Capitolo del Manuale per Operatori di Sanità Pubblica “Governare l’Assistenza Primaria”
Autori: Giovanni Bertin e Marta Pantalone
Indice del capitolo
- Centralità del territorio e integrazione delle professioni
- Identità e riconoscimento reciproco delle competenze
- La medicina specialistica di fronte al cambiamento di paradigma
- Medicina Specialistica e Cure Primarie: la centralità dei processi di Governance
- Conclusioni
- Bibliografia
- Spazio discussione
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Centralità del territorio e integrazione delle professioni
La configurazione del tutto particolare che ha assunto il contesto epidemiologico negli ultimi decenni, con l’inversione della piramide demografica, l’invecchiamento della popolazione, la transizione epidemiologica e le malattie della “terza fase” (Alzheimer, Parkinson, conseguenze invalidanti di incidenti, Luzzi 2004), la “cronicità” e non autosufficienza come nuove dimensioni dell’assistenza, il mutamento della società “tradizionale” (famiglia, identità, reti sociali) hanno attivato una domanda di profondo cambiamento nei sistemi sanitari dei paesi occidentali. Questa spinta, per altro, collima con l’orientamento che l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce “care near to patient”. Il mutamento di contesto ha condotto all’assunzione di una visione organizzativa e manageriale in cui il territorio diventa caposaldo della cronicità e l’ospedale caposaldo dell’acuzie, collocando la gestione delle patologie croniche a livello territoriale.
Già con la Dichiarazione di Alma Ata (1978) è stata riconosciuta la centralità dell’assistenza sanitaria di base (Primary Care) come attività “essenziale, fondata su metodi pratici e tecnologie appropriate, scientificamente valide e socialmente accettabili, resa universalmente accessibile agli individui, e alla collettività, attraverso la loro piena partecipazione, a un costo che la collettività e i paesi possono permettersi ad ogni stadio del loro sviluppo nello spirito di responsabilità e di autodeterminazione”. Essa viene definita come “parte integrante sia del sistema sanitario nazionale, di cui è il perno e il punto focale, sia dello sviluppo economico e sociale globale della collettività primo livello attraverso il quale gli individui, le famiglie e la collettività entrano in contatto con il sistema sanitario nazionale, avvicinando il più possibile l’assistenza sanitaria ai luoghi dove le persone vivono e lavorano, e costituisce il primo elemento di un processo continuo di protezione sanitaria” (OMS 1978).
La cronicità e i nuovi bisogni di salute (disabilità, dipendenze) corrispondono ad una richiesta sempre maggiore di capacità di dare continuità a percorsi di cura e di presa in carico dell’individuo, piuttosto che di focalizzazione sulla cura della malattia. Per queste ragioni i modelli di Primary Care sono diventati un tema molto importante in Europa (Corsalini, 2010). Il dibattito e le esperienze in atto evidenziano che questi termini sottendono (ed evocano) un cambiamento di paradigma, attorno al quale si stanno ridefinendo i processi e le dinamiche del processo di cura. Ripensare ad un nuovo paradigma del lavoro di cura con riferimento alla Primary Care (o meglio community care) risulta oggi difficile. Stiamo, infatti, attraversando una fase di trasformazione di natura sperimentale, che necessita di essere approfondita. È forse più utile provare a definire gli aspetti entro cui si sta sviluppando questo processo e indicare le piste che segnano l’innovazione in corso.
La compresenza di diverse patologie croniche deve, dunque, essere co-gestita da medici competenti ed aggiornati mediante una revisione delle dinamiche che tradizionalmente connettono i diversi attori che vi partecipano (specialisti ambulatoriali, medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e infermieri che devono ripensare alla loro identità professionale). Questi cambiamenti inoltre si devono confrontare anche con le modifiche proposte/imposte dallo sviluppo delle tecnologie della web society e dai nuovi comportamenti (anche nella gestione della salute) che tali dinamiche stanno attivando.
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Identità e riconoscimento reciproco delle competenze
La professione medica ha costruito la sua identità e i propri codici di riconoscimento attorno ad un sapere specialistico che ha trovato la sua massima espressione nello sviluppo dei servizi ospedalieri. Questo tipo di sviluppo dell’identità e del sapere ha portato a considerare (dagli utenti, ma in parte anche dagli operatori sanitari) i medici ospedalieri come portatori del vero sapere e quelli territoriali come ancelle organizzative e ‘burocratiche’ del sistema. Questa idea del sapere medico si sposa, per altro, con l’idea di sapere scientifico basato sulla scomposizione delle variabili che possono determinare una specifica condizione clinica, a fronte di un approccio olistico che cerca di costruire una valutazione clinica come prodotto complesso delle condizioni fisiche, psichiche e sociali che caratterizzano la singola persona. Questa rappresentazione, sicuramente semplicistica, delle identità professionali è stata messa in crisi dalla carta di Ottawa (1986) che ha sottolineato la centralità del territorio e la necessità di integrare un sapere specialistico con uno di tipo olistico che considera le persone nella loro globalità. Fino ad ora questi saperi sono stati vissuti dai professionisti, ma anche dagli utenti dei servizi, come gerarchicamente sequenziali, per cui si tende a pensare che il vero sapere è quello specialistico. Questi stereotipi culturali finiscono per creare l’idea di figure professionali (i medici in particolare) di serie A e di serie B, dove, ovviamente la serie A è rappresentata dal sapere specialistico.
Un altro elemento che differenzia le culture professionali della sanità riguarda il contesto organizzativo (Tabella 1). Da una parte si parla di medici ospedalieri e dall’altra di medici che operano nel territorio (si tratti di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta o specialisti ambulatoriali). Nel primo caso si tratta di professional che agiscono come dipendenti all’interno di sistemi organizzativi complessi, mentre nel secondo di liberi professionisti abituati a lavorare da soli. Ovviamente le culture organizzative e le abitudini nella gestione della quotidianità professionale risultano profondamente diverse. L’autonomia decisionale, il rapporto con autorità e potere, la necessità di condivisione e di organizzazione del tempo sono profondamente diversi e, conseguentemente, portano a sviluppare competenze organizzative diverse (saper stare in una organizzazione complessa versus autonomia e intrapresa). Queste diverse culture organizzative e identità professionali non hanno nel tempo sviluppato capacità d’integrazione, ma anzi diffidenza e scarsa legittimazione reciproca. Lo sviluppo di un sistema territoriale non può prescindere dalla legittimazione reciproca delle professioni in campo e dalla ridefinizione di un sapere integrato, capace di far sintesi delle specializzazioni e della loro integrazione.
| Territorio | Ospedale |
Natura sapere | Olistico | Specialistico |
Relazioni fra professional | Inter-professionale (fra professioni e organizzazioni) | Intra-professionale (fra saperi specialistici) |
Cultura | Professione | Professione e organizzativa |
Le parole chiave sulle quali si gioca la centralità del territorio nel lavoro di cura sono riconducibili, quindi, alla legittimazione di un sapere olistico che deve integrare le conoscenze e le pratiche dei professionisti che possono essere coinvolti.
Possiamo parlare di integrazione fra professioni (operativa) con riferimento alle pratiche di co-azione da parte dei singoli professionisti che si trovano ad agire sullo stesso caso. Le esperienze d’innovazione riguardano l’integrazione fra:
- medici di medicina generale e medici specialistici che operano nel territorio;
- medici (in generale) che lavorano nel territorio e che gestiscono le cronicità e medici che lavorano nell’ospedale e intervengono (prevalentemente) nelle condizioni di acuzie della malattia;
- medici del territorio con altre figure sanitarie che operano nel territorio o nelle strutture ospedaliere;
- professioni sanitarie, in generale, con quelle non sanitarie sociali, educative (ecc.) che intervengono nel lavoro di cura.
La centralità dei processi di integrazione e la necessità di ripensare al paradigma che caratterizza le professioni sanitarie verso logiche di tipo olistico è ben presente nelle esperienze di innovazione dei servizi di Primary Care. Uno studio della realtà francese, per esempio, ha analizzato l’identità dei medici che lavorano in questo tipo di servizi sanitari. Tale studio ha evidenziato che le motivazioni intrinseche (Sicsic, Le Vaillant, Franc 2012) al lavoro di cura sono riconducibili a:
- l’importanza dello scambio fra medici di base e specialisti relativamente alla situazione del paziente;
- lo sviluppo di attività di tutoraggio e insegnamento;
- l’erogazione di attività di prevenzione in relazione all’abuso di alcool e al fumo;
- la prevenzione contro l’obesità;
- il coinvolgimento nelle reti di cura;
- la soddisfazione dell’attività professionale;
- il lavoro considerato professionalmente gratificante;
- la partecipazione alle pratiche di valutazione professionale.
Ma gli elementi che sembrano maggiormente in grado di definire l’identità sono riconducibili: all’attività d’integrazione fra medici di base e specialisti e all’attività di prevenzione. Questi due elementi sono certamente indicatori di un cambiamento di orientamento che sposta l’asse dell’identità dalla specializzazione all’integrazione delle competenze e dalla cura alla prevenzione. Questo spostamento verso la ricomposizione delle conoscenze non riguarda, però, solo l’identità professionale, ma ha anche delle ripercussioni sui processi organizzativi che guidano il percorso di cura.
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La medicina specialistica di fronte al cambiamento di paradigma
La letteratura che si occupa di Primary Care concorda nel considerare l’importanza di un approccio clinico centrato sull’utente. A fronte di questa condivisione, però, non troviamo una chiara e univoca definizione di cosa s’intende con questo concetto. Mead e Bower (2002) hanno fatto una rilettura critica del dibattito cercando di definire alcuni elementi che consentissero di pensare alla centralità dell’utente non solo come un approccio generico ma come vero e proprio modello di gestione del processo di cura.
Gli elementi definitori utilizzati attengono a: “[…] l’esplorazione dei disturbi e delle esperienze di malattia, la comprensione della persona nella sua globalità, la ricerca di un terreno comune di gestione (della malattia), l’inclusione delle attività di prevenzione e di promozione della salute, lo sviluppo della relazione medico-paziente, l’essere realistici relativamente ai limiti e alle risorse personali” (Mead, Bower, 2002).
Una prima lettura di questa definizione evidenzia la compresenza di diverse dimensioni che attengono alle componenti (psico-fisiche e sociali) della persona, ma anche alla costruzione di un processo di comunicazione capace di coinvolgere il paziente nell’analisi e nella gestione del processo di cura.
A conclusione della loro definizione del modello centrato sul paziente, questi autori propongono cinque aspetti fondanti, riconducibili alla necessità di:
- considerare la persona nella sua interezza, prestando attenzione alla dimensione biologica, psicologica e sociale;
- tenere presente che il paziente è una singola persona con percezioni e modi di considerare la propria condizione di malattia;
- condividere il potere e le responsabilità, avendo attenzione alle preferenze dei pazienti e alla necessità di scambiare le informazioni e coinvolgere il paziente nel processo che porta alla scelta della cura;
- prestare attenzione alla costruzione del rapporto di alleanza terapeutica basata sulla condivisione degli obiettivi da perseguire;
- tenere presente che anche il medico è una persona, influenzato nella pratica professionale ma anche dalle proprie qualità personali e dalla propria soggettività.
Questa impostazione pone il problema della cultura che orienta l’agire professionale del medico. L’attenzione alla soggettività e alla globalità della persona sono, infatti, difficilmente riconducibili all’interno di un sapere medico ed un ragionamento clinico centrato esclusivamente sul sintomo e sulla distribuzione statistica di test diagnostico-laboratoriali. Tali distribuzioni statistiche sono costruite per analizzare una popolazione relativamente ad un parametro che può avere un diverso grado di associazione con una determinata patologia. Tale relazione non tiene, tuttavia, conto delle infinite variabili che spiegano la condizione del singolo individuo. In altre parole, la necessità di tener conto della persona nella sua complessità (seguendo un approccio olistico) mal si concilia con un ragionamento parcellizzato che ne consideri separatamente le diverse componenti.
Giarelli (2010), a questo proposito, sostiene che «quando il medico cerca di applicare i risultati della ricerca scientifica al caso clinico che ha di fronte, si crea immediatamente una sorta di dissonanza cognitiva». La dissonanza è prodotta dall’impossibilità di tener conto della complessità e unicità della singola persona. La discrasia fra la dimensione clinica affrontata attraverso l’analisi dei sintomi e perseguita attraverso l’interpretazione dei singoli parametri su base statistica, la dimensione sistemica del funzionamento del corpo umano e la rielaborazione personale del vissuto della malattia da parte del paziente, necessitano di una ricomposizione in chiave olistica.
La complessità di questo processo è data dalla compresenza di alcuni fattori che influenzano il processo di cura, in particolare possiamo parlare di:
- un confronto fra la segmentazione delle informazioni cliniche e la necessità di considerarle (e ridefinirne la rilevanza) in una prospettiva globale;
- un confronto fra l’interpretazione dei dati (oggettivi e/o soggettivi) clinici fatta dal medico o dal paziente alla luce del proprio vissuto esperienziale, che contiene anche implicazioni emotive vs cognitive fortemente differenziate.
Questi elementi di complessità, rivisti alla luce di un approccio centrato sul paziente, evidenziano la necessità di costruire un processo di cura che combini il contributo ‘analitico’ fornito dalle evidenze (proprie della cultura della Evidence Based Medicine) con quello ‘comprensivo’ fornito dalla ricostruzione delle caratteristiche originali insite nelle storie personali (Narrative Based Medicine). La complessità di questa integrazione è legata anche ai paradigmi scientifici sottesi da queste diverse esigenze che attengono all’idea positivistica, da una parte, ed ermeneutica, dall’altra, di costruzione della conoscenza.
Un ulteriore elemento di complessità è legato alla scelta, insita nella logica dell’intervento centrato sull’utente, di assegnare grande rilevanza ai processi di comunicazione fra chi eroga e chi riceve la prestazione sanitaria. Kreps (2009) sostiene che l’efficacia delle cure sanitarie e dei processi di promozione della salute dipendono dalla capacità di risolvere positivamente gli elementi di ambiguità che caratterizzano le situazione complesse. Nel nostro caso si tratta di sviluppare un confronto fra i fruitori dei servizi e gli attori chiamati ad erogare le prestazioni. Tale confronto deve consentire agli attori di attivare un processo di costruzione di senso (Weick 1997).
Secondo Weick ogni attore sociale è portatore di proprie mappe cognitive, attraverso le quali interpreta le informazioni che incontra. Quando le informazioni risultano nuove e non sono facilmente interpretabili si attiva un meccanismo (sense making) che porta allo sviluppo di tali mappe. È questo processo di ridefinizione delle conoscenze che consente di dare senso allo scambio delle informazioni. Partendo da questa impostazione della comunicazione, possiamo assumere che il coinvolgimento attivo del paziente nel processo di cura comporta lo sviluppo di una comunicazione capace di ridurre le ambiguità legate alle diverse mappe cognitive degli attori (medico e paziente) che entrano in relazione. Questo meccanismo di comunicazione deve, di fatto, consentire di attivare un processo di costruzione di significati condivisi.
Kreps (2009) sostiene che, per riuscire ad attivare un processo di sense making, chi gestisce e chi riceve la prestazione devono:
- impegnarsi in regolari contatti comunicativi con le organizzazioni chiave esterne e rappresentative dell’ambiente per identificare gli argomenti centrali e trattare le informazioni ambigue;
- rimanere vitali ed efficienti, trattare le informazioni con lo stesso grado di ambiguità. Se trattano informazioni ambigue come se fossero chiare (senza costruire un appropriato ciclo del comportamento comunicativo) è probabile incorrere in errori fatali, perché reagiranno impropriamente agli input. Se maneggiano informazioni inequivocabili come se fossero equivoche (producendo una variabilità di interazioni dubbie) possono distruggere le energie organizzative;
- sforzarsi di registrare accuratamente il livello di ambiguità nelle informazioni che raccolgono, costruire un ciclo del comportamento comunicativo appropriato, in risposta agli input, ed elaborare gli input ambigui producendo output desiderabili per l’organizzazione. Attenzione deve essere data nel valutare accuratamente gli input informativi;
- facilitare l’adattamento organizzativo all’ambiguità informativa producendo connessioni in tutto il sistema delle cure sanitarie, il suo ambiente pertinente, e attivare interazioni con gli attori chiave (risorse informali) sulle azioni difficili. I clienti delle cure sanitarie e i fornitori devono chiedere in merito alle questioni rilevanti quando elaborano input informativi difficili e lavorare con gli altri quando affrontano compiti troppo complessi per loro da comprendere individualmente;
- concentrarsi meno sulle azioni individuali e di più sui comportamenti comunicativi intrecciati da gruppi indipendenti dai membri dell’organizzazione. Il processo di controllo interno al sistema di cure sanitarie si realizza attraverso relazioni tra individui, piuttosto che da singoli individui;
- sviluppare programmi di formazione nelle organizzazioni sanitarie enfatizzando: il lavoro di squadra; gli incontri quotidiani e settimanali tra membri dell’organizzazione; le azioni di problem solving. Si possono formare gruppi di sostegno sociale per intrecciare i comportamenti comunicativi necessari per l’adattamento;
- prestare attenzione a trattenere le informazioni rilevanti sulle modalità di gestione della cura e sulle situazioni di promozione della salute. Ogni attività precedente di cura e di promozione della salute costituisce un precedente ed un punto di confronto per le attività future» (Kreps 2009, p. 348).
Questi punti sottolineano la rilevanza delle modalità di gestione della comunicazione per ridurne l’ambiguità interna. È il confronto fra gli attori che consente di far emergere le strutture cognitive attraverso le quali i soggetti interpretano le informazioni scambiate. Tale confronto attiva un processo di sense making che può portare alla costruzione di mappe cognitive condivise e, conseguentemente, consentire lo scambio di conoscenze e informazioni. Kreps (2009), infine, ci ricorda che questo processo non deve essere chiuso all’interno delle organizzazioni che erogano le prestazioni sanitarie, ma deve coinvolgere tutti gli stakeholder interni ed esterni al sistema sanitario.
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Medicina Specialistica e Cure Primarie: la centralità dei processi di Governance
Il cambiamento di paradigma fin qui illustrato rende di centrale importanza la cura dei meccanismi di governo che sottostanno alla rete di relazioni sia a livello micro (fra differenti professionisti) che a livello macro (fra le organizzazioni per le quali lavorano). Nel primo caso diventa centrale lo sviluppo del lavoro in team, nel secondo dell’integrazione tra contesti di cura (l’ospedale e il territorio).
Dal lavoro individuale al lavoro in team: la presa in carico condivisa
Numerosi studi sono stati fatti relativamente agli effetti prodotti dall’introduzione di logiche di lavoro in team nella gestione della Primary Care. I risultati emersi da questi lavori non sono sempre concordanti. Jesmina (Jesmina, Thinda, Sama, 2012), nella loro analisi della situazione prodotta in Canada con l’introduzione di processi di lavoro in team, mostrano che “la maggior parte dei processi e degli indicatori di outcome, come l’accesso alle cure fuori orario, la qualità della cura, la continuità della cura, la fiducia nel sistema, l’utilizzo dei servizi di assistenza fisica e dei servizi infermieristici, l’orientamento alla persona, la globalità di approccio alle cure, le iniziative di prevenzione e promozione della salute, sono tutti aspetti positivamente associati alle pratiche di lavoro in team. Mentre non ci sono relazioni significative per le difficoltà di accesso, il coordinamento nei processi di follow-up ed in generale nei processi di coordinamento” (Jesmina, Thinda, Sama, 2012). Questi autori, in definitiva, con la loro ricerca evidenziano che, dal punto di vista dei pazienti, il lavoro in team ha numerosi effetti positivi che consolidano l’importanza di considerare questo aspetto come uno degli elementi fondanti della medicina territoriale.
Quest’analisi porta gli autori a sostenere che l’organizzazione in team consente di produrre:
- migliori risultati di salute;
- minori tempi di attesa;
- una miglior qualità della cura;
- un maggior grado di empowerment del cliente;
- un aumento della soddisfazione degli utenti;
- una riduzione delle visite ai medici;
- una minor ospedalizzazione;
- un minor uso di medicamenti per paziente;
- un aumento dell’erogazione di cure preventive;
- comportamenti più sani;
- una maggior frequenza delle diagnosi precoci.
Anche altri studi fatti nel Regno Unito, in Australia ed in Canada sull’attività dei medici di medicina generale segnalano che il lavoro di gruppo produce una miglior capacità di gestione di alcune patologie croniche (per esempio il diabete, la gestione dell’asma, l’ipertensione ecc.).
Alla base di questi effetti le ricerche segnalano esserci la condivisione delle responsabilità, l’attenzione alla globalità della persona e la maggior attenzione alle attività di prevenzione.
I meccanismi che portano ad un miglior risultato in termini di outcome possono essere ricondotti al fatto che (Jesmina, Thinda, Sama, 2012):
- la presenza di diverse professionalità consente di distribuire fra tutti i membri del gruppo il lavoro. In particolare questo consente di liberare i medici dal lavoro organizzativo e da quello caratterizzato da una minor complessità clinica, con effetti significativi in termini di efficienza ed efficacia;
- lo sviluppo delle attività di coordinamento ed integrazione che consentono di affrontare meglio i problemi della co-morbilità;
- la possibilità di confrontare saperi e competenze consente di migliorare la performance clinica;
- si generano effetti di scala nell’uso del tempo. È infatti possibile prevedere diversi servizi allo stesso paziente e nello stesso appuntamento;
- l’integrazione fra i medici di medicina generale e gli specialisti che operano nel territorio. Per altro, non tutti i lavori di ricerca concordano con quest’analisi e alcuni studi segnalano rischi d’inefficienza legati alla difficoltà di lavorare insieme e all’aumento della complessità dei processi organizzativi. In altre parole non basta costruire processi formalmente integrati, ma va costruita una cultura del lavoro di gruppo.
In un contesto come quello descritto, nel quale la tendenza è quella alla territorializzazione delle cure, risulta di centrale importanza ricomporre identità e pratiche delle figure mediche che operano sul territorio, al fine di promuoverne coordinamento e collaborazione.
Una ricerca promossa dall’Università Ca’ Foscari (Bertin 2013) ha individuato ed analizzato quali sono le linee di riorganizzazione dell’identità dei medici specialisti ambulatoriali: medici che lavorano presso strutture del territorio, ma che hanno una cultura specialistica libero professionale. L’ipotesi che ha guidato la ricerca è che i cambiamenti in atto nei sistemi sanitari abbiano avuto ripercussioni significative sull’identità dei medici specialisti ambulatoriali ossia i medici specialisti (e.g. ortopedici, oculisti, dermatologi, dentisti…) che lavorano in strutture del territorio (Aziende Sanitarie/Ospedaliere o altri Enti) in regime di convenzione. Tali professionisti non sono dipendenti dell’organizzazione per la quale lavorano, ma svolgono presso di essa un numero variabile di ore di servizio.
Il medico specialista si trova ad essere “crocevia” tra differenti logiche: quella libero-professionale, da un lato, che definisce identità e pratiche lavorative (quali l’autonomia e indipendenza di giudizio e il lavoro in solitaria), e quella della subordinazione, dall’altro, essendo parte strumentale di una organizzazione che agisce secondo logiche di funzionamento gerarchico.
I fattori d’identità individuati dalla ricerca permettono di delineare una figura professionale che:
- lavora in coordinamento con gli altri specialisti delle Cure Primarie (Medico di Medicina Generale, Pediatra di Famiglia, altri specialisti) e ospedaliere (di primo soccorso e degenza);
- è presente in maniera continuativa e strutturata nella costruzione, attivazione e gestione dei percorsi clinici terapeutici, non solo in qualità di consulente;
- lavora in team organizzati secondo criteri multidisciplinari e pluriprofessionali;
- prende parte ai processi dell’Azienda/Ente per la quale lavora, assumendo ruoli di responsabilità, non di mera erogazione di prestazioni, nella definizione di protocolli e standard;
- partecipa alla presa in carico del paziente, instaurando una relazione di cura continuativa e promuovendo una presenza capillare sul territorio;
- collabora con le strutture di cura presenti sul territorio, effettuando prestazioni specialistiche presso le medesime;
- organizza il proprio lavoro in maniera autonoma e cura l’aggiornamento professionale.
Un professionista che, lungi dal configurarsi come strumentale o ancillare per il medico di medicina generale, si configura come partner e membro di una rete che si fa carico della complessità dello stato di malattia e fragilità dei pazienti.
Un professionista che, tuttavia, se da un lato appare motivato e soddisfatto della scelta professionale, dall’altro evidenzia anche un vissuto d’insoddisfazione nei confronti del sistema sanitario che sembra non valorizzare appieno le sue caratteristiche e potenzialità. Tale insoddisfazione influenza anche il rapporto con gli altri attori dell’assistenza sanitaria (medici di base, pediatri, infermieri, tecnici della riabilitazione) e contribuisce a spiegare la difformità di valutazioni fra quanto dichiarato e quanto vissuto dagli specialisti nel rapporto con le altre figure impiegate nell’assistenza sanitaria. Gli specialisti valutano di fondamentale importanza “assicurare il consulto con gli altri professionisti del territorio”, “assicurare il consulto con i professionisti ospedalieri”, “creare un buon rapporto collaborativo tra medici di base/pediatri e specialisti”, “essere corresponsabili della presa in carico”. A fronte di questi atteggiamenti volti alla collaborazione, però, è emersa la difficoltà della loro attuazione, resa evidente dal fatto che uno specialista su tre dichiara di non avere rapporti con il medico di famiglia. Si evidenzia, quindi, un certo grado di separatezza fra i la medicina generale e quella specialistica a fronte di una manifestata volontà d’integrazione.
I risultati della ricerca offrono interessanti spunti di riflessione per ripensare al ruolo che la medicina specialistica può svolgere nel territorio: mettono in luce la presenza di professionisti che in larga parte sono disponibili a viversi come corresponsabili dei processi di presa in carico dei pazienti e della promozione della salute dei cittadini. Ruolo centrale, in tal senso, è affidato ai processi di riordino dell’Assistenza Primaria e specialistica avviati a livello regionale in seguito al Decreto Balduzzi (Legge 8 novembre 2012, n. 189), che parla esplicitamente di forme organizzative mono-professionali (Aggregazioni Funzionali Territoriali) e multi-professionali (Unità Complesse di Cure Primarie). Si tratta di una prospettiva che diviene fondamentale continuare ad approfondire sia per la centralità che il coordinamento e l’integrazione professionale rivestono nei processi di cambiamento delle Cure Primarie (con particolare riferimento alla gestione della cronicità) sia per la possibilità offerta alle sperimentazioni che promuovono l’integrazione tra medicina di base e specialistica territoriale, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra i diversi ruoli professionali medici nel territorio, a vantaggio dei cittadini.
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Processi di governance: integrazione delle competenze, degli interventi e delle politiche
La necessità di spostare il centro del sistema sanitario verso il territorio si confronta-scontra con i sistemi di potere e con la cultura che ha caratterizzato il sistema sanitario nella sua fase di sviluppo. Il processo di decentramento nel territorio sta evidenziando la forte differenziazione dei contesti ospedale-territorio. Dal punto di vista dei processi di governo il territorio e l’ospedale sono caratterizzati da dinamiche e culture di contesto fortemente differenziate (Tab. 2). L’ospedale si è sviluppato seguendo la logica delle grandi organizzazioni (fordista) e della cultura che ha caratterizzato il sapere medico, vale a dire la specializzazione. Questo impianto strutturale e culturale ha portato a sistemi organizzativi relativamente chiusi. Le dinamiche di turbolenza riguardano l’evoluzione dei quadri epidemiologici, dei saperi clinici e delle tecnologie, ma le dinamiche sociali ed i cambiamenti dei sistemi di preferenza degli attori sociali risultano relativamente poco capaci di attivare cambiamento. La relativa chiusura e stabilità ha due implicazioni. La prima riguarda le dinamiche degli attori e la distribuzione del potere. Gli attori chiave che determinano i processi di governo sono, infatti, i manager e i professional. Esistono sicuramente delle dinamiche di influenzamento politico, ma riguardano prevalentemente la nomina degli organismi di indirizzo strategico e, per il resto, seguono dinamiche di tipo informale. La capacità di incidere nei processi reali da parte delle forze sociali, dei cittadini e delle amministrazioni locali è sicuramente inferiore. La seconda riguarda le dinamiche organizzative che si caratterizzano per una cultura di tipo gerarchico e una struttura segmentata in ragione della specializzazione progressiva del sapere scientifico e delle dinamiche di potere fra i gruppi professionali.
| Ospedale | Territorio |
Apertura sistema | Bassa | Alta |
Complessità | Relativamente bassa | Relativamente alta |
Relazioni fra attori | Gerarchia | Rete |
Attori chiave | Manager, professional clinici, (politici, regione) | Politici (regione ed enti locali), manager, professional clinici, cittadini, terzo settore |
Integrazione | Segmentazione e specializzazione | Coordinamento multi-professionale |
Il territorio presenta caratteristiche decisamente diverse. In primis, si tratta di sistemi necessariamente più aperti e interessati dalle dinamiche sociali che caratterizzano i singoli contesti locali. Lo spettro delle dinamiche che attivano la domanda è sicuramente più ampio, spesso legato alla presenza di condizioni di disagio sociale non sempre facilmente riconducibile ad un quadro nosologico chiaro.
Questa maggior variabilità della domanda è anche temporale nel senso che i cambiamenti sociali si riverberano più direttamente nella definizione di condizioni di disagio che attivano una domanda d’interventi socio-sanitari.
Lo spettro ampio di attivazione della domanda e la frequente multidimensionalità che la accompagna hanno come corollario la complessità del sistema, riconducibile alla compresenza di diversi attori che possono essere chiamati in causa. Questi attori, inoltre, non sono tutti appartenenti al sistema sanitario ma operano in modo autonomo nello stesso campo di azione. Ne consegue che le dinamiche organizzative che caratterizzano le relazioni fra questi attori non sono di tipo gerarchico ma richiamano la metafora della rete. Alta complessità, forte apertura del sistema territoriale e dinamiche di rete implicano una diversa configurazione degli attori coinvolti e delle dinamiche di potere che li connettono.
La variabilità delle situazioni, la multidimensionalità dei fattori causa che generano la domanda, e la conseguente minor incidenza del sapere specialistico rimettono in discussione i ruoli e le relazioni di potere fra gli attori. Ne risulta che la dimensione politica, anche nelle sue articolazioni territoriali (gli enti locali) finisce per assumere un peso più rilevante nelle scelte strategiche, ma talvolta anche in quelle operative. Al di fuori delle dinamiche gerarchiche, infatti, i ruoli risultano più dinamici e meno strutturati in termini di posizioni di potere. Sono, infatti, i processi di scambio materiale e simbolico che definiscono le relazioni di potere fra gli attori del territorio.
Nell’affrontare il problema delle dinamiche di governance è utile ricordare inoltre le dinamiche che caratterizzano i processi di differenziazione e integrazione. Anche in questo caso, la natura multidimensionale dei problemi richiede forte integrazione multi- professionale che avviene se e solo se le professioni implicate utilizzano strutture linguistiche e semantiche compatibili e si relazionano sulla base di una reciproca legittimazione. Queste condizioni sono il risultato di processi riflessivi di costruzione di senso che fondano su una comune rielaborazione delle esperienze.
La differenziazione dei contesti richiede che i processi di governance territoriali assumano forme e processi specifici (Bertin, 2009), capaci rappresentare le loro diverse caratteristiche. In altre parole i sistemi sanitari non possono pensare di colonizzare i territori con la stessa cultura di governo utilizzata nella gestione dei sistemi ospedalieri. In questo sta una delle maggiori difficoltà del processo di cambiamento in atto che deve consolidare all’interno dello stesso sistema processi di governo che assumono caratteristiche e logiche diverse, pur dovendosi integrare fra di loro.
La presenza di domande di governo diverse si evidenzia da alcuni elementi di conflittualità o quantomeno da scelte organizzative diverse fatte dalle singole realtà e che rappresentano il prevalere di logiche di tipo centralistico (la colonizzazione del territorio da parte della cultura ospedaliera) o di reale spostamento del fulcro del sistema sul territorio attraverso scelte organizzative coerenti. Alcuni aspetti che possono fungere da cartina al tornasole di questo dibattito possono essere ricondotti a:
- la definizione del rapporto fra dipartimenti e distretti. Scelte che centrano la struttura organizzativa (personale, budget ecc.) sui primi finiscono per assegnare al Distretto il solo ruolo di contenitore geografico di dinamiche e processi governati dai dipartimenti seguendo, probabilmente, logiche di governo ancorate alla cultura della segmentazione specialistica più che all’integrazione multiprofessionale;
- la composizione della direzione strategica. Anche in questo caso la rappresentanza o meno, nella direzione strategica, delle dinamiche territoriali e la presenza delle diverse culture professionali (sanitarie e amministrative ma anche sociali) che operano nel territorio orientano verso la compresenza di processi di governo diversi o al prevalere della cultura organizzativa tradizionale (con il prevalere della gerarchia);
- il coinvolgimento degli attori chiave del territorio nello sviluppo delle decisioni strategiche. In questo caso l’analisi deve guardare alla struttura dei processi partecipativi. La costruzione di tavoli di lavoro comuni, il ruolo attivo delle autonomie locali nella formulazione delle decisioni strategiche, il ruolo del terzo settore come attore dello sviluppo della comunità locale sono tutti indicatori che evidenziano la scelta di tener conto delle caratteristiche dei processi di governo del territorio;
- le caratteristiche dei sistemi informativi ed i protocolli di comunicazione, il possesso delle informazioni.
Conclusioni
In definitiva, la revisione delle esperienze e del dibattito in corso consentono di individuale alcuni degli elementi che posso essere posti alla base del nuovo paradigma di riferimento per l’innovazione della community care e la nuova collocazione della medicina specialistica in questo nuovo scenario. In questa direzione risulta sicuramente rilevante:
- sviluppare la condivisione delle infrastrutture informatiche che permettono di mettere in rete tutti gli attori del sistema socio-sanitario;
- attivare la formalizzazione dei processi assistenziali attraverso l’adesione a comuni linee-guida e percorsi diagnostici e terapeutici assistenziali per patologie croniche ad elevata incidenza;
- individuare indicatori di processo e di esito che permettano la misurazione e la verifica delle performance;
- implementare l’audit clinico, sia individuale sia di gruppo;
- realizzare attività formative e di accompagnamento dei processi di cambiamento finalizzati alla costruzione di una cultura operativa condivisa fra diverse professionalità e unità organizzative;
- chiarire le responsabilità del livello territoriale, in particolare con riferimento all’attribuzione del budget anche delle medicine di gruppo, alla programmazione degli interventi distrettuali, alla performance e alla verifica degli esiti.
Infine, la letteratura suggerisce che gli elementi posti alla base del nuovo paradigma si riflettono su alcuni processi centrali nel lavoro di cura. Porre al centro il paziente e costruire un processo di intervento di tipo olistico richiede:
- un aumento del ruolo del paziente e lo sviluppo della propria capacità di partecipare attivamente alla gestione della propria salute. In questa prospettiva l’empowerment del paziente diventa un obiettivo centrale che orienta la relazione fra chi eroga il lavoro di cura e chi riceve l’intervento;
- di ripensare alla classificazione della condizione di salute-malattia. Anche in questo caso la letteratura segnala che chi opera con logica olistica finisce per trovare difficoltà nel classificare le condizioni di salute delle persone in sistemi centrati sui sintomi, anche se integrati da una registrazione delle condizioni sociali e ambientali entro cui tale condizione si sviluppa.
Questi due aspetti costituiscono elementi fondamentali per riuscire a consolidare i cambiamenti nelle relazioni fra erogatore e fruitore del lavoro di cura, ma consentono anche di porre le relazioni e gli scambi informativi fra i professionisti su basi divere e far interagire la medicina specialistica con le altre professioni sanitarie, in una logica di ricomposizione delle conoscenze e delle informazioni e non in una logica di divisione rigida dei confini professionali.
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