanza straordinaria!).

La memoria ha un nemico: lo stress. La vita impone spesso ritmi esterni rispetto alle scelte individuali, che talvolta vengono accettati volentieri e incorporati nelle consuetudini, mentre altre volte sono intrusioni che impongono modelli di comportamento pesanti e frustranti. Questa duplicità di effetto si riscontra in un numero elevato di persone, conconseguenze sulla possibilità di rievocare il passato con precisione e serenità (Smith, 2016). Talvolta lo sforzo di essere sempre adeguati -anche quando le condizioni oggettive di salute, di stanchezza, di disagio dovrebbero indurre a rallentare, ad assumere un atteggiamento critico rispetto a ritmi eteroimposti, ad accettare di vivere al minimo, senza però rinunciare alla costruzione dei propri ideali e dei propri obiettivi- rischia di bruciare ogni speranza e ogni futuro, perché il tempo è consumato nella corsa. Il punto discriminante tra lo stress che distrugge e quello che invece indica la strada per crescere è proprio la capacità di costruire, anche quando comporta impegno, coraggio, fatica.

Torna all’indice del capitolo

Un invecchiamento in salute, tra realtà e speranze

Nelle pagine precedenti si è fatto riferimento al tempo come l’elemento centrale dell’esperienza, attorno al quale si costruiscono le scelte di ciascuno. Il tempo segna la vita e al suo interno si svolge la vita. Soprattutto è il luogo delle sconfitte, delle vittorie e della resilienza, la capacità umana di resistere alle crisi senza esserne schiacciata, ritrovando più o meno rapidamente l’equilibrio. Di conseguenza, le parole chiave che accompagnano la vita sono da una parte il tempo, dall’altra la resilienza, costruita attraverso la conoscenza mirata, l’esperienza critica, il difficile cambiamento di atteggiamenti e di stili.

Come nella fisica, anche nella vita umana, che è biologia e spirito in una commistione imperscrutabile, l’equilibrio perfetto non può mai essere raggiunto. Tutto si evolve attraverso errori, prove, successi, fallimenti. Ne dobbiamo essere coscienti e accettare incertezze e alternanze; solo così costruiamo attorno a noi una rete di sostegno davvero forte, che permette di crescere in qualsiasi situazione e a qualsiasi età. Perché con gli anni si costruisce una vita e non una malattia, un mondo multiforme (anche quando presenta il volto del dolore e della sofferenza), e non solo di perdita.

A tutte le età la vita è un continuo riproporsi di eventi che divengono prodromi di altri, in una cascata che non è possibile interrompere. Oggi la scienza presenta nuove scoperte che potrebbero cambiare il futuro, la società adotta modelli di convivenza che si modificano sotto la pressione di nuovi costumi anche nel giro di pochi anni, l’esistenza umana nella sua espressione biologica più concreta (la durata) continua a modificarsi. In questo mondo dove nulla è fermo, come si colloca chi non rifiuta il cambiamento, ma vuole inserirvi il criterio del rispetto della propria personale dignità e quello verso i più deboli?

Le grandi analisi demografiche ed epidemiologiche nondevono indurre a ritenere di conoscere tutto l’universo; infatti la vita dell’individuo che invecchia è regolata dal processo umanissimo della differenziazione, che si accompagna al trascorrere del tempo e che rende unica ogni persona (Melloni AM. e Trabucchi M, 2016). Solo riuscendo a comprendere l’unità della condizione umana e la diversità degli esseri umani a tutte le età si superano gli stereotipi negativi che per tanto tempo hanno accompagnato la nostra cultura, per i quali il processo di invecchiamento indurrebbe un’omogeneizzazione dei comportamenti individuali, nel segno comune della perdita e del fallimento. Occorre guardare primariamente alla persona, collocata in uno scenario di fenomeni generali, al fine di comprenderne le reciproche interazioni. La persona in questa prospettiva tiene in mano la propria vita, con coraggio e determinazione.

Torna all’indice del capitolo

Aiutare a ben invecchiare nel tempo di crisi

Un riferimento specifico, alla fine di una trattazione sulla costruzione di un’età avanzata serena, è dato alla possibilità che gli “altri” possano contribuire in modo rilevante al raggiungimento dell’obiettivo. Non si invecchia da soli e nessuno è così forte da costruire con le sue forze un vivibile tempo futuro.

Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile, sempre”. Questa esortazione, da molti attribuita a Platone, indica una strada maestra per le relazioni sociali in ogni condizione del singolo individuo e dell’atmosfera collettiva. La gentilezza come modalità che caratterizza le relazioni, alla quale poi si aggiungono le specificità di un supporto mirato alle diverse circostanze e ai diversi bisogni, rappresenta il punto di partenza e di appoggio sul quale fondare una possibile resistenza dell’individuo di fronte alle asperità della vita, alle malattie, al dolore, alle turbolenze sociali. La gentilezza supera le barriere, i silenzi, i rifiuti; la gentilezza è il segno esteriore di una moralità profonda, di un desiderio sincero, che si esprime con atti visibili, di essere utile per alleviare la sofferenza dell’altro. La gentilezza non è mai noiosa, ripetitiva, pesante, ma sempre leggera, pur senza perdere di serietà e credibilità. Se esercitata dal singolo lo fa vivere bene, se esercitata da altri è davvero utile.

Un’altra caratteristica individuale di chi desidera facilitare il superamento delle crisi e delle loro conseguenze è l’ascolto sempre aperto e caratterizzato dalla tolleranza, atteggiamento di fondo anche verso chi esprime nei momenti di difficoltà richieste impossibili o atteggiamenti aggressivi poco consoni con l’ambiente. Spesso è difficile impostare un rapporto incisivo, essere accettati dalle persone alle quali si vorrebbe donare il proprio tempo; in molti casi questo fallimento, almeno iniziale, induce ad assumere atteggiamenti di chiusura o, all’opposto, di aggressività, nel tentativo di imporre la propria presenza, perché sarebbe “oggettivamente” positiva per l’altro. Questa crisi impedisce la realizzazione di interventi efficaci; si alzano muri, che poi restano e continuano a produrre aggressività reciproca. In questi frangenti deve avvenire la scelta della tolleranza come atteggiamento irrinunciabile, non discutibile, premessa a qualsiasi ulteriore rapporto. I risultati compaiono subito, perché si interrompe una catena di aggressività più o meno conscia. Qualcuno potrebbe sostenere che la reazione intollerante è connaturata ai comportamenti umani; pur riconoscendo parzialmente questa valenza, sappiamo anche che la tolleranza è sorella della generosità, e che quest’ultima è indispensabile per assumere atteggiamenti apparentemente non “naturali” (come potrebbe essere la tolleranza di fronte all’aggressività altrui). La persona fragile in difficoltà (chi è affetto da demenza, e non comprende cosa avviene attorno a lui nei momenti critici, e chi non ha l’autonomia motoria e psicologica sufficiente per uscire da solo da crisi dell’ambiente dove vive) ha bisogno di essere protetta, termine che esprime l’appoggio e l’accompagnamento nelle varie fasi della giornata, quando la solitudine e l’impressione di soccombere rende invivibile la vita di chi è fragile. L’anziano esposto alle crisi ha bisogno di tenerezza; se manca questa caratteristica del rapporto umano, i risultati sono minati dall’inizio, perché, come scrive Albert Camus, “un mondo senza amore è un mondo morto, e giunge sempre un’ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro, del coraggio, per reclamare invece il volto di un essere umano, e il cuore meraviglioso della tenerezza”. La tenerezza diventa sempre più un’emergenza sociale, nel tempo in cui verifichiamo, spesso con improvvisa drammaticità, la nostra vulnerabilità, il dolore che non abbandona e abbatte, la solitudine, le violenze diffuse.

La vicinanza umana a chi è in crisi non deve soffermarsi su aspetti futili, anche se talvolta la persona tende a portare al centro dell’interesse argomenti secondari, per l’incapacità di trasmettere i problemi reali o per mascherare le ragioni centrali che inducono sofferenza. La necessità di evitare la banalità si adatta sia a situazioni di scarso rilievo, quando sembra necessario utilizzare criteri di ripetitività per ragioni di tempo, vista la numerosità e la scarsa rilevanza del bisogno, sia, ad esempio, a gravi situazioni di salute, quando si devono prendere decisioni che riguardano la traiettoria vitale di una persona. La vicinanza non è banale se l’attore conserva la coscienza dell’importanza del suo atto sul piano concreto e su quello psicologico, cercando, allo stesso tempo, di trasmettere il messaggio che conferma l’importanza della relazione.

Torna all’indice del capitolo

Torna all’indice del manuale

Bibliografia
  • Althoff T, Sosič R, Hicks JL, King AC, Delp SL, Leskovec J (2017). Large-scale physical activity data reveal worldwide activity inequality. Nature 547:336-339
  • Bianchetti A, Rozzini R, Trabucchi M (1987). Invecchiare non è una malattia. Roma, Giunti
  • Farina M (2016). Il valore della persona umana e l’umanizzazione delle cure. Psicogeriatria 1:30-33, 2016
  • Melloni AM, Trabucchi M. (a cura di) (2016) L’anziano attivo. 6° Rapporto sulla vita nelle età avanzate. Rimini, Maggioli Editore
  • Rozzini R, Bianchetti A, Trabucchi M. (a cura di) (2014) Medicina della fragilità. Milano, Vita e Pensiero
  • Smith AM, Floerke VA,Thomas AK (2016). Retrieval practice protects memory against acute stress. Science 354:1046-1048
  • Stringhini S, Carmeli C, Jokela M, et al. (2017). LIFEPATH consortium. Socioeconomic status and the 25 × 25 risk factors as determinants of premature mortality: a multicohort study and meta-analysis of 1.7 million men and women. Lancet 389(10075):1229-1237
  • Trabucchi M (2016). I volti dell’invecchiare. Milano, San Paolo, 2016.
  • Trabucchi M (2014). I segreti di una vita sana e lunga. Bologna, Il Mulino, 2014.
  • Yen Y-C, Lung F-W (2013). Older adults with higher income or marriage have longer telomeres. Age Ageing 42:234-239, 2013.

Torna all’indice del capitolo

Torna all’indice del manuale

  

Lascia un commento